Imparare dall’epidemia per ripensare il sistema sanitario
Intervista di Lorenzo Betti e Mauro Boarelli
Ilaria Camplone è dirigente medico dell’Azienda USL di Bologna presso il Dipartimento di cure primarie. È specializzata in Igiene e Sanità Pubblica. Fa parte del Centro di Salute Internazionale (CSI) ed è stata attivista del People’s Health Movement.
Vorremmo iniziare ragionando intorno alla medicina territoriale. È incontestabile che il depotenziamento dei servizi territoriali abbia avuto conseguenze negative nella gestione dell’epidemia. La Lombardia lo dimostra chiaramente, ma non è sola. In che modo una riorganizzazione dei servizi territoriali potrebbe aiutare ad affrontare la nuova fase dell’epidemia? Più in generale, cosa significa concepire il sistema sanitario come un sistema diffuso nel territorio?
Quando parliamo di medicina territoriale dobbiamo pensare almeno a due capisaldi: i servizi di prevenzione, ovvero l’Igiene pubblica, e i servizi capillari distrettuali, quelli di cure primarie e medicina generale. Occorre premettere che l’Ospedale si presta molto alla privatizzazione, alla esternalizzazione e alla massimizzazione del profitto. Infatti, le sue prestazioni (sia nel settore pubblico sia in quello privato) vengono valorizzate economicamente attraverso il sistema Diagnosis Related Group (DRG). Si tratta di un sistema di raggruppamento delle prestazioni e di definizione del loro costo, che è tarato sul peso della diagnosi di ricovero. Quindi l’ospedale viene finanziato in base alla gravità di quest’ultima e al numero di ricoveri fatti. Questo sistema è stato introdotto negli anni novanta per aumentare l’efficienza ospedaliera: l’ospedale non guadagna tenendo le persone in ricovero per lungo tempo, al contrario, meno le tiene dentro e più guadagna perché la quota che prende è la medesima a parità di DRG. Questo non è un male, avere un sistema efficiente serve, ma questo meccanismo basato sui DRG è molto problematico quando diventa il fine delle scelte delle Aziende Ospedaliere. La medicina territoriale viene invece finanziata a quota capitaria, che è la quota stimata per ogni cittadino residente nel territorio di competenza dell’azienda sanitaria. Con questa quota l’ASL paga tutti i servizi previsti dai Livelli essenziali di assistenza (LEA), quindi anche la prevenzione e la medicina territoriale in senso più stretto, ovvero le cure primarie, la medicina generale. La medicina territoriale è molto più difficile da esternalizzare, se non in alcune sue parti, ma è molto più facile da depauperare, in quanto meno redditizia, ed è la prima che, in un contesto di politiche privatistiche, viene messa in secondo piano e abbandonata.
Quello che è successo in Lombardia e in tutti i territori che hanno adottato nel corso del tempo politiche privatistiche e centrate sull’ospedale è stato che i servizi di Igiene Pubblica erano molto scarsi in termini di risorse umane, distribuzione sul territorio, presidi fisici, competenze, e inoltre si aveva una scarsa attenzione al lavoro di rete, che è ciò che contraddistingue la medicina territoriale propriamente detta.
La medicina territoriale è costituita da numerosi attori (non ultima la popolazione stessa) con numerose e differenti tipologie contrattuali: ci sono i dipendenti, medici o infermieri, i convenzionati, sia per la medicina generale che per quella specialistica. Una conditio sine qua non della medicina territoriale è l’integrazione funzionale tra tutte le varie anime che la contraddistinguono. La mancanza di tale integrazione, ha prodotto – nella fase di emergenza – le criticità alle quali abbiamo assistito.
Ad oggi emerge anche la necessità di avere degli strumenti a regime per il coordinamento rapido di vari soggetti. Ad esempio, nell’azienda sanitaria di Bologna esistono oltre 600 medici di base e frequentemente vengono introdotte nuove procedure che li vedono implicati. Il lavoro di coordinamento, senza un’adeguata informatizzazione, è pressoché impossibile.
