“La città dei vivi” fra enigmi estetici ed enigmi etici

Il titolo del nuovo romanzo di Nicola Lagioia sembra, già dalle prime pagine, un’antifrasi. Lo dice il narratore più avanti, paragonando Roma e Torino, città in cui a un certo punto si trasferisce: “Ci sono le città dei vivi, e poi ci sono le città dei morti, le uniche in cui vale la pena vivere.” Nessun dubbio che Roma appartenga alle seconde.
La città dei vivi segue fedelmente uno dei fatti più atroci della recente cronaca italiana. Due trentenni, blindati in casa da giorni a consumare cocaina e alcol, decidono di invitare a casa un ragazzo più giovane, e lo massacrano. Un omicidio senza movente, che per ore e giorni galleggia solo nella testa dei due artefici, e solo alla fine trova una vittima del tutto casuale.
L’idea poteva lasciare perplessi, per chi conosceva i romanzi precedenti dell’autore, che era andato sempre più, nell’ultimo La ferocia, in direzione di un iper-lavoro sulla scrittura, e della creazione di mondi che trasfiguravano il reale attraverso la lingua o l’imagerie. Fare non-fiction su una storia nota e già raccontata dai media, con i suoi poli sociologici oltretutto bene in vista, l’incontro tra fasce sociali esemplari: il rampollo della borghesia (cattolica) di sinistra, la piccola borghesia semi-imprenditoriale spaurita, il ragazzino proletario, saltuaria marchetta ma in fondo puro. Invece il libro va in un’altra direzione, più profonda, anzi è tutto costruito su una tensione tra pulsioni diverse; è, potremmo dire, un viaggio contro e sotto la vicenda.
Alla suspense costruita intorno al fatto di cronaca se ne affianca infatti un’altra, fatta dei piccoli indizi che lo stile stesso del libro sembra disseminare. Dietro la storia raccontata, e dietro le tentazioni sociologiche che essa suggerisce, si fa strada un doppio mistero, una doppia ossessione: quella del male e quella della scrittura. Il libro da un lato ostenta una messa in forma, un controllo quasi da sceneggiatore: ma i tentativi di spiegazione del fattaccio si rivelano ben presto manchevoli, un viaggio a vuoto, e questa vicenda in cui non c’è niente da scoprire alla fine diventa un mistero. Il libro, in certo modo, progetta e racconta la storia di una sconfitta, degli scogli che il racconto della realtà si trova davanti.
Quel che sembra emergere, dapprima, è Roma, creatura dotata di vita propria, amante e matrigna, schifosamente irresistibile. Gli eventi raccontati sembrano comporre, visti da lontano, il profilo della città. Nella prima parte, molti capitoli finiscono con una sorta di carrello indietro, con la parola “Roma” o l’indicazione di un quartiere o di una via, come se questa fosse, in termini musicali, la dominante intorno a cui tutto si deve chiudere. Gli sguardi che sulla città si posano sono due: quello promiscuo dello scrittore inurbato, e quello più marginale di un turista olandese. Uno sguardo distante, quest’ultimo, e viscerale insieme, perché si tratta di un estraneo che frequenta il corpo nascosto della città, un pedofilo che contempla Roma dal Gianicolo ma anche dagli alberghi intorno alla stazione Termini.
I grandi narratori di Roma, si sa, sono stati spesso gli immigrati (Flaiano, Pasolini, Palazzeschi, Brancati), a volte con un altrove a fare da polo, come la Rimini di Fellini. E Lagioia sembra “sentire” Roma più della Puglia, che rimane per lui qualcosa di reale da trasfigurare, mentre “la città di Dite”, come la chiamava Mario Soldati, sembra apparirgli da subito una città scritta, fantasmatica, già piena di senso. La Roma del romanzo è piovosa, attraversata da continui segni di apocalisse (“Roma è il luogo migliore per aspettare la fine del mondo”, diceva Gore Vidal in Roma di Fellini). La pioggia di Roma ha spesso un carattere terminale: dall’ingorgo sul raccordo anulare nel film di Fellini fino a Suburra, da La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, con un diluvio biblico, a Roma di Vittorio Giacopini, in cui la città tutta finisce inghiottita dalle acque. (Un altro topos minore della Roma letteraria di oggi, si può notare, è la visione da una prospettiva ristretta, una sorta di romitaggio urbano in appartamenti periferici: L’estraneo di Tommaso Giagni, L’animale notturno di Piva, in parte Troppi paradisi di Siti, ancora Giacopini. Anche in questo romanzo il luogo in cui coagula la città, il teatro del delitto, è un anonimo appartamento del Collatino.)
