Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Introduzione a “I ragazzi hanno orecchie”

Illustrazione di Elisa Francioli
30 Novembre 2020
Fernand Deligny

Questo brano è l’introduzione a I ragazzi hanno le orecchie (emme edizioni, 1976). Dell’autore, per le nostre edizioni è appena uscito I vagabondi efficaci.

Traduzione di Maria Luisa Mazzini

Figura centrale e originalissima della pedagogia francese del secondo dopoguerra, Fernand Deligny partecipò, da una posizione critica e defilata, ai movimenti dell’educazione attiva e a quelli per la chiusura dei manicomi, ma si occupò principalmente di ragazzini che solo molti anni più tardi l’attivismo democratico e la psichiatria critica misero al centro dei loro interessi: ragazzini che oggi chiameremmo devianti, disagiati, disturbati e che in quegli anni venivano definiti come asociali, in pericolo morale, vagabondi, irrecuperabili.

Per festeggiare il ritorno in libreria del grande educatore francese con una raccolta di scritti pubblicata dalle Edizioni dell’asino con il titolo di una delle sue opere più belle, I vagabondi efficaci, abbiamo deciso di proporre ai lettori della rivista uno scritto minore, che non ha trovato spazio nella nostra antologia e che risale agli anni in cui insegnava come maestro elementare in una classe differenziale di Parigi, riservata a bambini neurodiversi. Si tratta di una delle “favole” che Deligny improvvisava per i suoi allievi e che raccolse, una decina d’anni dopo, nel 1949, con il titolo I bambini hanno orecchie, pubblicato in italiano nel 1978, con la solita preziosa cura grafica, dalla Emme edizioni di Rosellina Archinto.

Quando nel 1976 Deligny scrive l’introduzione alla seconda edizione, che qui riproponiamo insieme alla “favola” de I tre sanpietrini, la lanterna e la vecchia scarpa, lavorava già da una decina d’anni con i ragazzini mutacici e autistici nel sud della Francia. È lui stesso a suggerire un collegamento tra le “tracce” che i bambini neurodiversi lasciavano sulle lavagne delle classi differenziali di Parigi e quelle lasciate dai ragazzini autistici che si muovevano in grande libertà tra i monti delle Cévennes. Dalle prime partivano i racconti improvvisati che lui raccolse ne I bambini hanno orecchie – un rettangolo che diventa una panchina senza gambe, un cubo un sanpietrino, un cono una lanterna – dalle seconde quegli ipnotici diari di campo, affidati esclusivamente a segni grafici, cui diede il nome di lignes d’erre che descrivevano, quasi quotidianamente e senza alcun intento interpretativo o terapeutico, gli spostamenti e le azioni che i bambini autistici compivano nel territorio delle Cévennes.

Secondo Deligny le tracce dei bambini non sono da decifrare, come si sforza di fare la psicanalisi, né da esporre nei musei, come iniziava a fare proprio in quegli anni il movimento dell’art brut con l’arte infantile, quella dei “selvaggi” o degli alienati mentali. Ai test psicologici che inchiodano molto spesso i ragazzini a diagnosi disabilitanti (divertentissima e al tempo stesso angosciante la scena del colloquio di Antoine Doinel con la psicologa ne I 400 colpi che probabilmente deve molto ai racconti che Deligny fece a Truffaut dei centri di rieducazione in cui lavorò a Lille) l’educatore francese contrappone la formazione attraverso l’esperienza, il gioco, le circostanze.

È proprio come “creatore di circostanze” che Deligny interpreta il suo ruolo di educatore, come spiega Luigi Monti nell’introduzione a I vagabondi efficaci. (Gli asini)

Nel 1948 ero a questo punto. Ecco quello che (mi) dicevo ventotto anni fa. Tutto qui quello che mi dicevo? Ecco ciò che mi dicevo, che era necessario, utile, urgente, perorare.

Adesso credo mio dovere presentare in modo diverso questa piccola raccolta di storie raccontate.

Anche il titolo sarebbe da rivedere. Intanto non si parla di orecchie. Alla vera origine di questi piccoli racconti non vi faccio neppure allusione, il che è quantomeno strano. Ma il silenzio sull’essenziale a profitto di dichiarazioni di intenzioni alquanto ampollose non ha nulla di sorprendente. Cercherò di ritrovare da dove vengano questi racconti, da dove vengono almeno per una parte. Cercherò di ritrovare nei momenti che vi hanno dato corso ciò che poteva esservi di decisivo nel senso che lo ritrovo intatto in questo muovermi di oggi, quando, di storie o di racconti, non è più il caso, dal momento che i ragazzi che sono qui non sembrano abbonati all’uso, d’altronde generalmente diffuso, del linguaggio.