L’emergenza ha messo in luce, tra le altre cose, il bisogno di investire sull’informatizzazione, oggi sempre più essenziale. Nel momento in cui, ad esempio, il medico di medicina generale rileva un paziente con sintomi compatibili con il Covid-19 e deve richiedere un tampone, dovrebbe essere in grado, attraverso una procedura informatica, di poter accedere al servizio contando su una struttura organizzata che restituisce il referto in tempi rapidi, informando medico e paziente. Molti di questi servizi, informatici e di comunicazione in generale, erano presenti in maniera assolutamente insufficiente nel sistema sanitario nazionale prima dello scoppio della pandemia, o non erano di facile e rapido adattamento alle necessità contingenti perché magari esternalizzati a soggetti terzi, rendendo la situazione ancora più complicata durante l’emergenza. I servizi informatici e di comunicazione sono dunque, a mio avvisto, servizi “core” e non devono essere esternalizzati.
In questo quadro che ruolo hanno giocato le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) istituite durante l’emergenza? Si inseriscono in una logica di medicina territoriale?
L’USCA è un servizio ad hoc pensato per fronteggiare la situazione contingente ed è stato interpretato in maniera molto diversa da contesto a contesto, talora con un peso molto rilevante nella gestione della pandemia, talora come uno tra i vari strumenti messi in campo per fronteggiare la pandemia.
A Bologna l’USCA è servita prevalentemente per visitare i pazienti a domicilio e per discriminare quali dovevano essere inviati a percorsi ospedalieri e quali potevano essere monitorati a domicilio. In altri contesti l’USCA ha avuto competenze più avanzate: ci si recava presso l’abitazione, si visitavano i pazienti, si somministrava la terapia, si dava l’ossigeno se necessario, si faceva il tampone. Tutto ciò dipende dall’organizzazione e dalle risorse di cui dispone l’Azienda Sanitaria. A Bologna abbiamo costruito, parallelamente alle USCA, degli ambulatori nei quali le persone venivano testate con il tampone, venivano effettuati approfondimenti diagnostici come esami di laboratorio o ecografia toracica e talora vi era una valutazione infettivologica e la somministrazione di una terapia. Inizialmente l’USCA è nata anche in quanto non si possedeva un numero congruo di dispositivi di protezione individuale (DPI), per cui si è preferito concentrare le scarse risorse disponibili su un gruppo ristretto di medici piuttosto che disperderli in una distribuzione diffusa sul territorio. Pian piano, con l’evolversi dell’epidemia, mutando le condizioni e avendo più risorse, tutti i medici di base sono stati forniti di DPI e sono stati costituiti più servizi, come gli ambulatori tampone, in cui le persone potevano ottenere una prenotazione effettuata informaticamente dal proprio medico di base e ricevere il referto nel giro di 24-48 ore. Tutto ciò ha indubbiamente migliorato la qualità della vita di un soggetto sospetto potenzialmente infetto che, inizialmente, non aveva idea di cosa fare oppure aspettava per giorni in casa, rischiando che le proprie condizioni di salute peggiorassero tanto da richiedere un ricovero, talora tardivo.
Tu sei molto impegnata nello sviluppo di interventi diretti sul territorio. Vorremmo che ci parlassi delle Case della salute e delle sperimentazioni delle Micro-aree, delle potenzialità e delle difficoltà di questi modi differenti di intendere l’approccio territoriale.
L’esperienza del Covid può insegnare tanto. Il fatto che a livello mediatico il Covid sia stato identificato, quantomeno in un primo periodo, con gli ospedali e le terapie intensive e, in un secondo momento, con test e tamponi e solo successivamente con l’importanza di evitare il contagio attraverso le norme igieniche, è paradigmatico di come si faccia fatica ad inquadrare i fenomeni di salute (anche quelli infettivi!) in chiave di prevenzione primaria o promozione della salute.
Se si analizza quanto accaduto, considerando i contagi all’interno dei Centri di accoglienza per migranti o nei luoghi di lavoro, o la disuguaglianza con la quale si sono infettate alcune categorie (le donne più degli uomini, le classi socio-economiche basse più di quelle alte, i neri più dei bianchi), tutto ci spinge a riflettere su quanto sia essenziale estendere alle malattie infettive quanto abbiamo sempre sostenuto a proposito delle malattie croniche e della loro distribuzione all’interno della popolazione: ovvero che i determinanti sociali hanno un peso enorme nel definire i fenomeni di salute e malattia
Mi occupo da vari anni di promozione della salute, dell’individuazione dei determinanti sociali della salute e del loro miglioramento: l’abitazione, il lavoro, le relazioni sociali interpersonali. Sappiamo benissimo, infatti, che tutto ciò impatta sulla salute, e il Covid ce lo ha dimostrato.