Ma alla fine, anche Roma si rivela una falsa pista, o meglio il luogo perfetto dell’inspiegabilità. Non spiega le vicende, né le vicende spiegano lei. Piuttosto, tra racconto e sfondo si crea un continuo rimando, l’allusione a qualcosa che sembra scorrere sotto entrambi. Tutte le strade si perdono a Roma, e mai che se ne venga a capo. Forse è destino che i gialli, a Roma, non abbiano soluzione.
Oltre allo spettro della sociologia e, diciamo così, del romanzo urbano, ce n’è un altro che Lagioia prende di petto subito, quello dello storytelling. Direi più precisamente: il modello di racconto delle serie tv. Se il cinema non è mai un riferimento, un modello o una minaccia per la letteratura italiana contemporanea (lo si vede semmai come reperto, fantasma, nostalgia o ridicola sopravvivenza), le serie tv, che sono anzitutto un modello di scrittura, il sorgere di una egemonia della narrazione, hanno di recente colonizzato l’immaginario del ceto medio-colto, quello a cui appartengono gli scrittori e i loro lettori. Una decina d’anni fa Lagioia aveva segnalato il pericolo scrivendo un temerario articolo per il “Venerdì di Repubblica”, che gli aveva inimicato schiere di fan. Nel frattempo, la serialità televisiva è diventata il modello di espressione artistica di un’intera generazione. E La città dei vivi, all’inizio, sembra confrontarsi proprio con la struttura della serie. L’attacco a effetto, con un episodio marginale ma simbolico, per così dire prima dei titoli di testa (il sangue che cola su una biglietteria del Colosseo). Gli ami al lettore a fine capitolo, a mo’ di cliffhanger. I capitoli che iniziano in medias res, con la battuta di un personaggio o una frase apodittica (“Quando tutto è perduto, c’è sempre un avvocato da chiamare”, “Nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono”). Le frasi brevi, spezzate, a volte (nelle prime pagine del “prologo”) addirittura con degli a capo frequenti; l’opposto dei giri di subordinate di Occidente per principianti o delle figure retoriche e del lessico ricercato della Ferocia.
Questa costruzione e questo aspetto fin troppo secco si sfrangono ben presto; la struttura del romanzo disperde l’illusione di un racconto che spieghi tutto e vada dritto allo scopo. Mentre lega a sé il lettore con una scrittura rapida, il libro raggiunge una dimensione incompiuta e quasi una vertigine. Come se mostrasse l’avvicinamento a spirale al cuore del problema; o piuttosto l’allontanamento, man mano che sembra avvicinarsi. Alla fine anche questo è, come altri libri di Lagioia (dall’euforia disperata di Occidente per principianti al ritorno nel tempo e nello spazio di Riportando tutto a casa), un viaggio. Ma un viaggio che è un continuo ritorno negli stessi luoghi, e che man mano diventa centrifugo. La scorrevolezza dello storytelling, oltretutto, viene fatta urtare, in una tensione che attraversa tutto il libro, con l’uso del passato remoto per avvenimenti che, nel momento in cui l’autore scriveva, erano lontani pochi anni, o magari poche settimane, laddove per i reportages anche letterariamente nobili (penso a esempi notevoli, anche italiani, come da Vicini da morire di Pino Corrias o L’erede di Gianfranco Bettin) si impone il presente storico. L’uso di questo tempo verbale allontana, solennizza, complica.
Anche la presenza del narratore, la sua voce, non fa che imbrogliare ulteriormente le carte: non che renda faticosa la lettura, tutt’altro; ma ogni volta che si chiudono le pagine lascia in una specie di esitazione. Per la prima volta l’autore si mette in scena, tenta una specie di autofiction. Ancora una volta, però, per giungere a una via senza uscita. La non-fiction sommata all’autofiction, infatti, può essere (come il modello della serie tv) un altro modo di far tornare i conti. Così è, esemplarmente, nei romanzi di Carrère; così è nel libro che forse serve meglio, per contrasto, a illuminare il libro di Lagioia, La natura è innocente di Walter Siti. Siti racconta anche lui due storie vere, ma come tasselli di un teorema, in cui sappiamo da subito dove si andrà a parare, ossia alla riconferma della visione del mondo dei libri precedenti dello scrittore. Il suo è un romanzo nichilista; non per l’ideologia che lo pervade (esposta fin dal titolo) ma per il progetto, per la sfiducia nella letteratura che, nonostante le apparenze, presuppone, con un alternarsi a orologeria di pezzi di bella scrittura e altre singolarmente corrive. La città dei vivi è invece un libro tumultuoso e scomposto, che non sa dove ci porterà, e dà un’impressione opposta di necessità, di ossessione.
