Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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La prima “guerra comune”, o della Ginestra

disegno di Lorenzo Mattotti
27 Aprile 2020
Gianfranco Bettin

Potrebbe essere la prima “guerra comune”, quella che unisce il mondo contro il Coronavirus che lo sconvolge e aggredisce. La prima guerra “leopardiana”, combattuta da tutti noi, con gli strumenti delle decisioni politiche, delle leggi e delle ordinanze, dei bilanci pubblici, dell’organizzazione socio-sanitaria e dell’intera organizzazione socio-economica entro un castello istituzionale coerente, orientata da ricercatori e scienziati e magari, appunto, “ispirata” dal nostro poeta e filosofo. Vagheggiata, in un certo modo proposta, nei suoi ultimi anni a Napoli, fino alla morte nel 1837. Anni trascorsi a scansare il colera che funesta la città e a contemplare sgomento un’altra potenza distruttrice della natura, lo “sterminator Vesevo”.

Ammirato dalla tenacia della “lenta ginestra”, che ridà corpo alla vita sulle pendici carbonizzate, Giacomo trova infine il lampo della speranza, cosa rara (ma meno di quanto si creda: “Le mie disperazioni non sempre sono ragionevoli e non sempre si avverano”, lettera al fratello Carlo, 31 luglio 1825) e soprattutto trova la spinta alla resistenza (nemmeno essa rara: “Se bene io comprendo… l’inutilità delle cose umane, contuttociò m’addolora e m’affanna la considerazione di quanto ci sarebbe da fare… ”, a Pietro Giordani, 5 gennaio 1821).

La ginestra contiene, è noto, una radicale e definitiva critica all’ottimismo del tempo, al “secol superbo e sciocco” e alla sua fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” (l’espressione è del cugino Terenzio Mamiani, generoso patriota e educatore pesarese, impegnato in progetti educativi e di edificazione civile). “Sorti” le cui velleità e i cui fondamenti (le “superbe fole” religiose e gli utopismi umanitari, secondo Leopardi) scompaiono “all’apparir del vero” e “caggiono i regni intanto,/ passan genti e linguaggi” e si riproducono le discordie (“gli odii e l’ire/ fraterne, ancor più gravi/ d’ogni altro danno”), perfino al cospetto di una natura che di noi non ha più cura che di una formica. Figuriamoci un virus, che di noi ha bisogno proprio per vivere, nel mentre ci uccide.

Quale nemico peggiore ci serve per capire che, al bando “gli odii e l’ire”, quella contro di esso è l’unica “guerra” sacrosanta?

Susan Sontag ha a suo tempo ammonito dall’usare metafore belliche in questa lotta per la salute e la vita, con ragione. Questa non è, in effetti, né la contesa scatenata da polemos, il demone della guerra civile (che pure, per Eraclito, era il padre di ogni cosa), né la germanica werra, la mischia furiosa, da cui vengono la nostra “guerra” e l’inglese war, e neppure il bellum romano, l’ordine sistematico e articolato finalizzato alla conquista imperiale, insomma la cifra – contenuta in questi etimi – di tutte le guerre che abbiamo finora conosciuto. Quindi, per dire una cosa infine diversa, dovremmo davvero, con Sontag, lasciare questo linguaggio (in realtà, la sua polemica era più in generale contro l’uso di metafore a proposito della malattia, riguardava la “battaglia per l’appropriazione retorica della malattia: da come ci si impadronisce di essa e da come viene assimilata nelle discussioni e nei luoghi comuni”, sapendo bene che “le metafore non possono essere messe alla porta semplicemente astenendosi dall’usarle. Devono essere smascherate, criticate, attaccate, demolite”, in primis, appunto, quella militare, come scrive in L’Aids e le sue metafore, 1988, sviluppando l’idea già centrale in Malattia come metafora, 1977).

Tuttavia, oggi, lo strenuo combattimento che dovrebbe ingaggiare l’intero pianeta, con ogni “arma” necessaria, dalla più povera (starsene soli, starsene in casa, lavarsi le mani) alla più sofisticata e potente (la ricerca in laboratorio di una cura e di un vaccino) passando dal fronte estenuante, nevralgico e coraggioso, della prima linea clinica, questa lotta in corso oggi e qui, ha in effetti la portata di una guerra, nel nostro immaginario segnato dalle grandi prove del secolo scorso e dalla memoria profonda che viene dai tempi più remoti.

