La nuova Italia, le vecchie privatizzazioni

Una delle operazioni culturali più efficaci e, contemporaneamente, più devastanti che sono state fatte passare in questi anni è la trasformazione dei diritti in privilegi. Operazione che è andata di pari passo con tutta la vicenda del debito, shock che è servito “a far diventare politicamente inevitabile ciò che è socialmente inaccettabile”.
Per provare a chiarire a pieno questo processo riprendo un ragionamento, sviluppato alcuni anni fa su questa rivista, che la crisi pandemica, a mio avviso, sta rendendo nuovamente di estrema attualità. Infatti, la realtà che abbiamo di fronte evidenzia la pervasività delle politiche liberiste e dei grandi interessi finanziari che oggi cercano di mettere sotto scacco non solo l’economia, ma anche la società, l’intera vita delle persone e persino la natura.
La pandemia e la crisi economico-sociale s’innestano nella “crisi ecologica” provocata dalla logica estrattivista e consumista a cui il nostro pianeta è sottoposto da oltre due secoli. Una delle conseguenze è la crescente vulnerabilità della nostra società rispetto a eventi naturali catastrofici, al ripetersi sempre più frequentemente della diffusione di epidemie come quella del Covid-19, all’approvvigionamento delle risorse essenziali alla vita.
Purtroppo la crisi sistemica nel nostro Paese si innesta dentro un profondo degrado delle istituzioni e della democrazia e dentro una altrettanto profonda frammentazione delle relazioni sociali. In questo senso le sempre maggiori segretezza e opacità delle scelte evidenziano la privatizzazione, di fatto, della politica. Da una parte lo spazio pubblico viene trasformato in merce di scambio per interessi di gruppo familistico, lobby economica, clan, dall’altra emerge una totale subalternità alla cosiddetta teologia della governabilità ossia, quell’idea per cui tutto avviene dall’alto e l’unico problema diviene come prendere quel potere.
I diritti vengono sempre più logorati anche mettendo sotto attacco – a suon di privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali – gli enti locali e la democrazia di prossimità.
L’emergenza sanitaria e la gestione della crisi hanno, dunque, molto a che fare con la democrazia e s’inseriscono nel progressivo svuotamento dei poteri delle istituzioni democratiche e nella trasformazione della loro funzione da garanti dei diritti e dell’interesse generale a facilitatrici dell’espansione della sfera d’influenza dei grandi interessi finanziari sulla società.
Tutto ciò dovrebbe indurre a riprendere una riflessione sulla democrazia, sulla necessità di una sua espansione e sulle modalità mediante cui attuarla anche nella gestione dei beni comuni. Altrimenti questa emergenza rischia di diventare un laboratorio in cui si sperimentano pratiche di eccezionalità giuridica e dispositivi di controllo “per il bene collettivo” che potrebbero divenire in futuro strumenti capaci di agire trasformazioni irreversibili della democrazia formale.
D’altra parte non c’è dubbio che l’emergenza sanitaria dimostri il totale fallimento del modello neoliberista che ha anteposto gli interessi delle lobby finanziarie e delle banche ai diritti delle persone, ossessionato dal pareggio di bilancio, fondato sulla priorità dei profitti d’impresa, sulla preminenza dell’iniziativa privata e su una forte spinta alle privatizzazioni oltre che su un’errata allocazione delle poche risorse disponibili, riducendo quelle a sostegno dei servizi essenziali, aumentando per contro quelle per le spese militari e per le grandi opere inutili e devastanti.
Il servizio sanitario è stato particolarmente attaccato nell’ultimo decennio mediante tagli e privatizzazioni. Una società basata su tale pensiero unico non può garantire protezione alcuna ed entra in piena contraddizione con la salvaguardia della vita stessa. La difesa del diritto alla salute, la sottrazione del servizio sanitario a qualsiasi logica di profitto e di privatizzazione e il suo adeguato rifinanziamento divengono battaglie imprescindibili.
Si apre, quindi, almeno potenzialmente, uno spazio di iniziativa importante per rilanciare la centralità dei beni comuni e dei diritti fondamentali a essi collegati, a partire da quelli essenziali per la vita. Diviene di fondamentale importanza adoperarsi per il rafforzamento dei diritti fondamentali rispetto alle logiche dei vincoli di bilancio, di garantire “l’incondizionabilità finanziaria” dei diritti fondamentali.
Un primo punto di attacco potrebbe essere rivendicare il “diritto fondamentale all’accesso all’acqua”, in quanto straordinario ed efficace paradigma, e poiché questo si apre agli altri diritti, li rappresenta e li tutela in senso più che paradigmatico, perché, ad esempio, il diritto fondamentale all’accesso all’acqua è preordinato alla tutela del diritto alla salute. Sostenere che tali diritti vadano salvaguardati anche in situazioni di vere o presunte crisi economiche significa affermare la loro indisponibilità alle logiche finanziarie e negare che a essere al centro dell’azione politico/normativa sia il mercato, invece che la persona.
