La condizione penale femminile
Non sappiamo che significato possano avere le dimensioni delle porte in un paese democratico, civile e soprattutto attento ai più vulnerabili. Quando si visita il Complesso monumentale di San Michele a Ripa a Roma, oggi spazio espositivo ma in passato luogo di contenimento per giovani, anzi giovanissimi ritenuti disadattati se non irrecuperabili, la dimensione lillipuziana delle porte delle celle sconcerta e sconvolge. Erano proprio piccoli i loro corpi, così come inesistenti le loro colpe. E feroce il futuro a cui erano predestinati.
Oggi le porte delle celle si sono ingrandite, così come i corpi degli adolescenti e di quelli chiamati giovani adulti nel gergo penitenziario. Qualche volta sembrano più grandi, quasi dei vecchi, altre volte dei bambini, comunque si rivelano particolarmente fragili. Hanno i volti e gli occhi del mondo nella sua declinazione geografica più ampia, le parole di chi è cresciuto fra tante lingue e ha incamerato le cadenze dell’ultima, il comportamento di chi ha ricevuto insegnamenti più dalla vita quotidiana che dai banchi di scuola. Sono agguerritissimi con le nuove tecnologie, sfrontati nel vestire, aggressivi nei movimenti, teneri nell’anima. Sono i cosiddetti giovani a rischio, le mine vaganti, i meno di zero, le nuove leve della criminalità, i persi nel mondo, i delinquentelli, quelli che giustificano ore e ore di trasmissioni con esperti.
In carcere, si dice, si rimane giovani anche con il passare dei decenni. Avviene da sempre, molto prima dei tempi attuali in cui una persona rimane “un giovane” fino circa alla quarantina. Il carcere ferma il tempo, de-responsabilizza, comporta dipendenze totali dagli altri. Dagli agenti che ti aprono la porta, ti accompagnano in bagno e a telefonare, dal medico a cui occorre affidare incondizionatamente il proprio corpo, dai parenti che ti nutrono con soldi, cibarie e biancheria pulita e da cui si pretende comprensione senza se e senza ma. Rimproveri pochi, perché quelli uno se li fa già per conto proprio, nel silenzio assordante delle notti in branda. D’altra parte anche noi – volontari, operatori, frequentatori delle galere – quando parliamo di donne e uomini detenuti, li chiamiamo “le ragazze e i ragazzi”, quasi un augurio inconscio che veramente il tempo per loro si possa fermare e ricominciare a girare soltanto una volta tornati in libertà.
Detto questo le ragazze e i ragazzi, quelli anagraficamente in regola, si trovano veramente ristretti in luoghi privati della libertà. Pochi nei minorili, di più nelle carceri per adulti. Tutto sta nell’attimo del compimento della maggiore età: se il reato è commesso prima del diciottesimo compleanno si seguirà un percorso dedicato ai minori, per cui il carcere è l’ultima sponda. Se invece avviene anche solo un minuto dopo, si aprono le porte delle carceri per adulti.
Nelle carceri per minori troviamo bambini già adulti e in quelle per adulti giovani non più minori solo anagraficamente. Avrebbero necessità, questi ultimi, di un percorso dedicato che tenga conto della loro specificità, ossia la giovane età e il carico di esperienze negative accumulate nel breve lasso della loro vita. Se ne parla, si vorrebbero riservare loro spazi separati da chi del carcere ha fatto – volutamente o meno – la propria prospettiva di vita. Si vorrebbero progettare percorsi mirati, ossia formazione per un possibile lavoro o un ritorno all’apprendimento scolastico trascurato per aver impegnato tempo e testa in altre attività. Ma tutto questo non accade, al contrario. Stretti come sardine e senza prospettiva di un alleggerimento, adulti convivono con giovani praticamente minori, rei confessi e recidivi con autori di un primo reato, e magari anche di leggera entità, tutti insieme in cella, con poco personale a disposizione, scarse risorse finanziarie e soprattutto nessuna prospettiva di essere accompagnati verso una riflessione. Quindi parlare di trattamento adeguato riservato a giovani in carcere, è al momento assolutamente fuori luogo.
Le donne in questo universo sono sempre state una minoranza, con un’oscillazione che va dal 4 al 5% della popolazione detenuta totale. Oltre che poche, sono state sempre considerate differenti. Nel passato erano giudicate deviate più che delinquenti le prostitute, le mendicanti, le vagabonde, e da qui ad arrivare alle povere e a quelle che volevano vivere diversamente, il passo era, ed è ancora oggi, breve. Fuori dalla norma corrisponde a dentro il carcere, o comunque in un luogo che separa e isola quale il monastero, il riformatorio o la casa di correzione. Per correggere una diversità non richiesta e non ammessa.
Nel dopoguerra le donne che finivano in carcere erano quelle che cercavano di sopravvivere, commettendo illeciti, ma non c’era alternativa. Una sorta di lavoro al femminile indispensabile per il bilancio familiare. Poi, via via, le donne riuscirono a conquistarsi identità, ma sempre e solo come gregarie e complici degli uomini malfattori.