Il narratore Lagioia viene inghiottito dalla storia, e rivela nello stesso tempo la propria promiscuità ad essa, e la propria irriducibile lontananza. Il tragico si alterna a momenti quasi grotteschi, a gag sconcertanti e tutte vere (fin da quando la polizia, cercando il luogo del delitto, sbaglia palazzina e finisce a casa di un’anziana). E lo stesso demone della scrittura scantona nella tragicommedia. Il narratore si specchia nella vicenda, che gli ricorda alcuni episodi della sua giovinezza, in cui si era abbandonato allo sbandamento più totale e aveva rischiato, si accorge retrospettivamente, di imboccare una via senza ritorno. La “confessione” di Lagioia arriva alla fine di una sezione denominata Il coro, che raccoglie voci contrastanti sui tre protagonisti del caso: voci spesso discordanti, da cui due personaggi sembrano uscire almeno in parte illuminati, mentre il terzo (Foffo, il più normale, il più piccolo borghese) rimane inspiegabile. A quel punto il narratore si fa, pienamente e brevemente, personaggio, come a voler mimare almeno per un po’ i destini dei tre, ma conferma la propria irriducibile estraneità. Gli episodi autobiografici hanno una distanza abissale dall’orrore autentico, e sono raccontati con un tono più grottesco che tragico. Lagioia rinuncia a vampirizzare la realtà opaca e fangosa che ha davanti, a farne uno specchio narcisistico di sé. Si rende conto che non gli è possibile. E anche lì, tra le pagine galoppanti del romanzo, ha dunque luogo un altro scacco.
La rapidità del racconto semina così lungo la strada una serie di aporie, di false piste. La sociologia spiega solo fino a un certo punto; Roma è un’immagine soverchiante e indicibile; specchiarsi nei personaggi narrati è impossibile.
Non so se per caso, ma le aporie a cui il libro si destina, e che mi sembrano alla fine il vero tema del romanzo stesso, hanno, esse sì, un carattere tragico, ma anche generazionale. I primi libri di Lagioia esibivano questo tratto, ma qui esso sembra pervadere non le storie, bensì il procedere della narrazione stessa. La città dei vivi racconta personaggi più giovani dell’autore, e proprio lo iato tra loro e il narratore diventa man mano centrale. È un libro da padre, da fratello maggiore. Dunque, costituzionalmente, la storia di una mancata comprensione.
A questo punto, coerentemente e certo inconsciamente, Lagioia smonta anche lo storytelling. Dopo il massacro e il processo, dopo il climax, il libro continua, contro ogni regola di sceneggiatura. Sono certo le pagine meno appassionanti del libro, ma forse, paradossalmente, le più rivelatrici. Perché lì, davvero, il libro non vuole finire: continua a interrogare, ci mette davanti all’arbitrarietà di ogni conclusione e di ogni narrazione. Se in Siti le biografie sono irrilevanti e interscambiabili, e l’unico che vince da subito è lo scrittore, qui è al contrario l’ambizione di narrare a disperdersi, come se l’impulso, ormai impastato di ossessione e di super- Io, a seguire la realtà (rispettare, non barare) lo spingesse, per così dire, a lasciare il romanzo per la sua strada. Si ha l’impressione che fra cinque anni, dieci, Lagioia possa aggiungere ancora pagine, postille, epiloghi, e sempre senza illudersi di chiudere il cerchio.
Questo mistero, questo enigma estetico, infine, è in fondo un enigma etico, la presenza di un male quotidiano e inspiegabile. Uno dei momenti-chiave del romanzo è l’incontro con Donnarumma, maresciallo dei carabinieri probo e lucido, che con serenità tira fuori l’unica spiegazione rimasta: il diavolo, probabilmente, come nel film di Bresson. La città dei vivi si mette in gioco a costo di incrinare l’apparato narrativo messo in campo. Lascia la sensazione di dover andare oltre le pagine, in un’esigenza di capire che nessun racconto può ordinare. Vengono in mente le parole di Carmelo Bene sulla Torre degli Asinelli, nell’anniversario della strage di Bologna, introducendo la sua Lectura Dantis: «Dedico questa serata, da ferito a morte, non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage». La città dei vivi è un libro da ferito a morte, ma un libro vivo. Un libro imperfetto e avvincente, che si brucia mentre si fa, e che a differenza di molta narrativa contemporanea non lascia dubbi sulla necessità degli interrogativi che lo hanno generato, e sulla loro profondità.
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