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La traduzione come pratica dell’accoglienza

I Travestiti, La Gitana,1968 di Lisetta Carmi, courtesy Galleria Martini Ronchetti
19 Giugno 2020
Anita Raja

Voglio premettere che non sono una traduttrice di professione, nel senso che la mia attività di traduttrice letteraria dal tedesco è stata sempre un’attività collaterale, che mi ha accompagnato negli ultimi trentacinque-quaranta anni in modo costante ancorchè saltuario, e che ho svolto essenzialmente per piacere. È una differenza importante: poiché tradurre non è mai stato il lavoro che mi dava da vivere, ho avuto il grande privilegio di poter scegliere i testi che mi interessavano, che cioè avevano ai miei occhi buone se non elevate qualità letterarie e che in ogni caso comportavano un mio più o meno forte coinvolgimento.

Che cosa è, per me, tradurre letteratura? È stabilire una relazione tutta verbale che, partendo da un testo scritto, genera un altro testo scritto: non solo quindi un rapporto tra due lingue, ma soprattutto un rapporto tra due scritture, tra due atti di parola che per loro natura sono fortemente individualizzati.

Questa relazione non è paritaria, anzi è caratterizzata dalla disparità, perché chi traduce è sempre in una condizione di servizio, cioè si pone al servizio di un testo di partenza che detta il testo di arrivo. Chi traduce deve far posto a un testo fortemente strutturato, e per farlo deve tirarsi indietro, accogliere l’altra/o, lasciarsene invadere, ospitarla/o.

Parlo naturalmente del tradurre il testo di una grande scrittrice o un grande scrittore, di una persona cioè con una capacità di formalizzazione molto elevata. In tal caso chi traduce subisce l’autorità, la fascinazione del testo di partenza, e offre il proprio linguaggio con amore, con passione, con ammirazione, con devozione. Tradurre allora significa piegarsi parola dietro parola, frase dietro frase, alle necessità del testo di partenza, forzare la propria, più modesta capacità di linguaggio per essere all’altezza dell’originale.

La mia tesi, insomma, è che la traduzione è un’opera di ri-scrittura, che ha la prerogativa dell’ospitalità e l’obbligo di reinventare ogni volta uno spazio linguistico adeguato ai bisogni del testo originale. Tradurre cioè non è mai trascrivere, ma ri-scrivere in un’altra lingua, naturalmente in modo non libero, e tuttavia inventivo. Il traduttore è integralmente votato a inventare – proprio nel senso di “trovare”, “escogitare” – il modo migliore per ospitare l’originale.

Mi riferirò, nel corso di questa comunicazione, al mio lavoro di traduzione di due autrici del Novecento: Christa Wolf (di cui mi sono occupata in modo sistematico) e Ingeborg Bachmann (un’esperienza per me molto importante anche se ho lavorato sui suoi testi in modo occasionale).

Per quanto riguarda C.W., dirò subito che il legame che ho stabilito con lei – con la sua opera e con la sua persona – nella sua irripetibile unicità è difficilmente riducibile a uno schema.

A Christa Wolf (1929-2011) sono arrivata nei primi anni Ottanta, dopo aver tradotto diverse autrici della ex Ddr, lavoro che, all’epoca, mi appassionava perché dei paesi dell’Est Europa si sapeva poco o niente e mi pareva stimolante la possibilità di fare da ponte tra culture e sensibilità femminili distanti e nello stesso tempo sorprendentemente vicine. La lettura dei testi di C.W. mi ha portato però ben oltre questa curiosità: ricordo l’impatto con Cassandra, il suo primo libro che ho tradotto; ricordo la forte ammirazione per la potenza della scrittura, malgrado la tonalità “alta”, abbastanza distante dalla mia sensibilità. La vita nella Germania dell’Est, la condizione di un’autrice sempre in precario equilibrio tra dissenso e conformità, precipitavano in una rivisitazione del mito moderna e avvincente, animata da un modo nuovo di dar forma all’esperienza femminile.

A partire dal 1984, con la pubblicazione di Cassandra in Italia, la conoscenza dell’autrice attraverso la mediazione del testo tradotto si è trasformata in conoscenza personale, in amicizia. Il rapporto tra due lingue, il rapporto tra il testo originale e la sua traduzione, è diventato anche rapporto tra due persone. Dalla parola scritta si è passate cioè a quella orale, al corpo, alla voce, allo spazio domestico, allo spazio pubblico, insomma alla conoscenza diretta dei molti piani dell’esperienza che lei volgeva in letteratura.

