La fine dei servizi
Cari amici, ho sempre più spesso l’impressione che il cambio di paradigma in atto nel welfare italiano e ne settore non sia molto chiaro. Forse perché tutte le organizzazioni del terzo settore hanno sempre vissuto e sopravvissuto in base all’appartenenza politica, religiosa, a gruppi di potere vari. Perdendo negli anni il sacro fuoco della lotta che di solito l’impegno sociale dovrebbe stimolare e non anestetizzare. Confrontarsi oggi con la sanità in rovina, con gli ultimi, con le scuole decadenti dovrebbe generare un moto di rivolta.
Ed invece migliaia di operatori sociali, educatori, cooperatori, passano mesi e mesi ad attendere pagamenti e salari da parte di una pubblica amministrazione che ha prima esternalizzato i servizi sociali, ed ora non riesce più a pagarli. Basta parlare con qualsiasi operatore di cooperative sociale per scoprire che non prende i salari, nel migliore dei casi , da 5 o 6 mesi.
Le famiglie che hanno dei concreti bisogni di assistenza sono abbandonate. Si arriva al paradosso di un primo ministro che d’estate si tira una secchiata d’acqua in testa per sponsorizzare la campagna a favore dei malati di SLA ed in autunno taglia i fondi per chi è affetto da questa gravissima patologia.
Non c’è protesta, c’è solo un lento ed inesorabile decadimento di qualsiasi cosa assomigliasse fino a pochi anni fa al welfare. Già oggi sono milioni gli italiani tagliati fuori da una serie molto lunga di prestazioni sanitarie. Gli esempi sono innumerevoli e fanno parte ormai della quotidiana narrazione della vita di tante persone. Esclusi benestanti e privilegiati naturalmente, che non hanno bisogno di preoccuparsi dei servizi sociali o della sanità, perché comprano quando hanno bisogno.
Ed appunto è il mercato il futuro protagonista dei servizi sociali. Saranno sempre più un bene in vendita piuttosto che un diritto. A chi non potrà permetterselo non rimarrà che affidarsi ad enti caritatevoli, sempre più diffusi in Italia. O direttamente ai privati che si occuperanno di distribuire servizi sociali a basso costo.
La riforma della cooperazione allo sviluppo ha dato un primo assaggio. Nella nuova normativa è stato inserita la previsione che, le ormai irrisorie, risorse siano destinabili oltre che alle organizzazioni non governative anche alle imprese. Ovvero per fare programmi di cooperazione possono presentare progetti anche imprese private, senza peraltro neanche l’obbligo di rispettare standard etici di particolare rilievo. Si apre quindi una porta alla concorrenza tra profit e no-profit per i programmi di cooperazione internazionale. Con il paradosso che un domani potremo avere un progetto per i diritti umani presentato da una Ong italiana in concorrenza con un progetto di sviluppo presentato da un’impresa italiana, magari sospettata di corruzione.
Non si capisce che le logiche dell’intervento sociale non sono assimilabili a quelle dell’impresa. Si pensa sempre e comunque di mutuare standard del settore privato per quello no profit. Così si finisce per distruggere di fatto qualsiasi afflato solidaristico. E si relegano di nuovo, dopo anni di battaglie, i servizi alla benevolenza ed alla carità. L’esempio della cooperazione aprirà la porta ad una possibilità di servizi sociali privatizzati anche in Italia. La riforma del terzo settore è alle porte.
E, anche se non finanziata adeguatamente, potrebbe continuare nel solco già tracciato per la cooperazione. Scompariranno sempre più le eccellenze e le buone pratiche e rimarranno sul campo le imprese sociali che fanno marketing, gli enti religiosi che fanno carità e poche organizzazioni che si saranno ritagliate il loro piccolo angolo di agibilità.
La storia ci insegna che i diritti si conquistano e si perdono anche. A questi cambiamenti epocali, in cui la distribuzione delle poche risorse è ineguale ed ingiusta, si può solo reagire con delle lotte sociali. Non ci sono grandi alternative. Il modello innanzi a noi esiste: è quello degli Stati Uniti. Chi non ha soldi o un’assicurazione può anche morire.