Le giovani donne, le diciottenni e le ventenni, hanno sempre fatto parte dell’universo carcerario. Per la maggior parte a causa di reati minori, furti, scippi,spaccio, rapine. Raramente omicidi, se si escludono gli infanticidi, gli assassini di mariti e amanti e i gravi delitti commessi all’interno dell’appartenenza alla criminalità organizzata. Nella camorra, in particolare, le donne anche giovani hanno da tempo smesso gli abiti di fedele e inconsapevole compagna di vita o di amorevole figlia per partecipare attivamente all’azienda criminale di famiglia.
Il cambiamento più incisivo è stato rappresentato dalla droga, l’eroina degli anni settanta. Ha portato generazioni di giovani donne a prostituirsi, ma con l’avvento dell’aids, la strada non offriva sufficiente clientela. Non restava che lo spaccio, qualche viaggio di trasporto di sostanze illegali, e reati annessi. Così il carcere ha cominciato a riempirsi di giovani tossiche. Venivano dalla città e dai piccoli centri, dal mondo fricchettone come dalla militanza abbandonata nei gruppi extraparlamentari, strette in legami avvolgenti e sconvolgenti con amici e amori anch’essi tossici. Sono quelle che continuano ad entrare in carcere, in un tragico turn over. Molte si sono salvate da se stesse grazie a una comunità terapeutica o al mistero del cambiamento delle cose nella propria vita. Altre continuarono, e continueranno fino alla fine, sostituite dalle nuove leve che all’eroina hanno aggiunto la cocaina e la molteplicità di sostanze che il mercato contemporaneo offre non solo attraverso lo spacciatore di fiducia.
Negli anni settanta e ottanta una new entry, rappresentata da migliaia di giovani arrestate per via della militanza in gruppi politici e successivamente passati alla lotta armata. Permanenze brevi, che terminarono nella maggior parte dei casi con l’assoluzione dall’accusa di associazione sovversiva o di favoreggiamento già nella fasi iniziale delle inchieste. Alcune vi restarono a lungo, entrate giovanissime ne usciranno donne mature. È stata una popolazione giovanile che segnò visibilmente il mondo del carcere, indomite nel chiedere il rispetto dei diritti, scoprendo un mondo sconosciuto e che aveva, questo sì, veramente bisogno di un impegno collettivo.
Un’ulteriore svolta avvenne con l’arrivo delle straniere, giovani nell’età anche se portavano con sé bambini, magari dentro la pancia. Erano, e sono, prevalentemente le corriere della droga. Arrivarono all’inizio soprattutto dal centro-sud America e dalla Nigeria, e oggi la loro nazionalità si aggiorna in base alle nuove rotte della droga stabilite dalle mafie internazionali. Giovani ragazze che vedono nel viaggio o meglio nella sua ricompensa – sottostimata rispetto non solo al rischio ma soprattutto al valore della merce a loro affidata – la possibilità di cambiare la propria vita. Una casa, un negozio, un aiuto per la madre e i fratelli più piccoli, una risorsa per i figli partoriti quasi da bambine. Arrivano nel nostro mondo senza sapere in quale parte del mappamondo si trovino, che lingua si parli, cosa sia una legge penale e come si svolga un processo. E infine il carcere. Molte di loro hanno trovato nella privazione della libertà personale anche un’opportunità per studiare, imparare un lavoro, inviare un po’ di soldi a casa. Il carcere porta con sé molti paradossi, compreso questo.
Il primato, per numero e durata della presenza, spetta alle ragazze rom. Per loro l’età è veramente una interpretazione personalizzata della durata della vita. Sono maggiorenni, ma si spacciano per minorenni, e comunque sono delle bambine costrette – per cultura e tradizione, ma chissà se ciò è un’attenuante – a scavallare l’età dell’adolescenza per ritrovarsi con marito e figli. Sono destinate alla prospettiva dell’accattonaggio, per poi passare al furto, con e senza scasso, a danno di persone e abitazioni, e sempre con estrema destrezza. Arrivano in carcere con i figli, anche parecchi, e forse dietro le sbarre possono fermarsi e provare, insieme alla nostalgia del campo, un assaggio di una vita differente. È, per quasi tutte, solo una visione passeggera, perché il campo prevale, sempre e comunque, per il ruolo predestinato all’interno della collettività. Oggi sono spesso tossicodipendenti, un tabù nel passato. I campi – in alcuni casi – si sono contaminati con le disperazioni e le ferocità del mondo, e non è raro che all’interno si spacci e si custodiscano in stato di schiavitù altre giovani costrette a prostituirsi.
La percentuale di donne straniere detenute può arrivare fino al 70 per cento, una cartina di tornasole di quanto avviene all’esterno. Entrano corpi adolescenziali, pelli di porcellana, venute dall’est, dall’Albania, dalla Romania, dalla Moldavia, dall’Ucraina. Messe sulla strada per vendere il corpo e arrotondare sfilando portafogli ai clienti, spacciare droga, aggredendo per strada possibili rivali, oppure facendo carriera e occupando il posto della sfruttatrice. Vittime e aguzzine contemporaneamente, a un’età che dovrebbe essere dedicata ai primi amori, alle amiche, ai divertimenti, alle esperienze per tastare il polso al mondo, non per conoscerlo e viverlo nella sua dimensione spazzatura.
Sapete cosa leggono maggiormente le giovani In carcere? Testi di poesia e libri polizieschi. Una porzione di fantasia e romanticismo e una di verità e giustizia. Quando si dice che la lettura serve per vivere una dimensione tanto desiderata, ma altrettanto lontana dalla propria realtà.