L’esperienza delle micro-aree mira proprio a questo, ovvero a promuovere la salute a partire dai determinanti sociali della salute, dalle condizioni reali di vita delle persone, mettendo in rete e integrando tutte le risorse che esistono su un territorio, quelle sanitarie e sociali, quelle istituzionali e, soprattutto, quelle informali. Bisogna mettere insieme le persone e provare ad incidere su quei piani in cui la sanità e i servizi sociali non riescono ad avere impatto in quanto la loro azione è basata quasi sempre su un approccio prestazionale e standardizzato che difficilmente riesce ad intercettare i bisogni delle persone. Le micro-aree, attraverso un lavoro di prossimità, attraverso lo scandagliare i problemi, i bisogni, ma anche le risorse delle persone e delle comunità, sono un tentativo di incidere sul miglioramento dei determinanti sociali a partire dalla partecipazione delle persone, a partire da quello che le persone ritengono come prioritario o rilevante per loro e iniziando un percorso insieme. Non è detto che la comunità abbia in sé la verità, questa sorta di primitivismo relativo alle comunità non è neanche giusto, a mio avviso. Si tratta, dunque, di un lavoro da fare insieme, tra servizi e comunità, da intendersi in senso molto ampio.
Le Case della Salute nascono dall’idea di integrare varie anime e vari servizi della sanità e del sociale, cercando al tempo stesso un rapporto con la comunità.
È un progetto che ha certamente un senso, soprattutto nella misura in cui, in virtù della co-locazione nello stesso luogo, riesce ad far lavorare in sinergia le diverse anime della Primary Health Care: la medicina generale, la salute mentale, l’infermieristica domiciliare e ambulatoriale e vari altri servizi che operano per rispondere alla maggior parte dei bisogni della popolazione. Le Case della Salute ospitano inoltre i medici specialisti ambulatoriali, i quali possono lavorare in integrazione con il resto degli attori qualora siano implicati in percorsi di presa in carico della cronicità. Quando invece la loro attività è prevalentemente votata all’erogazione di prestazioni, la vocazione alla continuità della cura e al coordinamento tra i vari attori per cui nasce la Casa della Salute viene meno e questa si trasforma in un poliambulatorio di vecchia memoria.
Ad oggi mi sento di dire che le situazioni a livello regionale e nazionale sono tra le più variegate e che la differenza effettiva è stata fatta dalle persone che ci lavorano. È alto il rischio che si tratti di contenitori che integrano tanti servizi dando delle prestazioni ambulatoriali più efficienti, dei percorsi più snelli, creando l’effetto “centro commerciale” (trovare nello stesso luogo tutti i servizi dei quali si necessita senza fare troppi giri), ma senza riuscire a rispondere ai bisogni della comunità.
L’Azienda USL di Bologna si è diversificata rispetto alla Regione Emilia Romagna perché ha concepito la Casa della salute non tanto come la struttura fisica, quanto come la rete di professionisti che agisce su un territorio di riferimento. Questo è, a mio avviso, un buon punto di partenza, ma è scritto nei documenti programmatici, dopodiché passare dai documenti all’azione è molto complesso. Tutto è lasciato alla gestione dei vari responsabili del territorio, alcuni dei quali hanno costruito delle solide reti di scambio con alcuni settori importanti della medicina territoriale, come ad esempio la salute mentale. Tra cure primarie e salute mentale abbiamo moltissimi casi complessi, ad esempio una persona obesa che non può più uscire di casa, con diabete e altre malattie cardiovascolari, con depressione o anche problemi più complessi, deprivazione economica, che vive con i figli adulti che magari abusano di alcool o droghe: questo è il classico esempio che magari si ritrova in determinate classi sociali basse o in contesti di edilizia popolare. In casi come questo è inutile che ciascuno curi il proprio pezzetto. Dialogare e creare progettualità congiunte, facendo parlare tra loro il medico di medicina generale, lo psichiatra, l’infermiere, l’assistente sociale, rappresenta un tentativo di lavoro di rete. Io sono responsabile di una struttura che non è una Casa della salute, ma un poliambulatorio che non ha più servizi specialistici e serve una popolazione che è la più importante di Bologna (circa 110.000 abitanti). Qui cerchiamo di fare questo lavoro di coordinamento, di creare delle progettualità integrate. Per fare ciò non c’è stato dunque bisogno dell’etichetta Casa della salute. Viceversa, ci sono alcune Case della salute diventate dei mega contenitori molto difficili da gestire dove chi si dovrebbe occupare di costruzione della rete finisce per occuparsi dell’organizzazione delle prestazioni degli specialisti, oppure dei problemi della struttura.
