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Imparare da soli. Che cos’è l’unschooling?

Illustrazione di David Marchetti
21 Luglio 2020
Elena Piffero Sara Honegger

Formatasi in Scienze politiche internazionali e con una specializzazione in Studi mediorientali, Elena Piffero ha studiato e lavorato al Cairo e in Israele prima di trasferirsi in Gran Bretagna. È tornata in Italia nel 2017. Attualmente vive a Nonantola insieme al marito, due figlie e un figlio. Sull’esperienza di unschooling ha raccontato in Io imparo da solo! (Terra Nuova Edizioni 2019), un saggio molto ricco per l’esperienza che vi si narra, elaborata attraverso una seria documentazione scientifica e normativa.

Dove affondano le radici della vostra scelta di non mandare i figli a scuola?

Direi senza dubbio nell’esperienza di diventare genitori. Per una serie di circostanze abbiamo iniziato a osservare i nostri figli, a porci domande e a cercare risposte sulla base delle loro richieste, del loro comportamento. Ci siamo lasciati guidare dai bambini a partire da un nucleo di fiducia, e tutto questo ha avuto un impatto positivo sulla nostra vita. In particolare, la maternità è stata per me un momento di cesura, un’esperienza che ha travolto un sistema di convinzioni, di abitudini, permettendo la germinazione di semi che risalivano all’adolescenza: la decrescita felice, l’attenzione all’ambiente, l’impatto delle scelte quotidiane sul mondo futuro. Questi semi si sono uniti agli studi che portavo avanti da anni sul colonialismo e sul post colonialismo, sull’urbanizzazione informale, aprendomi al desiderio di meglio conoscere lo sviluppo dell’uomo, sia in senso cognitivo che relazionale. Ho preso una pausa dal percorso universitario quando è nata la prima figlia. Allora non pensavo che sarebbe stato per sempre, e invece è stato così. Non avevamo la famiglia vicino, in Inghilterra le scuole dell’infanzia, tutte a pagamento, sono molto care, e presto sono nati altri due bambini. Oltre a ciò, la primogenita è stata una bimba “a grande contatto”: non voleva mai essere messa giù e si attaccava al seno continuamente, giorno e notte. Insomma, mi chiedeva molto e a queste richieste ho cercato di rispondere anche studiando, informandomi. Studiosi come John Bowlby, John Holt e Peter Gray mi hanno aiutato a interpretare quello che stavamo vivendo e questo mi ha permesso di rilassarmi, di assecondare richieste che rispondono a precise necessità biologiche. La nostra società ci ha portato a una discrepanza evolutiva: la situazione sociale e lavorativa in cui ci troviamo non sempre risponde alle necessità legate alla maniera in cui ci siamo evoluti. Basti pensare a quanto precoce sia il distacco del bambino dalla madre, così che lei possa tornare al lavoro, o alla vita che molti conducono, chiusi in un ambiente artificiale. Naomi Stadlen, di cui è stato tradotto il libro Quel che le mamme fanno (Macrolibri), sostiene che l’approccio ai figli si vede fin dall’allattamento: c’è chi ritiene di doverli “allenare”, e quindi fin da piccolissimi li inquadra in orari, a vantaggio dell’equilibrio familiare che non viene intaccato più di tanto; e c’è chi ritiene invece di doverli “seguire”, partendo dal presupposto che il bambino sappia ciò di cui ha bisogno, e quindi allattamento a richiesta. È la strada che abbiamo intrapreso noi. Non è stato sempre facile, tante volte ho avuto dubbi, mi sono chiesta: sto facendo la cosa giusta? Crescerà bene? A un anno pesava sette chili e anche se il suo sviluppo generale (motorio e del linguaggio) era ottimo, il pediatra era un po’ preoccupato. Non è scontato tenere duro. Un altro momento difficile è stato quello dello svezzamento, perché nostra figlia non ha voluto assaggiare un cibo solido fino a 14 mesi. Anche in questo caso abbiamo conservato la fiducia. E a 14 mesi ha cominciato a mangiare maccheroni. Medesimo atteggiamento di fiducia nei bambini abbiamo tenuto rispetto alle lingue: in casa se ne parlano tre (inglese, italiano, ebraico), e c’era chi diceva che li avremmo confusi, che non sarebbero stati in grado di formulare il pensiero in modo chiaro. E invece, verso i tre anni era impressionante vedere come passassero da una lingua all’altra a seconda di chi avevano davanti. Quando venivamo in Italia in vacanza, e la lingua corrente era l’italiano, la maggiore passava naturalmente all’inglese se via skype parlava col papà. La verità è che non sappiamo tantissime cose dello sviluppo e quindi, nel non sapere, meglio seguirli: ne sanno più di noi. Passata la valanga della prima figlia, con gli altri due è stato più semplice: avevamo già una visione filosofica della nostra vita familiare e del rapporto con i bambini e abbiamo proseguito.