Da non dimenticare che la Corte costituzionale in una sentenza del 2016 ha ribadito che “è la garanzia dei diritti incomprimibili a incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” e che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 28 luglio 2010 ha dichiarato il diritto all’acqua potabile e sicura e ai servizi igienici un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani.
Si tratta di una battaglia decisiva per avviare un percorso esattamente sul terreno del conflitto reale oggi in atto tra profitto e vita.
La crisi economica che si sta aprendo presenta certamente caratteristiche inedite pur innestandosi sulle conseguenze di quella avviata nel 2007-2008. Quest’ultima, infatti, si è originata da una crisi del sistema bancario a cui si è posto rimedio mediante un possente stanziamento di fondi (comunque nettamente inferiori rispetto alle cifre attuali) da cui, nella più classica spirale neoliberista, ha preso forma la crisi del debito. Da qui si è avuta una precipitazione sull’economia reale, seppur solo parziale. Certamente ha dato modo di mettere in campo politiche d’austerità e di attacco allo stato sociale, oltre a intensificare la spinta alle privatizzazione dei servizi pubblici.
L’approfondimento della crisi che si sta delineando a seguito della pandemia, invece, ha la sua genesi da un crollo dell’economia reale derivante dalla chiusura forzata di fabbriche, aziende e uffici in molteplici settori, da un ridimensionamento dei servizi pubblici e privati, dal sostanziale blocco degli spostamenti delle persone, con un inevitabile impatto sia sull’offerta che sulla domanda.
Per tali ragioni, per la prima volta da decenni, si stanno mettendo in campo importanti risorse economiche derivanti in parte dai fondi stanziati con Next Generation EU e in parte facendo ricorso a un aumento del debito pubblico, togliendo “incredibilmente” e temporaneamente di mezzo vincoli e parametri del passato, ma spostando la questione sul costo di tale nuovo debito e su chi lo pagherà alla fine.
Occorre, dunque, lavorare per mettere a punto un progetto alternativo di modello produttivo e sociale per affrontare questa crisi e uscirne in avanti. Un progetto che necessariamente deve passare per un’analisi fortemente critica del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ossia lo strumento attraverso cui sono stati individuati i capitoli di spesa e i relativi progetti, il quale si ammanta di nuovo pur odorando già di vecchio: sono annunciati forti investimenti pubblici finalizzati unicamente a sostenere il mercato e le sue logiche costituendo, sotto altre forme, un elemento di continuità con le solite ricette liberiste che ci propinano da 30 anni.
La cosiddetta riforma del settore idrico, inserita nella quarta linea d’azione “Tutela del territorio e della risorsa idrica”, volta al rafforzamento della governance del servizio, in realtà punta alla “conquista” del Sud Italia, e non solo, da parte delle società multiutility del centro nord e quindi alla definitiva privatizzazione. Le stesse, costituite con una compagine societaria pubblico-privato, si muovono in una logica del tutto privatistica, gestiscono il servizio idrico integrato con regole, a partire dal metodo tariffario, che garantiscono certezza del profitto, mentre agli Enti Locali assicurano la completa deresponsabilizzazione della gestione.
La strategia di rilancio dei processi di privatizzazione appare sufficientemente chiara e, sostanzialmente, si incentra sull’allargamento del territorio di competenza di alcune grandi aziende multiservizio quotate in Borsa, che gestiscono i fondamentali servizi pubblici a rete (acqua, rifiuti, luce e gas) e hanno un ruolo monopolistico in dimensioni territoriali significativamente ampie.
Ora, per chi come il governo, gran parte del Parlamento, i poteri economici forti vede nel mercato l’unico regolatore sociale, si presenta l’occasione per estendere a tutta Italia il modello di gestione di queste aziende multiservizi, sfruttando la pandemia e l’emergenza sociale e sanitaria.
A questo scopo ci si appresta a utilizzare una sorta di ricatto, ossia si subordina l’attribuzione delle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza all’affidamento del servizio idrico integrato a gestori “efficienti” che di norma vengono identificati in quelle aziende che garantiscono la massimizzazione dei profitti mediante processi finanziari. Anche qui, peraltro, tale scelta non discende da nessuna disposizione di legge, così come l’efficienza può essere messa in pratica anche da aziende di diritto pubblico. L’effetto di questa cosiddetta “riforma” della governance dell’acqua si risolverà quindi nell’ennesima esplicita violazione della volontà popolare espressa con i referendum del 2011.