Ciò mi ha sicuramente arricchita, ma non so se ha pesato nel rapporto tra chi traduce e il testo da tradurre. Ho accennato prima alla disparità che caratterizza la traduzione. Certo, il rapporto con l’autrice è stato per me molto fecondo, sono stati messi in gioco sentimenti importanti: affetto, ammirazione, riconoscenza, nella doppia accezione di gratitudine e di un di più di conoscenza. Ma la disparità è rimasta, implicita nel testo e in qualche modo resa ancor più visibile dal rapporto personale.

Il testo ci domina. Ci tiene stretti nella sua rete già come lettrici/lettori, anche quando leggiamo un libro che amiamo é difficile capire dove finiamo noi, dove il personaggio, dove ci pieghiamo alle intenzioni dell’autrice o dell’autore, dove inseriamo le nostre intenzioni. Ancora più ci tiene stretti, ci governa, nel lavoro di traduzione. Tradurre dunque significa accettare quella disparità, vedere con chiarezza la rete del testo, farsene lucidamente intrappolare. Tanto più che un testo che suscita ammirazione, che ci domina, dà la sensazione che chi l’ha scritto sia riuscito a dire cose per le quali non avevamo le parole. Avvertiamo che se avessimo saputo scrivere ci sarebbe piaciuto scriverlo proprio così come é scritto, che chi l’ha scritto é come se l’avesse scritto pensando proprio a noi.

Sono impressioni che l’atto del tradurre deve accogliere e potenziare. Accettare che quella parola è più potente della nostra significa cercare con tutte le nostre forze la via per colmare la divaricazione, per arrivare nei limiti del possibile a far combaciare testo originale e testo d’arrivo. Nei limiti del possibile, appunto.

Accettare la disparità non è un atto di resa, anzi, decidersi a tradurre è una negazione della resa. Chi traduce marca i propri limiti e tuttavia, per devozione, è disposto a forzarli, o almeno prova a farlo. Dal riconoscimento della disparità muove la domanda che dovrebbe assillare chiunque traduca: “quanto sarò capace di trasportare, nella mia lingua, della sua parola?”. Stiamo a Christa Wolf. È una scrittrice che agisce sulle strutture lessicali, grammaticali e sintattiche della lingua tedesca, sull’attività metaforizzante, sul modo di stabilire nessi logici. Un elemento peculiare della sua scrittura è il gioco dei pronomi: la persona ora è compatta, ora appare scissa in un io, un tu, un lei, a seconda delle fasi della vita. L’io che attua l’atto di scrittura non si nasconde ma affiora sempre esplicitamente sulla pagina, segnala i punti suoi di immedesimazione con la vicenda, coi personaggi. La scrittura tende a forzare la disposizione lineare della sequenza narrativa e a riprodurre la compresenza e la simultaneità di eventi interiorizzati che si sottraggono alla convenzione cronologica lineare. Il filo del racconto si snoda liberamente tra piani temporali diversi, mescolando alto e basso, citazioni letterarie colte, espressioni colloquiali e gergali. Le parole più comuni sono come sfogliate strato dietro strato, scivolando da un periodo all’altro attraverso gli strati di senso accumulati lungo la loro storia. Discorso diretto e discorso indiretto spesso derivano l’uno dall’altro senza soluzione di continuità.

Tradurre , in questo caso, ha significato quindi non solo vigilare rigorosamente sui movimenti del testo originale, ma soprattutto interrogarsi sulle possibilità della lingua di chi vi si accosta. Pensiamo al sessismo del linguaggio, del quale, quando ho cominciato a tradurre, avevo una consapevolezza pratica ma una vaga, distratta percezione linguistica. C.W. ne aveva invece una percezione linguistica elevatissima, cosa che mi ha indotto di rimando a fare i conti con il sessismo ben più marcato della lingua italiana, a rifare il percorso della Wolf dentro il mio specifico universo linguistico cercando di tenerle dietro. Potrei fare a questo proposito innumerevoli esempi: l’attenzione alle “metafore morte” incamerate nel linguaggio; la falsa neutralità della forma impersonale; l’attenzione alle desinenze pronominali e la difficoltà di renderle in italiano; l’ossessione per ogni participio passato – che in tedesco non si concorda e in italiano sì; l’attenzione a un maschile che si traveste da neutro universalizzante; eccetera.

Insomma, traducendo C.W. ho scoperto che il lavoro di traduzione può diventare una sfida ai limiti del linguaggio, una sfida particolarmente stimolante proprio perché la lingua potente dell’originale agisce su colei o colui che traduce, sospingendola o sospingendolo per vie che, autonomamente, non avrebbe mai tentato. La posta in gioco è sintetizzata da una formula usata da C.W.: un testo deve avere “l’indeterminazione più precisa, la molteplicità di senso più limpida”. La traduzione letteraria deve avere questa ambizione: ottenere nella lingua d’arrivo “l’indeterminazione più precisa, la molteplicità di senso più limpida” dell’originale.

