Io apro il mio schermo come un dibattito. I Diari di Francesco Rosi

Che i centenari possano rappresentare una sfortuna per i registi e i personaggi pubblici in generale lo dimostra bene quanto successo nel 2022 a Pasolini, un profluvio di celebrazioni e di eventifici che andava in direzione profondamente contraria al senso della sua poetica; allora è forse un paradossale bene il fatto che il centenario pasoliniano abbia adombrato altre ricorrenze pure significative, come i vent’anni dalla morte di Carmelo Bene e i cento dalla nascita di Francesco Rosi. Di tutto ciò che è stato pubblicato nel 2022 su P.P.P. imprescindibile resterà molto poco, il memoir della Maraini, alcuni passaggi degli scritti di Chiesi, Fofi e Abbate, e poco di più; a Francesco Rosi invece è stato dedicato un unico titolo di spicco nell’anno del suo centenario, ma si tratta di un volume che dà concretamente del materiale forte e in larga parte inedito con cui proseguire il dibattito critico sul regista de Le mani sulla città e di Lucky Luciano.
Editi da La nave di Teseo e curati dalla studiosa e amica del regista Maria Procino, i Diari di Rosi attraversano gran parte della sua carriera di cineasta, dal 1961 di Salvatore Giuliano, suo terzo film, fino ad arrivare a quella giocosa Carmen cinematografica che, datata 1984, tuttora appare come un unicum, stilistico e tematico, nella carriera del regista. Il volume, pubblicato anche con il sostegno della Campania Film Commission, è accompagnato e talvolta arricchito da contributi della curatrice, di Tornatore, di Marcello Garofalo, di Carolina Rosi, di Valerio Caprara, di Domenico De Gaetano e di Titta Fiore. “Ogni volta che io mi accingo a fare uno di questi film – parlo di Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti – ho la sensazione di gettarmi in una avventura dalla quale non posso sapere mai in precedenza come ne uscirò. Il momento della ‘precedenza’ starebbe a indicare la fase che corrisponde alla sceneggiatura del film”. I Diari di Rosi, piuttosto che parlare di difficoltà pratiche sul set – l’unica eccezione in questo senso è Uomini contro – si concentrano moltissimo sulla fase di stesura della sceneggiatura, perché era in questa fase che si consumavano i maggiori sforzi di Rosi.
Già ai tempi delle ricerche per il Salvatore Giuliano Francesco Rosi si annotava che bisognava trasmettere al pubblico un’idea precisa del retroterra sociale entro cui agivano i banditi di quel tempo, attraversando tutta la Sicilia per inquadrare “le campagne, i paesi, le grande città, i residui di una società borbonica, il contrasto tra una civiltà arretrata e quella moderna, meccanica, progressista”. Se nel film del 1961 il profilo di Giuliano “uomo e bandito” emergeva gradualmente dalla conoscenza dei luoghi che avevano fatto da sfondo ai principali eventi della sua vita, al momento dell’uscita di Gomorra di Matteo Garrone Rosi quest’unico disappunto manifestò, l’assenza di una chiara indagine dei fondamenti sociali della vita dei camorristi.
Come raccontano bene i Diari, il processo di ricerca e documentazione per Il caso Mattei fu indubbiamente il più travagliato: Rosi, che non avrebbe mai immaginato “che ci si sarebbe trovato di fronte ad una opinione pubblica così convinta del sabotaggio”, aveva cercato e ottenuto la collaborazione del giornalista siciliano Mauro De Mauro, ma, durante la preparazione del film, De Mauro venne rapito e sparì senza lasciare traccia. Solo tre decenni dopo l’uscita del film per la scomparsa di De Mauro venne incriminato Totò Riina, assolto dopo un lungo processo investigativo e giudiziario per il quale venne ascoltata la testimonianza anche di Rosi; il regista peraltro, nonostante le rassicurazioni di altri collaboratori di De Mauro che imputavano la sua sparizione ad altre inchieste che il giornalista stava conducendo sul territorio siciliano, dopo Il caso Mattei si rifiutò di coinvolgere altri nel processo di indagine e documentazione con cui inaugurava la lavorazione di quasi tutti i suoi film.
Insofferenza per essere definito regista politico – “in quanto a questo tutto il cinema italiano cosiddetto neorealista ha svolto funzione sociale e avrebbe potuto svolgere azione politica: in effetti l’ha svolta perché ha fatto conoscere l’Italia agli italiani” – i Diari di Rosi esprimono bene anche le sue preoccupazioni per gli aspetti formali, stilistici e linguistici del cinema, oltre che per la componente spettacolare che pure faceva parte della sua sensibilità visiva. Come rilevava anche Umberto Eco in un suo saggio sui rapporti tra cinema e letteratura, “in Salvatore Giuliano il fatto che la scena finale (la scarica di lupara) potrebbe essere benissimo una scena iniziale – e viene posta alla fine proprio per precise ragioni polemiche – non è un fatto casuale, ma dipende da una precisa volontà formativa del regista”. Una volontà formativa e formale, che, in una Sicilia in fondo non lontana, per ciclicità mitica, da certi interni sfarzosi del Gattopardo, uscito un anno dopo nel 1963, dimostra sin dai primi titoli della filmografia del regista napoletano quanto in Francesco Rosi la volontà di denuncia si abbinasse callidamente a una particolare capacità di sperimentazione linguistica. E sempre sul fronte del linguaggio e dei linguaggi, a metà del libro figurano anche riflessioni interessanti sulle difficoltà di scritture avvertite da Rosi, da Tonino Guerra e da Raffaele La Capria nel trasformare Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu in un film come Uomini e no, che rimane tuttora uno dei capisaldi della filmografia di Rosi, uno dei film in cui la vis polemico-politica si equilibra perfettamente con un afflato più riflessivo, più esistenziale.
Tra gli appunti di Rosi si ritrovano anche riflessioni e chiose folgoranti come “in Italia le leggi sono tante, nei Paesi civili sono poche”; “io apro il mio schermo come un dibattito”; “ho sempre considerato il mio cinema come la tauromachia: esporsi in un combattimento serrato con la realtà, mettere in gioco ogni volta le proprie posizioni intellettuali… mi convinco sempre di più che non esiste opera d’arte senza contraddizioni o mistero”. Se il documentario Citizen Rosi, co-diretto dalla figlia Carolina e da Adele Gnocchi e presentato qualche anno fa alla Mostra del Cinema di Venezia, rappresenta la migliore introduzione alla filmografia del cineasta napoletano, questo libro ne rappresenta il perfetto compimento, una brillante immersione nel laboratorio creativo, immaginativo e politico di Francesco Rosi.”Malgrado le denunce, gli attacchi, le inchieste, che il cinema italiano ha operato dal dopoguerra in qua, e che io con i miei film ho cercato con coerenza programmatica e rigore conseguente di portare avanti, si assiste stanchi e avviliti ai giochi di una classe politica sempre più lontana dall’affrontare i problemi reali, prigioniera come è dell’equilibrio tra partiti”, scrive Rosi a un certo punto dei Diari: la perfetta atemporalità di questa affermazione, che potrebbe datarsi indifferentemente agli anni cinquanta come agli duemila inoltrati, testimonia una volta ancora l’importanza della lezione cinematografica che Francesco Rosi, scomparso a inizio 2015, ha saputo lasciare, e di cui non mancano, per sua stessa ammissione, gli epigoni.