Ad aggravare la situazione c’è, inoltre, il Disegno di legge sulla concorrenza, licenziato il 4 novembre 2021 dal Consiglio dei Ministri e attualmente in discussione al Senato. Questo provvedimento rientra tra le condizionalità imposte dalla Commissione europea per l’erogazione dei fondi del Pnrr e ha finalità esplicite: rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo e amministrativo, all’apertura dei mercati. L’art. 6 interviene sull’intera materia dei servizi pubblici locali e persegue fedelmente suddette finalità puntando a limitare in maniera decisa il ricorso all’affidamento “in house” e quindi all’auto-produzione del servizio, indirizzando l’ente locale verso le forme di gestione più privatistiche (gara e società misto pubblico-privato).
Si tratta di una serie di norme ispirate a un’evidente ideologia neoliberista in cui la supremazia del mercato diviene dogma inconfutabile nonostante la realtà dei fatti dimostri il contrario, soprattutto nel servizio idrico: aumento delle tariffe, investimenti insufficienti, aumento delle perdite delle reti, aumento dei consumi e dei prelievi, carenza di depurazione, diminuzione dell’occupazione, diminuzione della qualità del servizio, mancanza di democrazia.
Gli enti locali che opteranno per l’autoproduzione del servizio, compresa la vera e propria gestione pubblica, saranno costretti a “giustificare” (letteralmente) il mancato ricorso al mercato e dovranno dimostrare anticipatamente e poi periodicamente le ragioni di tale scelta, sottoponendola al giudizio dell’Antitrust, oltre a prevedere sistemi di monitoraggio dei costi. Mentre per i privati la strada è in discesa, avendo solo l’onere di produrre una relazione sulla qualità del servizio e sugli investimenti effettuati.
Inoltre, si prevedono incentivi per favorire le aggregazioni indicando così chiaramente che il modello prescelto è quello delle grandi società multiservizi quotate in Borsa che diventeranno i soggetti monopolisti (alla faccia della concorrenza!) praticamente a tempo indefinito. Tutto ciò in perfetta continuità con quanto previsto dal Pnrr.
È eclatante la contraddizione tra la tanto decantata concorrenza e il fatto, noto a tutti, per cui nel servizio idrico questa non esiste, configurandosi come un monopolio naturale.
In ultimo, questa norma rischia di restringere fortemente il ruolo degli Enti Locali espropriandoli di una loro funzione fondamentale come la garanzia di servizi essenziali e dei diritti a essi collegati, per cui da presidi di democrazia di prossimità saranno ridotti a meri esecutori della spoliazione della ricchezza sociale.
D’altronde il Presidente del Consiglio Mario Draghi non ha mai dissimulato la volontà di voler contraddire l’esito referendario. Il 5 agosto 2011, solo un mese e mezzo dopo lo svolgimento della consultazione, in qualità di Governatore della Banca d’Italia firmò, insieme al Presidente della Bce Jean Claude Trichet, la lettera all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi in cui indicava come necessarie e ineludibili “privatizzazioni su larga scala” in particolare della “fornitura di servizi pubblici locali”.
Oggi Draghi, da Premier con pieni poteri, cerca di realizzare questo obiettivo, incurante che il combinato disposto del Ddl Concorrenza e del Pnrr si configuri come un attacco alla volontà popolare e uno schiaffo agli oltre 26 milioni di italiani che ai referendum del 2011 hanno indicato una strada diametralmente opposta: lo stop alle privatizzazioni e alla mercificazione dell’acqua.
Occorre andare in tutt’altra direzione. In primo luogo, dando attuazione alla volontà referendaria disattesa in tutti questi anni e riconoscendo il ruolo fondamentale di servizio pubblico, va finalmente prodotta la ripubblicizzazione del servizio idrico. A tal fine, va approvata quanto prima la legge presentata dal movimento per l’acqua la cui discussione è colpevolmente in stallo da oltre due anni in Commissione Ambiente della Camera. Una legge che si pone l’obiettivo di promuovere una gestione pubblica, partecipativa e ambientalmente ecosostenibile, con tariffe eque per tutti i cittadini, una legge che garantisce gli investimenti necessari fuori da qualsiasi logica di profitto e i diritti dei lavoratori. Gli oneri della ripubblicizzazione, stimati in circa due miliardi di euro una-tantum, vanno posti all’interno del Pnrr, visto che essa va considerata a tutti gli effetti intervento di carattere strutturale per il rilancio e il miglioramento del servizio idrico.
In questi ultimi dieci anni si è sviluppata un’interessante riflessione sui servizi pubblici locali e sui beni comuni che ha individuato in essi un valore fondante delle comunità e della società senza i quali ogni legame sociale diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte individuale. Ora tale riflessione va ulteriormente approfondita trattandosi di un valore che la pandemia ha dimostrato essere una delle poche soluzioni efficaci nelle nostre mani.
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