La vostra sembra quindi una scelta dettata non tanto da una posizione ideologica contro la scuola, quanto dall’osservazione dei vostri bambini e di voi stessi nel processo di cambiamento portato dalla genitorialità…

Sì. Diciamo che a un certo punto abbiamo deciso di mettere al centro le relazioni e una certa idea di qualità della vita: preferiamo guadagnare meno, ridurre la pressione all’adeguamento al consumismo e godere di un tempo di qualità, non rincorrere le cose. Una delle domande più ricorrenti e deprimenti che mi sento rivolgere è: ma come fai a stare tutto il giorno con i figli? Io impazzirei. Questa cosa per me è destabilizzante. La verità è che meno tempo si passa insieme e meno si sta bene assieme. Se un bambino ha dovuto mettere a freno se stesso durante tutta la giornata per rispondere alle regole dell’istituzione in cui è inserito, alla fine arriva a casa con una carica di stanchezza che esplode con le persone di cui si può fidare, che dovrebbero accogliere questa frustrazione. Poi però si crea un circolo vizioso, perché anche i genitori sono stanchi. E così il poco tempo che si passa assieme diviene faticoso, difficile. Dal punto di vista sociale, è un fatto preoccupante e non posso non chiedermi che peso avrà, quando questi bambini saranno adulti. La relazione è una palestra: più si deve stare insieme, più si impara a stare insieme perché ci si confronta con le difficoltà, si impara a gestirle.

Tornando alla nostra storia, è anche vero che nel momento in cui dovevamo iscrivere la prima figlia a scuola eravamo ancora in Inghilterra, dove si accede alle elementari nell’anno in cui si compiono cinque anni. Ci siamo anche trovati davanti a rigidità importanti, soprattutto in termini di vacanze (sono poche e le assenze sono accettate solo se comprovate da documentazione medica), difficili da accettare per noi che avevamo le famiglie lontane. Tutto questo è culminato in una scelta di vita di cui l’unschooling è solo una parte. Anche mio marito ha lasciato la carriera universitaria: ci siamo trasferiti in Italia, in un casale di campagna nel modenese, e abbiamo rivisto al ribasso tutte le nostre necessità economiche. Abbiamo aperto una piccola scuoletta di inglese, che al momento è di fatto l’unica nostra entrata vera e propria, e facciamo tante cose da noi, dal pane alla birra, dalla conserva alla pasta. Quel che non produciamo, lo prendiamo dai contadini della zona o attraverso una rete di scambi e baratti. Al posto della macchina, che abbiamo venduto, abbiamo comprato una bici cargo col cassone davanti (dal 2017 abbiamo fatto 10000 chilometri) e per gli spostamenti più lunghi (Modena o Bologna) abbiamo l’abbonamento del treno. Insomma, stiamo in un ambiente, e conduciamo una vita, che ci fa essere molto sereni.

Nel tuo racconto, come per altro nel tuo libro, colpisce la capacità di privilegiare lo sguardo interno a quello del “professionista”, medico, psicologo o educatore che sia…

Credo che in questo abbia influito anche l’approccio con cui siamo stati seguiti fin dalla maternità. In Inghilterra si prevede l’intervento del ginecologo solo in caso di estrema necessità. Le ostetriche che ti seguono sono in linea con la fisiologia della gravidanza e della nascita e hanno uno sguardo di non interferenza. La mamma sa, il bambino sa, loro ci sono in caso di effettiva necessità. Con la mia seconda figlia, che ho voluto far nascere nell’acqua, l’ostetrica si è messa seduta a un paio di metri di distanza e mi ha detto: tu sai già cosa devi fare, se hai bisogno mi chiami. È un modo di porsi importante, che dà una sorta di imprinting: non è l’esperto che decide la posizione, sei tu. E questo dà una grandissima iniezione di fiducia nelle tue competenze di mamma, nell’ascolto dei segnali del tuo corpo e del tuo bambino.

