Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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La didattica dell’emergenza in famiglia

disegno di Lorenzo Mattotti
29 Aprile 2020
Stefano Laffi

Improvvisamente la scuola ha sospeso le lezioni. In Lombardia ha chiuso i battenti prima l’università, poi la scuola di ogni ordine e grado (il 24 febbraio) e poi in tutta Italia (5 marzo). In una fase dell’anno scolastico che aveva il sapore della pausa – fine quadrimestre, carnevale, settimana bianca – milioni di bambini e ragazzi si sono trovati a casa, diciamolo, quasi tutti esultanti alla notizia. La gioia iniziale di una vacanza inattesa, nel panico dei genitori.

Chi ha vissuto l’esperienza del terremoto in Emilia, che ha distrutto diverse scuole e costretto a cambiare radicalmente le routine scolastiche – e non solo – di migliaia di allievi, testimonia la stagione di straordinaria sperimentazione di quella scuola finalmente integrata fra le classi, senza pareti perché sotto un tendone, all’aperto, esperienziale, immersa nel territorio e nel momento storico che viveva, come mai era stata prima, oltre l’orgoglio di una ricostruzione lampo. Sta avvenendo qualcosa di simile anche ora, sotto la minaccia della pandemia, come se dovesse essere sempre una forza esogena e dirompente a cambiare la scuola?

Diciamolo perché ora è chiaro, non eravamo preparati a niente, e non sappiamo programmare niente: decine di allarmi incendio simulati in questi anni in ogni scuola e ufficio e mai una prova per capire semplicemente cosa fare a distanza, il mantra della sicurezza recitato in mille corsi e normative si era dimenticato di questa circostanza. O forse il mito italiano del saper improvvisare ha atrofizzato quel tipo di intelligenza. Il mese e mezzo che avevamo di vantaggio dalla diffusione del virus in Cina è stato dilapidato in altro anziché prepararci, quando è toccato a noi non sapevamo che fare.

Quando la scuola è chiusa, per ogni studente è vacanza: nessuno si è preoccupato all’inizio di smentire questo implicito, la percezione degli studenti è stata certamente questa, almeno la prima settimana, il decreto ministeriale semplicemente suggeriva ove possibile di fare didattica a distanza, evidentemente scommettendo sulla temporaneità della situazione. Ma desincronizzare una società è deflagrante, perché ai genitori è toccato nel frattempo andare al lavoro, così è partita la corsa ai rimedi, un figlio adolescente se la cava, un bambino piccolo no. Eccola l’arte di improvvisare, che ora capiamo cosa vuol dire, di necessità virtù, sapersi arrangiare di fronte alla mancata capacità di governo del sistema.

Il ministero, le regioni, le scuole, le famiglie, gli insegnanti, gli studenti non erano preparati a tutto questo, ora lo sappiamo. Ma non lo era nemmeno l’economia che gira intorno alla scuola, quell’universo di software, corsi, manuali, supporti vari: la funzione di didattica a distanza del registro elettronico usato nelle scuole dei miei figli – diffusissimo in tutta Italia – è andato in crash il primo giorno, e non è stato mai più utilizzato. Di digitale – che all’inizio chiamavamo “informatica” – a scuola si parla da 15 anni, ma l’esito empirico è stato molto centrato sulla dotazione tecnologica in classe – le Lim in ogni aula, quando va bene, un’aula informatica in ogni scuola, quando va bene, un po’ di tablet sui banchi ma quasi mai per tutti gli studenti – assai meno sulle competenze, su cosa farsene davvero, come rimodulare la didattica. Anche perché i supporti tecnologici invecchiano o si rompono in fretta, facile capire che non è quella la questione.

Quell’arte di arrangiarsi ha prodotto per i figli più piccoli – nido e scuola dell’infanzia – rompicapi famigliari, mediazioni dei genitori coi propri datori di lavoro ma anche un interessante movimento nelle chat di scuola sulle risorse culturali disponibili, dai libri ai giochi, ai film e ai tutorial sulle attività da fare insieme, costretti evidentemente a una cattività domestica fuori misura, perché la progressiva impossibilità di utilizzo dello spazio pubblico – sono chiuse tutte le attività sportive ma anche parchi e giardini – è davvero un divieto fuori da ogni principio educativo, benché comprensibile per questioni di igiene pubblica. La mobilitazione della cultura – il libero accesso ad archivi e servizi prima chiusi o a pagamento, le performance audio offerte dal teatro, eccetera – è certamente stata preziosa.