Viceversa, una metafora opposta, il “modello medico del bene pubblico” (sempre Sontag 1988), rischia di giustificare “regimi autoritari” suggerendo “implicitamente la necessità di repressione di stato e della violenza” nei confronti di chi viene identificato come (presunto) portatore di malattia, sua causa o suo propagatore, per i comportamenti, per il mancato rispetto delle norme imposte nello stato d’eccezione che la malattia – e la pandemia tanto più – produce e che non ammette violazioni o discussioni sulla propria legittimità a decidere sulla vita privata stessa.

Forse è dunque proprio il caso di uscir di metafora, da ogni metafora, e di restare alla concretezza della cosa, il virus, il male, e degli strumenti per combatterlo (norme, divieti e regole incluse). Perché, certo, di un combattimento si tratta: si lotta, si muore, si tiene duro sul filo della sopravvivenza, con fatica, con dolore, tra i lutti, tra le gioie immense che regala la prima linea di chi difende la vita nelle Terapie Intensive, nei reparti, nelle “disarmate” residenze per anziani, gioie spesso inattese ma sempre frutto di un lavoro strenuo, lo stesso profuso nei laboratori di ricerca, nei centri di calcolo, nell’attesa mozzafiato degli esiti di un test, di un esperimento. Combattimento vero, non metafora. Fatica, scienza, intelligenza, dedizione, professionalità, umanità.

Così, allora, la poetica chiamata alle armi di Leopardi può forse essere accolta anche come un modo per far transitare il linguaggio a un dizionario diverso. “Guerra comune”, l’appella, con un ossimoro implicito (se c’è un “comune”, a chi facciamo la guerra?) e semanticamente rivoluzionario, perché, nello scontro con la vera “inimica” (ecco a chi la facciamo), ci riguarda tutti: “l’umana compagnia” che “tutti fra se confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor…”.

Leopardi la sa lunga, non si fa illusioni. Non dobbiamo farcene, infatti. Lo vediamo, cosa sta accadendo. Al valore supremo di tanti e tante, all’ammirevole generosità, all’ardimento, allo spirito di sacrificio che vediamo ovunque, corrispondono i calcoli avidi, cinici, in campo politico, geopolitico ed economico. Gli stessi calcoli che hanno portato a sguarnire i sistemi di welfare in questi anni, lo stesso approccio “superbo e sciocco” che ha valutato confinabile nell’estremo oriente anche il Coronavirus, com’era stato per la Sars qualche anno fa, e per altri virus, e altre possibili epidemie prima ancora, dimostrando di non aver capito molto del nostro mondo attuale. La stessa sbornia neoliberista, che ha spinto a una sempre più estesa privatizzazione del sistema sanitario e alla delocalizzazione di produzioni a basso valore aggiunto (come mascherine e guanti chirurgici, e tamponi, così da ritrovarsene sprovvisti all’urgenza, specialmente se l’urgenza non la si è vista arrivare malgrado i segnali evidenti). E mentre, al solito, anche il crimine, e in particolare le mafie, si stanno attrezzando per approfittare dell’emergenza, nella preparazione del “dopo” i poteri responsabili del disastro di “prima” si stanno preparando a riproporre in sostanza le stesse logiche (appena igienizzate da inevitabili precauzioni).

Per questo, la “guerra comune” è anche una dura lotta e forse in parte ancora una vera guerra contro chi dal “comune” si estranea, perché di ciò che più lo è, la salute, la vita, è un nemico irriducibile.

La ginestra è un manifesto della resistenza e della lotta – “di solidarietà combattiva”, diceva Walter Binni – ma contiene anche una visione – la speranza, il sogno struggente – di un altro “dopo”, di quando, stretti “in social catena” vittoriosi finalmente noi mortali, “giustizia e pietade altra radice/ avranno allor che superbe fole”, rifondando su nuove basi il patto di civiltà tradito da chi ne è stato e ne è nemico.

Ci libereremo del virus solo se avremo saputo essere più forti anche di costoro. Liberi, di nuovo, di essere liberi, e di fare finalmente, di nuovo, ciò che preferiamo.

Leopardi la vedeva così (al fratello Carlo, 5 aprile 1823). “Veramente non so qual migliore occupazione si possa trovare al mondo che quella di fare all’amore sia di primavera o d’autunno”.

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