Quello che voglio sottolineare è che è fondamentale focalizzarsi sui processi e sulla costruzione delle reti. Le strutture possono aiutare, anche molto, ma di per sé non costituiscono la soluzione ai problemi della nostra sanità.
Proviamo a connettere quanto ci stai dicendo sull’importanza delle reti e di un approccio comunitario con la gestione dell’epidemia, in cui l’enfasi sulla responsabilità individuale è stata spesso spinta ai limiti della colpevolizzazione. Forse un maggiore accento sul ruolo della responsabilità collettiva potrebbe rappresentare un terreno di incontro fra i diversi campi di intervento?
Io credo che responsabilità individuale e responsabilità collettiva siano entrambe molto importanti. La responsabilità collettiva attiene alle scelte politiche e di sistema, sulle quali si innesta l’azione degli individui. È stato ampiamente discusso di come ad esempio durante la prima fase dell’epidemia molti contagi si sarebbero potuti evitare se fossero state chiuse le fabbriche nel bergamasco e gestiti diversamente i trasporti pubblici a Milano. Ovviamente questo attiene alla responsabilità politica, che deve farsi carico delle scelte collettive, invece in quella fase assistevamo alla grottesca colpevolizzazione dei jogger che correvano da soli nei parchi, a fronte della stessa Organizzazione mondiale della sanità che dava indicazione di svolgere l’attività fisica all’aperto nel rispetto del distanziamento. Oppure relativamente alla riapertura delle discoteche questa estate a fronte dell’evidente rischio di generare focolai epidemici: gli introiti che la politica ha scelto di garantire ai locali notturni li pagheranno i lavoratori che non sono stati protetti e le famiglie quando scoppieranno focolai nelle scuole (perché se il virus circola, prima o poi entra anche in qualche classe, come hanno dimostrato le esperienze di paesi che hanno da poco riaperto le scuole). Tutta questa dissonanza cognitiva prodotta dal discorso e dalle scelte pubbliche ha generato spaesamento nei singoli.
Tuttavia non mi sento di sollevare dalla propria responsabilità i singoli, come ho pure letto in alcune testate di sinistra. Di fronte a questa ambiguità della politica e ad alcuni discorsi infondati di una piccola parte del mondo scientifico, nonostante l’infodemia e la comunicazione spesso spaesante, chi ha voluto vivere con responsabilità civica e solidarietà nei confronti dei più deboli, chi ha voluto guardare oltre il mero interesse personale e curarsi, con i propri comportamenti, anche del bene comune, ha trovato avuto spunti e indicazioni sufficienti per adottare tutte le cautele necessarie senza sentirsi deprivato della propria libertà.
Dal punto di vista politico credo sia importante ricostruire questo legame fondamentale tra responsabilità singola e responsabilità collettiva, alla costruzione della quale nessuno – a maggior ragione chi si ritiene radicale – può sentirsi esentato.
Quello che stai dicendo è strettamente legato al tema del lockdown. Si è chiuso tutto ma non si è spiegato abbastanza, e su questa opacità si sono potuti innestare atteggiamenti repressivi. Non si è trattato di un terreno idoneo a sviluppare la responsabilità individuale.
