La storia di Hellen Keller, sorda e cieca
“Avevo preso a cuore le parole di un saggio dell’antica Roma che diceva «Essere banditi da Roma non significa che vivere fuori Roma». Bandita dalle strade principali che portano alla conoscenza, ero obbligata ad affrontare il viaggio attraverso le strade meno frequentate, questo è quanto” (p. 94). Questa frase rappresenta emblematicamente, a mio avviso, una delle chiavi più interessanti che si offrono alla lettura della breve autobiografia di Helen Keller, Il silenzio delle conchiglie (edizioni e/o, 139 pagine, 14 €).
Come ci viene ricordato nella nota finale di questa edizione nuovamente tradotta, il testo è stato pubblicato per la prima volta nel 1903 negli Stati Uniti (prima a puntate su un giornale femminile poi in volume). Nel 1907 è uscita la prima versione in lingua italiana di questa che, in realtà, è un’autobiografia parziale: all’epoca della pubblicazione, H. Keller ha semplicemente ventitre anni.
Nata nel 1880 in Alabama all’interno di una famiglia borghese, a seguito di una malattia non meglio identificata all’epoca (oggi si sospetta la possibilità di scarlattina o meningite), a soli venti mesi perde l’udito e la vista. Grazie alla lettura di America di Charles Dickens, la madre ritrova la vitalità e la speranza annientate dalla malattia della figlia venendo a conoscenza delle possibilità pedagogiche per persone sorde e cieche. Una serie di viaggi porta i membri della famiglia Keller in alcune località degli Stati Uniti per cercare di concretizzare queste possibilità. In uno di questi viaggi fanno la conoscenza di Alexander Graham Bell, dedito alla ricerca e alla pedagogia sulle questioni della sordità (la madre e la moglie ne erano affette), finanziatore di numerose operazioni filantropiche e poi diventato caro amico di Helen che gli dedica questo volume. Nel 1887, ad Helen viene presentata l’istitutrice Anne Mansfield Sullivan (con una forma di cecità a sua volta anche se Helen non ne parla), che diventa la sua insegnante. Il resto delle vicende raccontate è incentrato sul faticoso e avvincente percorso di formazione, non solo scolastico, che porta la narratrice a imparare a parlare e ad intraprendere gli studi universitari che le avrebbero fatto conseguire la laurea nel 1904 all’università di Redcliffe.
La nota finale ci racconta brevemente il percorso di vita successivo, narrato, in parte in altri testi autobiografici. Si laurea ad Harvard in lettere inglesi e tedesche; dopo aver letto Marx e Engels diventa membro attivo del partito socialista del Massachussets e sostiene, in particolare, la causa di lavoratori diventati ciechi in seguito ad infortuni o malattie da lavoro; con una fondazione a proprio nome si occupa di programmi di ricerca su cecità, salute e nutrizione. La sua figura è diventata internazionalmente conosciuta, quattordici presidenti degli Stati Uniti hanno voluto incontrarla, la sua vicenda è stata raccontata in un film Anna dei miracoli (The Miracle worker, 1962) realizzato quattro anni prima della sua morte. Il titolo del film, incentrato sulla sua istitutrice, a torto o a ragione, esprime una realtà che da questo testo emerge molto chiaramente: il profondo legame che, fin da subito, le avrebbe legate (ancora bambina “fui tirata su e tenuta stretta tra le braccia di colei che mi avrebbe rivelato ogni cosa e, soprattutto, che mi avrebbe amata” p. 26).
Trattandosi di un’autobiografia di formazione, di questo percorso della maturità politico-sociale, e della fama costruitasi attorno all’autrice, ricordataci anche da una breve frase di Mark Twain riportata in copertina, in questo volume non c’è alcuna traccia. Che cosa, allora, dovrebbe rendere interessante il racconto autobiografico di una ragazza poco più che ventenne? Il secolo di storia che ci separa dalle vicende narrate non ha sbiadito l’interesse per un percorso umano e intellettuale per certi versi eccezionale e capace di dirci ancora qualcosa, al di là di un mondo e di un personaggio che non ci sono più.
Nella borghese famiglia Keller (con tanto di servitù nera), la menomazione gravemente invalidante di Helen rappresenta, naturalmente, una tragedia vera e propria. Ma cosa è possibile continuare a fare anche se si è diventati sordo-ciechi? Il percorso di formazione intrapreso dall’autrice con il sostegno dei genitori è esemplare nella spinta iniziale, ancor più che negli esiti, nella cultura e nei titoli conseguiti: dotarsi degli strumenti per vivere, non per smettere di vivere o lasciarsi vivere poiché si ha acquisito una menomazione. L’idea di una riappropriazione della vita anche con una disabilità non era (e oggi?) certo moneta corrente neanche nell’America di fine dell’Ottocento. Helen sottolinea quanto sia stata la lettura del racconto di Dickens a mettere la madre sulla strada di un percorso pedagogico per la figlia.
È un investimento che punta su una figlia che poteva facilmente essere considerata persa per sempre. Certo, la famiglia era benestante, una causa necessaria ma non sufficiente a produrre un tale scatto vitale. Inoltre, nonostante il ceto di provenienza, sembra che i genitori non avessero il necessario denaro a disposizione per sostenere l’istruzione della figlia e avevano dovuto ricorrere ad un prestito di quindicimila dollari presso un benefattore, senza riuscire a restituire la cifra. Il padre muore nel 1896 e nel sostenere la figlia nel percorso di formazione e di emancipazione, oltre alla sua istitutrice Anne Sullivan, la madre sembra aver avuto un ruolo importante, oltre la spinta iniziale. Per quanto ne sappiamo davvero poco (la cosa è indicata nel profilo biografico finale), stupisce, purtroppo, che una madre così illuminata sembra aver impedito alla figlia di proseguire la relazione sentimentale avviata nel 1916 con un militante socialista impedendo loro di sposarsi.