1937: sono maestro supplente in Parigi e periferia. La mia prima supplenza ha avuto luogo in una classe differenziale, rue de la Brèche-aux-Loups. Il nome della strada mi calzava a pennello. Mi trovavo quindi ad avere a che fare con ragazzi anormali esperti in modi di fare e in modi di essere che sorprendevano il ragazzo che ero, dotato di quell’impiego che mi era capitato senza che mi fossi dato molto da fare. Si trattava di guadagnarmi da vivere. Avevo ventiquattro anni. Avevo davanti a me una mescolanza di presenze, in cui la sfrontatezza si misturava all’indolenza. Non sapevo neppure da che parte cominciare. A volte le ore erano lunghissime, lunghissime. Maneggiavo una sorta di quadro che si chiamava impiego del tempo, ma che finiva per rivelarsi alquanto scomodo, come una rete per farfalle senza rete: manico, cerchio e basta. Con un simile arnese le farfalle sono sfiorate, certo, ma non ci rimangono nel cerchio. Basta dare un solo colpo al cerchio per acchiapparle, che se ne volano via. Ogni tanto tiravo dei gran colpi durante le ore di scuola. A mezzogiorno mangiavo nella schiscetta fredda, piuttosto depresso, su un angolo della scrivania, solo alla mia scrivania: che era la scrivania del maestro, posta sulla pedana. Avrei potuto prendermi a cuore l’opera, ma quale opera? Sapeva di aula. Per fortuna che c’era quell’odore sovrano in cui mi ritrovavo garzone di pista, sul bordo della pista, non domatore, non clown e neppure tony, che sono mestieri nobili. Garzone di pista, inserviente, non ne esistono di più bassi nella scala. Persino le bestie hanno un nome, al circo. Non gli inservienti. L’appuntamento che mi aspettava, all’ora della ripresa delle elezioni, avrei voluto anticiparlo o ritardarlo. Loro mi mancavano, ma quando loro c’erano…

Di supplenza in supplenza, dovevo “farmi” delle classi normali, era previsto, obbligatorio, anche se io volevo conseguire il certificato attitudinale all’insegnamento dei ragazzi ritardati, non ricordo più la sigla. Caea? Allora loro erano trenta, quaranta… ne avevo preso un’impronta nel corso della prima supplenza in rue de la Brèche-aux-Loups. Nel lotto dei trenta o quaranta, distinguevo a prima vista i “dotati”, gli “allievi”, quindi “i soggetti”, e gli altri, che non erano né buoni né cattivi. Era “allievi” che non erano, come adesso, i ragazzi qui non sono “soggetti”. Loro, va a capire cosa sono…

Dunque, c’era, verso il 1938, in una scuola in piena Parigi, ma ci si poteva benissimo credere che ne so… Anche i banchi dove sedevano i ragazzi sembrava risalissero al medioevo e la lavagna datasse da prima dell’invenzione del compensato: tavole assemblate, mal squadrate, da far supporre che l’avessero ricavata, quella lavagna, dalla fiancata di un barcone in disuso. Davanti alla lavagna, nei banchi, la quarantina di scolari e, tra di loro, gli allievi e gli altri, vittime della scuola dell’obbligo.

L’essere stato da ragazzino un allievo brillante non mi rendeva talmente simpatica la testa, anche se la coda non mi diceva molto di più. Della mia prima supplenza mi rimaneva l’impronta, l’inquietudine del resto, né buono né cattivo, che non si prestava né tanto né poco a essere “allievato” (doppio significato di élevé, che continua e gioca in/su, élève, che significa alunno).

Una volta mi è capitato di farne venire uno alla lavagna, uno di quelli, per distrazione, per sbadataggine. Forse lui non c’era mai stato alla lavagna. Mi sembrava che una cappa di noia stendesse una fattura sulla classe. Ho dovuto mettergli il gesso tra le dita e a sentire il chiasso che facevano gli altri ho capito che era un avvenimento. E una mano sudicia ha tracciato un tratto bianchissimo mentre cadeva una neve appena visibile, fiato più pesante dell’aria delle vecchie tavole nere appese al muro.

Non avevo nessuna voglia di rilevare le risatine bisbigliate al pelo dei banchi. Ho sempre avuto paura della cattiveria: paura della mia stessa collera? La più piccola traccia di animosità aziona l’allarme e mi sale alla testa, smanioso a questo punto di scattare, stupido, eccessivo, don Chisciotte. Tutti i “giudizi” mi fanno andare fuori di me se non sto attento: è un difetto di natura da cui tento di cavare il meglio prima che diventi peggio. Da questo difetto sono perseguitato come direbbe qualcuno dalla nascita. A un certo momento ho anche dovuto farmene una ragione, ho dovuto averci a che fare. Ed eventualmente, averci a che fare delle storie.