La responsabilità individuale ha ovviamente una valenza molto maggiore oggi, perché siamo più consapevoli a livello sistemico di cosa può succedere. Nella prima fase sicuramente la responsabilità collettiva era più rilevante. Io credo che il lockdown sia stato un’assunzione di responsabilità collettiva e che fosse inevitabile in quel momento in cui non si conosceva nulla dell’epidemia e del virus in generale. Sicuramente col senno di poi posso dire che alcuni contesti, probabilmente, avrebbero maggiormente beneficiato in termini complessivi, soprattutto economici, di situazioni meno stringenti di un lockdown totale, mentre in altre aree – al contrario – ci sarebbe stato bisogno di dispositivi ancora più stringenti. Tuttavia in quel momento bisognava decidere velocemente e senza avere tutti gli elementi e credo che sia stato giusto così. Anche i dati dimostrano che questa scelta ha protetto maggiormente la nostra popolazione rispetto a stati in cui non è stata fatta.
Alla luce di ciò che sappiamo oggi, dei dati a disposizione e dell’esperienza maturata, come pensi possa evolvere l’approccio all’epidemia, quali scelte sarebbe opportuno adottare per contenerla?
Sicuramente in questo momento la cosa più importante – e sarebbe stato importante anche prima – è di avere la situazione più chiara possibile, affrontare con chiarezza l’epidemia e testare, testare, testare, sapere quante persone, sintomatiche o asintomatiche, sono portatrici del virus. Bisogna fare contact tracing, trovare i contatti delle persone positive, contenendo fin da subito l’eventuale scoppio di focolai epidemici. Su questo oggi noi siamo molto più bravi. Quello che dico è che durante l’autunno/inverno la concomitanza con l’influenza sarà molto complicata, sarà complesso distinguere chi ha sintomi influenzali da chi ha sintomi da Covid, per cui è importantissimo aumentare a dismisura la capacità di fare test. Solo avendo una situazione chiara sarà possibile contenere lo scoppio di focolai epidemici e quindi scongiurare un nuovo lockdown. È possibile che alcuni lockdown molto puntuali e circoscritti ci debbano essere, se la situazione dovesse andare fuori controllo, però io auspico che non ci sia un nuovo lockdown generalizzato come quello che abbiamo visto e vissuto. Tutto dipende dalla nostra capacità di contenere i focolai.
L’epidemia ha anche messo in luce un problema preesistente, ovvero la grave carenza di personale sanitario.
Il servizio sanitario nazionale soffre questa carenza perché la programmazione fatta negli ultimi venti anni ha determinato il cosiddetto “imbuto formativo” che ha impedito a molti medici laureati l’accesso alle specializzazioni o comunque l’ha consentito con grandissimo ritardo. Ad oggi è così per tutte le specialità, alcune di più alcune di meno, e alcune sono in una situazione molto critica. I concorsi pubblici nelle AUSL e negli Ospedali vengono fatti molto di frequente. Senza contare quanto questo costi in termini economici ed organizzativi, ogni volta che si fa un concorso si presentano pochi candidati, a volte i concorsi vanno deserti. C’è una crisi di reclutamento nel servizio sanitario nazionale dovuta ad una programmazione sbagliata. Era noto a tutti che si sarebbe verificato un salto generazionale, ma nessuno ha fatto niente per questo se non negli ultimi due o tre anni.
Spero che con le risorse promesse in occasione dell’epidemia si assuma nuovo personale, che nel nostro sistema si sviluppino la digitalizzazione e la comunicazione, cose oggi imprescindibili. Spero che intervenga un rinnovamento normativo rispetto alla possibilità di assumere personale con competenze diverse rispetto a quelle strettamente sanitarie, cosa che oggi non è possibile se non per poche figure professionali.
Lavorare nel servizio sanitario nazionale oggi espone a burnout molti medici. Molti preferiscono lavorare nel privato, dove vengono remunerati meglio e le condizioni lavorative sono diverse, non si lavora così tanto, il peso burocratico è minore. I medici italiani regalano ogni anno al servizio sanitario nazionale centinaia e centinaia di ore di straordinario e questo pesa nella vita delle persone. Molti operatori si sono addirittura licenziati dopo questa epidemia, perché hanno sofferto moltissimo.