Se l’autorganizzazione è parsa da subito interessante e vivace, rispetto alle fasce di età più piccole fino alla scuola primaria c’è da chiedersi cosa possa voler dire fare scuola a distanza, quando l’elemento relazionale è così decisivo e il fare insieme regola molte delle attività in classe. Il sapere che si costruisce nella relazione, il valore del gruppo, il piacere del gioco coi compagni, l’importanza del corpo e del movimento, l’esplorazione della realtà dal vivo, eccetera: fuori da ogni retorica dobbiamo dircelo che non esiste una scuola a distanza almeno fino a una certa età, vengono in mente gli esperimenti fatti coi figli dei sordomuti per insegnar loro a parlare attraverso programmi su monitor, non potendolo fare i genitori, oggi sappiamo che non funzionavano perché non c’è apprendimento della lingua senza la relazione dal vivo con un parlante. Insomma qui la partita si è spostata in gran parte sui genitori, in una sorta di homeschooling forzata: a casa la scuola poteva mandare compiti o pillole di lezione, come letture o brevi spiegazioni, ma non era immaginabile fare lezione via schermo, è toccato a madri e padri provare ad aiutare e inventarsi qualcosa.

Il nodo critico è proprio questo, lo stiamo capendo su tutti i fronti, ed è la grande differenza rispetto a terremoti, alluvioni e simili emergenze: là da sfollati ci troviamo tutti uguali, il tendone livella le classi sociali, favorisce relazioni solidali, qui nella reclusione domestica siamo tutti diversi, più che mai ognuno nel proprio status, per dotazioni tecnologiche, presenza di wifi, spazi disponibili e risorse domestiche, competenze e tempo dei genitori. Per non parlare delle situazioni dove stare a casa significa conflitto e violenza domestica, più probabili in cattività. Insomma la scuola a distanza polarizza, rimanda alle differenze di classe, è darwiniana e fa perdere contatto con i più fragili, rompe quel principio di fratellanza e sorellanza che è sempre stata una risorsa preziosa dell’emergenza ed è ora paradossalmente vietato dal rischio di contagio.

La questione si pone anche per le altre fasce di età. L’indagine fatta dall’Unione degli Studenti dopo 2 settimane di chiusura delle scuole superiori su un campione di 9mila studenti in Lombardia racconta che solo il 24% riesce a far lezione regolarmente a distanza, su tutte le materie, che il 40% ha difficoltà a seguirle. Facile immaginare che altrove il quadro sia anche più critico. L’impressione nell’aver vissuto in diretta da genitore il processo di avvio della didattica a distanza è stata quella di una gran confusione sulle piattaforme – ogni scuola ha la sua, ogni docente ha la sua – di un’impreparazione tecnica degli studenti stessi – ad esempio l’uso dell’email spesso necessaria per le piattaforme non è scontata fra i ragazzi – oltre all’evidente diversa preparazione degli insegnanti stessi, più o meno a loro agio con il mezzo.

È probabile che questo tempo, certamente di diverse settimane, forse di mesi, stia producendo un rodaggio collettivo e un miglioramento delle abilità e possibilità in campo, più che lo svolgimento della scuola a distanza. Stiamo capendo quali piattaforme funzionano meglio – ahimè in mano alle solite multinazionali – cosa si riesce a fare e come, cioè è evidente che una classe di liceo molto composta può tenere mentre in altri casi la distanza è ingovernabile, che una conversazione di inglese o una lezione di storia si possono fare via monitor, mentre le scuole tecniche e professionali dove i laboratori e la strumentazione tecnica sono essenziali patiscono limiti evidenti. Resta l’enigma degli esami di fine ciclo e delle valutazioni, se davvero si dovrà procedere a distanza anche con quelle, e di come si possa mai tener conto delle differenze di possibilità che si producono quando dai banchi ci si sposta nelle case.

Una nota finale. In casa risuonano ogni mattina lezioni e dialoghi coi docenti online, una cosa che somiglia a ciò che da genitore avrei sempre voluto conoscere, cioè cosa succede davvero in classe. Non è come essere presente a una lezione ma ora sento in diretta come vengono presentati i temi, mi rendo conto dello stile dei diversi docenti, ascolto le domande e le risposte che nascono nelle interazioni, e colgo persino le dinamiche di complicità fra compagni: chiedo a mio figlio come mai stia seguendo via schermo l’interrogazione di un compagno, mi spiega che si sono messi d’accordo in due per dargli una mano nelle risposte, suggerendo via chat.

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