Da questo furore per le risate sguaiate di cattiverie che mi facevano arrotare i denti, non so da dove è venuto fuori questo stratagemma di raccontare ciò che sembrava derivare dalle sinuosità penose di un tracciare con il gesso su quattro tavole annerite. Si trattava di seminare lo scompiglio nei ranghi degli “allievati”. È vero che, in quel periodo, lessi davvero Cervantes e nel termine errante che qualifica il cavaliere dalla cera triste si ritrova il termine di erro che denomina la linea con la quale si trascrivono i tragitti di questi ragazzi i cui progetti ci sfuggono inquantoché, essendo sfuggiti all’ordine del linguaggio, soggetti lo sono niente o ben poco e quindi perciò stesso privati di quella cattiveria con la quale ho sempre fatto a pugni. Diciamo che mi sono preparato una pensione tranquilla. Ma adesso non siamo a questo, ma nel 1938, quando improvvisavo delle storie su dei tracciare a dir poco maldestri in cui vedevo solamente che quel ragazzo, alla lavagna, non vi si era espresso né tanto né poco.

D’altra parte, non si può neppure dire che un tracciare sia maldestro. Il ragazzino alla lavagna, è sempre sorpreso di esserci, forse aveva disegnato un rettangolo come aveva visto recentemente fare a quella stessa lavagna dal maestro o dagli allievi. La parola “rettangolo” non la ricordava di certo. E non mi sarebbe mai passata per il cervello l’idea di chiedergli: “Ma cosa fai? Cosa volevi fare?”. Mi sarei sentito, a interpretare questo ruolo di interrogante, dalla mala parte dell’inquisizione. Un destino può interrogarsi, non un tracciare che per convenzione non rappresenta niente, quali che siano le intenzioni dei suoi autori.

Un tracciare evoca

A partire da quel momento, davo guinzaglio lungo a un certo magistero, non bisogna aver paura delle parole. Davo guinzaglio lungo: “C’era una volta una panchina che aveva perduto i piedi”.

Magari il ragazzo guardava quello che aveva tracciato: sconcertato.

Tra gli “allievi” è sicuro che qualcuno pensava: “Una panchina? Quello lì è capace di disegnare una panchina. Non è una panchina”. Ma l’ho detto: era un magistero e io non mettevo la mia affermazione ai voti. Non dicevo: “Cosa vedete in questo disegno?”.

Ma raccontavo: “C’era una volta una panchina che aveva perduto le sue quattro zampe”. La lavagna, l’ho detto, era fatta di un legno che sembrava catramato, scagliato. Di tutto quello che aveva potuto esserle stato scritto sopra riemergevano alcune tracce, tracciare di lettere, di cifre, frammenti di dati, di trattini, di frazioni, di + o di -.

Come da un osso è possibile risalire allo scheletro del mostro ormai per sempre scomparso, intravedevo gli spaccati degli esercizi impregnati in quelle tavole. E dicevo: “Aveva perduto le sue quattro zampe”.

Intorno a quel relitto, si addensava la folla di quei granuli di tracce che per aver perduto il loro senso ridiventavano dei tracciare: reminiscenze di realtà sconcertate dall’intrusione nel loro mondo di questo corpo estraneo planatovi da dove? “Semplice tavola di legno era diventata, la panchina, e forse per aver troppo camminato aveva perduto le zampe”.

Qualcuno può dire: “Ecco il linguaggio che riprende il sopravvento, che riprende il suo corpo per un istante interrotto. Ciò detto, ecco la ripartita di buon passo, anche se la panchina” eccetera.

Pausa di un istante: e non ne occorrono altri; è questo breve istante che mi interessa: momento di rottura.

Non sapevo altro: e questo non è durato poco.

E ce ne sono volute di tappe, di strade senza uscita, di marce indietro, di letture e incontri per arrendermi all’evidenza che tracciare non è della stessa natura di trascrivere, parlare, scrivere e di tutto ciò che appartiene alla sfera del soggetto, dal momento che tracciare può anche prenderci alla sprovvista almeno fino a che accettiamo, per quanto ci concerne, che essere dotato significa essere posseduto da una certa cultura, insieme di sistemi, di segni, che in quanto individui riceviamo dalla nascita. Allora questo vale anche per LUI. Che tracciare costituisca una falla nell’“ordine” denominato simbolico, una screpolatura in cui alcuni di noi possano (ri)trovarsi come per distrazione, è ciò che si innescava, e certamente a mia insaputa, in quella classe di prima della guerra.

Per dire che un tentativo viene da lontano.

Ho redatto a freddo alcuni di questi racconti improvvisati. Certo, non erano più gli stessi, una volta scritti e lontani dalla loro lavagna originaria.

Tuttavia.

“I ragazzi hanno orecchie?”

Hanno occhi, per vedere quello che sfugge allo sguardo nostro a causa della cultura che ci impregna.

Il vedere e il sentire del linguaggio – in cui si tratta di sentirsi – non sono “della stessa natura”, così come tracciare e trascrivere. Da cui l’arte, forse, e certe tracce furtive di questo umano che ci sfugge a causa della sua natura propria.

Della polvere di gesso cadeva dalle assi della lavagna sul pavimento. Un ragazzo in qualche misura rimasto tale non riusciva a staccarsi da ciò che poteva venir fuori da ciò che aveva appena fatto, ragazzo piuttosto duro da estirpare, dal momento che era sulla quarantina. E io non ero certamente là per caso.

Settembre 1976

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