Gran parte della narrazione si concentra sul percorso di formazione, non solo scolastico di Helen: la vediamo progressivamente tornare a familiarizzare con un mondo che non sente e che non vede più e con il quale fatica a comunicare, dovendo imparare nuovamente a parlare, da sorda (un occasione per storicizzare nuovamente l’annosa questione tra oralità e linguaggio dei segni che attraversa, ancora oggi, il mondo dei sordi).
La sete di cultura e la fatica che comporta, semplicemente con il sostegno del braille e di un’insegnante dedita a “tirare fuori” espressioni, sentimenti e nozioni, piuttosto che “cacciar dentro”, sono raccontate con una forza e un’efficacia che farebbero bene, oggi, a qualsiasi studente delle scuole superiori e ai suoi insegnanti. Anche il percorso universitario ha qualcosa di esemplare e stupisce la mancanza di pietismo, con le sue pacche sulle spalle e le sue facilitazioni, del mondo accademico frquentato da Helen. Si studia e ci si esprime con mezzi e modalità propri, ma si studia, si conosce, si è curiosi e desiderosi di apprendere. È in questo quadro, in cui conoscenza e cultura sono una cifra dello stare al mondo, che si colloca il pensiero espresso nella citazione con cui cominciavo questo testo. Si cercano altre strade, meno frequentate, per giungere alla conoscenza, alla cultura, all’espressione di sé, metafora di molte altre dimensioni dello stare al mondo, attraverso altre strade meno frequentate. Del resto, apprendere, scrivere, studiare, esprimersi è talmente la cifra della giovane Helen che solo in questo modo si spiegano le pagine in cui narra di essere stata accusata di plagio per aver scritto un racconto identico a quello che aveva ascoltato, una sola volta, molti anni prima. Molto più romatica, e a tratti bucolica, è invece la narrazione di ciò che ha imparato del mondo al di fuori dell’esperienza puramente scolastica e accademica.
La lettura di questo volume, tuttavia, non può fare neanche di noi dei romantici. Non possiamo cioè non ricollocare questo volume nella produzione dell’epoca in cui è uscito, anche con le relative logiche commerciali che ci farebbero rubricare il volume in un semplice prodotto “mainstream”. Anche sotto questo profilo, il volume ha delle cose da dire, a noi, oggi.
L’eccezionalità del percorso umano narrato fino al 1903, in sé e a maggior ragione per l’epoca in cui si è realizzato, è evidente, ma non possiamo nasconderci che la scelta di pubblicare e scrivere questa autobiografia rispondesse alla necessità (e alla volontà dell’autrice) di costruire un prodotto librario che, proprio a partire dall’eccezionalità del percorso di vita, potesse prestarsi, altrettanto eccezionalmente, come favorevole occasione per celebrare nuovamente “l’american way of life”. Del resto, la produzione “mainstream” di H. Keller prosegue con altri volumi che raccontano il suo percorso e contribuiscono, nel contempo, a costruire il suo mito, perché, altrimenti, tanta brama dei presidenti americani di fare la sua conoscenza? Perché il suo socialismo continua ad essere uno degli aspetti meno noti della sua personalità, a vantaggio di un’indistina e internazionale filantropia?
In ogni caso, questo libro e i successivi da lei firmati rappresentano un capostipite editoriale di una produzione che ancora oggi risulta piuttosto diffusa. Negli ultimi due anni, vado a memoria, saranno usciti, in Italia, circa dieci volumi autobiografici di persone con disabilità. Il confronto si impone. Tra il racconto di H. Keller e quello dei nuovi autori con disabilità sono successe molte cose: una su tutte, il passaggio da “edipo e narciso” che, pur nella distinzione tra la storia della cultura americana e quella europea (così ben sintetizzata sotto questo profilo da A. Ehrenberg, La società del disagio), costituisce una delle cifre dello stare al mondo. Non a caso, anche l’editoria gioca con narciso e, nel nostro caso, ha buon gioco nell’investire su “storie” personali di individui quasi già affermati e facilmente trainabili dalla comunicazione mainstream. Si lascia così la costosa espressione del narcisismo in chiave disabile (spesso l’ultima spiaggia di questi individui per riuscire ad emanciparsi dalla loro disabilità) agli editori a pagamento.
Le precauzioni autobiografiche usate da Helen all’inizio del volume (“è con un certo timore che mi appresto a scrivere la storia della mia vita. […] Scrivere un’autobiografia è un compito difficile” p. 9) suonano come cosa superata per la comunicazione delle odierne autobiografie dei “diversamente abili” (espressione che oltre che ipocrita è particolarmente commerciale) riprese dalla comunicazione televisiva e dai social network. Ma il lettore si renderà facilmente conto della piacevolezza della pacatezza delle parole di Keller, racconto di sé fatto con la formula di un mainstream d’altri tempi che ci fa apparire il suo racconto più misurato, fatto di quella modestia che dovrebbe essere propria di ogni storia di vita, raccontata in prima o in terza persona.