Questa formula è stata usata da C.W. per parlare della scrittura di Ingeborg Bachmann, autrice che in principio mi sono provata a tradurre direi quasi per necessità, muovendo proprio dall’interno del mio lavoro su C.W. Nelle sue Premesse a Cassandra la Wolf aveva commentato una poesia di B, Erklär mir Liebe (Spiegami amore), e sebbene esistesse già una traduzione in italiano, ho dovuto ritradurre il testo perché la Wolf leggeva spesso in quei versi significati che il lettore italiano non avrebbe potuto ricavare dalla traduzione esistente. Mi sono ritrovata all’epoca di fronte a una situazione che poi ho incontrato di frequente e che provo a riassumere così: mentre l’originale stimola letture sempre nuove, fondate o meno che siano, la stessa virtù non trasmigra davvero, per quanto chi traduce si impegni a essere massimamente fedele al testo, in nessuna traduzione . Voglio dire che tradurre una poesia della Bachmann attraverso la mediazione obbligata della Wolf mi ha sospinta nel territorio della intraducibilità, nel senso che il modo di leggere Bachmann da parte di Wolf mi ha mostrato praticamente come nessuna traduzione di un testo letterario può accogliere in sé tutte le possibili letture dell’originale.

Bachmann da questo punto di vista è un ottimo esempio. Chi traduce si trova di fronte a una parola così potente da avvertire di continuo la propria debolezza. Posso elencare solo sommariamente alcuni temi che caratterizzano la sua scrittura: 1) La perdita della distanza tra il sé e l’altro, la difficoltà di dire “io” nella gabbia pronominale di cui disponiamo, l’impossibilità di tracciare un confine netto tra io e non-io, proprio perché l’io è plurale 2) La consapevolezza che il linguaggio di cui disponiamo è inadeguato a esprimere la complessità del mondo, a restituire l’esperienza col suo groviglio di passato e futuro, a dire in modo esauriente, per esempio, l’amore femminile (si pensi al romanzo Malina). 3) Il vagheggiamento di una parola salvatrice, di redenzione: una parola che schiuda nuovi mondi e nuovi spazi, che contenga in sé l’esperienza dell’impossibile, dell’amore che non finisce, della non-esclusione dell’altro; il vagheggiamento di una lingua, insomma, che si lasci forzare dall’eccesso, che possa “attraversare confini”. 4) La tensione utopica, infine, che apre alla scrittura come costruzione di un luogo che non c’è ancora.

Questa tensione è al centro di una poesia mai tradotta in italiano, irta di difficoltà, a cui mi sono dedicata anni fa: Böhmen liegt am Meer, “La Boemia sta sul mare”. È stata scritta tra il 1964 e il 1966, è stata pubblicata nel 1968, e si può immaginare il forte impatto politico che ebbe, subito dopo la primavera di Praga e l’invasione sovietica di agosto. Essa dichiara un’impossibilità fin dal titolo: notoriamente la Boemia non sta sul mare.

La molteplicità dei significati mette a dura prova il lavoro di traduzione. La Boemia qui è ein anderes Land, un’altra terra, dalla geografia incerta, visionaria, un luogo letterario e una terra promessa. Tutta la poesia rimanda a Shakespeare: dalla Boemia fantastica alle figure e agli ambienti marittimi shakespeariani.

Bachmann usa le parole sfogliandone i significati stratificati, sventagliandoli sotto gli occhi del lettore. Chi si prova a tradurre è indotto di conseguenza allo stesso lavorio di decostruzione, scoprendo a ogni parola quanto nel passaggio da una lingua all’altra poco si acquista e molto si perde. Soffermiamoci a mo’ d’esempio sul primo verso: Sind hierorts Häuser grün (Se da queste parti le case sono verdi) evoca l’espressione “Jemandem grün sein”, essere accogliente, ben disposto verso qualcuno. Il verde delle case sprigiona, in tedesco, la formula della disposizione ospitale. Lì dove le case non sono verdi, per l’io della poesia non è possibile trovare asilo. Solo i paesi dalle case verdi hanno dimore per i poeti. Ma in italiano? In italiano bisogna accontentarsi del verde associato alla speranza e all’infanzia. L’accoglienza, la buona disposizione verso l’estraneo, si perdono. Ma è solo un esempio: ogni verso di questo testo è un’onda di suggestioni difficile da riorganizzare nel testo d’arrivo. Dirò soltanto che tutto l’impianto formale della poesia oscilla tra i due poli del naufragio e dell’approdo, della caduta e della risalita, dell’immersione e dell’emersione. In un’alternanza di disperazione e di speranza, di sradicamento e di ricerca di nuove radici, i versi approdano infine a una sorta di ricostituzione dopo lo smembramento, a un recupero della parola poetica, ma dentro nuovi orizzonti (“accosto ancora a una parola e a un’altra terra”). In questo senso la Boemia diventa il mondo fiabesco in cui i ponti sono ancora intatti e le case sono verdi, ospitali, la patria di tutti i senza-patria, i “disancorati”, coloro che sono “senza àncora”.

Ma quanto di tutta questa ricchezza arriva in italiano? E se risulta impossibile che arrivi, cosa bisogna fare, rinunciare a tradurre?

Come ho detto all’inizio, io mi sono cimentata solo con testi di letteratura e, in principio, nemmeno con la consapevolezza delle difficoltà legate alla traduzione di un’opera letteraria. Queste difficoltà le ho scoperte traducendo. Ho imparato piano piano che chi traduce (oltre a conoscere bene ovviamente la propria lingua e la lingua dell’originale) dovrebbe essere innanzitutto una buona lettrice o buon lettore, capace cioè di calarsi nella complessità del testo, di smontarne il meccanismo, di percepirne ogni sfumatura: una lettrice o un lettore insomma che ha l’obbligo di riconoscere, rigo dietro rigo, la ricchezza dell’originale e ricostituirla nel testo d’arrivo. Ma è possibile? Un testo può passare integralmente in un’altra lingua? Tutto è davvero traducibile? Cosa è intraducibile?

Chi traduce un testo letterario complesso si scontra continuamente con questo problema, e non necessariamente in rapporto alla grandi questioni connesse all’uso letterario della parola. Un modo frequente di affrontare il problema è la nota del traduttore (tipo “gioco di parole intraducibile”). Ho fatto ricorso anche io a note del genere. Ma oggi credo che “intraducibile” sia solo ciò che, innanzitutto come lettrici o lettori specializzate/i, non riusciamo a cogliere. Ritengo invece che ogni volta che chi traduce percepisce una difficoltà abbia l’obbligo di affrontarla, scioglierla, risolverla. Direi così: tutto ciò che arriva alla comprensione di chi traduce, deve trovare il modo di essere tradotto. E la risorsa maggiore di chi traduce deve essere la sua inventiva.

L’inventiva per la traduttrice o il traduttore è rischiosa, spesso si tende a privarsene in nome della fedeltà al testo. Ma affrontare un problema di traduzione con inventiva non significa affatto rinunciare alla devozione verso l’originale. L’inventiva deve agire all’interno di quella devozione proprio per evitare che la sacralità malintesa del testo generi traduzioni incomprensibili o la stessa intraducibilità. Non sto parlando di leggibilità, di “brutte fedeli” e “belle infedeli” secondo uno stereotipo di grande fortuna. La lettera dell’originale va benissimo, se risolve un problema di traduzione, e fa niente se l’italiano che ne deriva risulta poco accattivante. Come va benissimo combattere la tendenza delle case editrici a mettere tutto in un ‘buon italiano’ che censura l’impatto deragliante tra l’originale e la lingua d’arrivo. L’inventiva a cui sto accennando ha un’altra funzione: essa affronta i problemi di intraducibilità non limitandosi alla singola parola o alla singola frase ma rintracciando testualmente, rifacendo, il percorso mentale dell’autrice/autore, cercandolo passo passo nel testo.

Le soluzioni a cui approdiamo sono buone, sono cattive? Di certo alle opere di valore letterario ogni veste in un’altra lingua va stretta.

E ciò che deborda non solo non lo riconosciamo, ma nemmeno lo vediamo. Chi traduce dovrebbe possedere un grande talento critico e insieme mimetico. Ma anche lo sguardo più acuto, meglio attrezzato, ha una sua miopia. Ogni lettura, ogni traduzione porta i segni della parzialità storica. Il testo d’arrivo non è mai definitivo, è sempre perfettibile. Chi traduce mette in campo tutta la propria determinazione storica, di status, di sesso, il proprio bagaglio di conoscenze, sensibilità, eccetera.

Ma questo bagaglio si logorerà: la lingua che utilizziamo oggi, invecchierà; il testo originale sprigionerà in futuro significati che oggi non vediamo o significati che appanneranno ciò che ci è sembrato di vedere.

Forse dobbiamo concludere che la ricchezza, la plurivocità, del testo originale non si riproduce in una sola traduzione, ma nell’insieme delle traduzioni, quelle precedenti e quelle che seguiranno. Ed è bene e bello che sia così.

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