La radicalità della vostra scelta non consiste solo nel non mandare i bambini a scuola, ma nella convinzione che possano imparare da soli. Non si tratta insomma di homeschooling ma di unschooling.

È stato un percorso. Come tutti i genitori, anche a noi preoccupava l’apprendimento della scrittura e della lettura. Con la prima figlia siamo quindi partiti pensando di doverle insegnare a casa ciò che non imparava a scuola. Ho passato moltissimo tempo a costruire materiali diversi, un po’ d’ispirazione montessoriana, un po’ da altri input familiari: lettere tattili, vassoi con la farina di mais o con la sabbia, lenticchie da appiccicare… Il risultato, in termini di interesse da parte di nostra figlia, era modesto: cinque minuti e poi abbandonava. Disegnava però molto e amava i libri, che in casa ci sono in abbondanza, fanno parte del quotidiano. E osservandola, avevo notato una cosa che mi aveva colpito: i libri che amava di più, quelli che ci chiedeva le leggessimo, li conosceva a memoria. La sorpresa, tuttavia, non stava in questo, ma nel fatto che quando li guardava da sola e li “recitava”, girava la pagina là dove andava girata. Poi ha iniziato a voler scrivere il suo nome e un giorno ha scritto il suo e quello della sorellina. Allora mi sono detta: perdo tanto tempo a preparare i materiali e lei coglie da quello che vede, dalle esperienze che fa! Non è stato facile accettare questo passaggio, anche perché il genitore riceve stimoli continui a preparare materiali accattivanti, naturali, cento attività da fare sul ghiaccio, sull’acqua… Mi ha aiutato anche il fatto di avere sempre meno tempo, perché nel frattempo erano nati gli altri due figli. Così i materiali ho smesso di farli e con mio marito ci siamo detti che avremmo fatto finta di essere in Finlandia, dove cominciano a scrivere e a leggere a sette anni. E quando siamo arrivati ai sette anni, lei leggeva già: aveva superato quello scoglio in maniera autonoma.

Come avviene il processo di apprendimento secondo la vostra esperienza?

Possiamo dire che il bambino impara da sé ciò che è condiviso e in comunità. Ti faccio un esempio: i nostri figli fin da piccoli hanno cominciato a suonare il violino perché il papà lo suona, come io un po’ la chitarra. La musica, insomma, è una cosa importante per noi. Abbiamo una passione per la musica folk, andiamo spesso in un paesino irlandese dove c’è un piccolo festival. Quindi i bambini hanno assorbito l’idea della musica come elemento di socialità. Quando abitavamo ancora in Inghilterra, la maggiore ha iniziato a prendere lezioni di violino da un’insegnante vicino a casa. Se fossimo vissuti nel paesino irlandese, in quella fase non sarebbe stato necessario, perché là c’è musica dappertutto e i bambini sperimentano fin da piccoli l’uso di diversi strumenti. L’altro aspetto importante è che imparano seguendo i loro interessi, le loro passioni, e laddove non arriviamo noi come genitori – o come comunità – è giusto chiedere aiuto. Se mia figlia dovesse sviluppare un interesse per l’astrofisica, dovrà cercare qualcuno al di fuori dalla famiglia. Ma questo mi pare bello: se io scopro una passione, dopo la fase da autodidatta cerco di attivarmi e di contattare qualcuno che mi possa portare a livelli più alti. L’approccio dell’unschooling dice che ci sono insegnanti e struttura nella misura in cui il bambino li richiede per le passioni e i desideri di conoscenza che manifesta nel suo percorso di crescita.

Credi quindi che il vostro approccio sia possibile solo laddove l’ambiente circostante sia sufficientemente ricco da permettere l’autoapprendimento? Sarebbe stato possibile in un ambiente come l’Italia degli anni 50?

Se pensiamo alle lettura e alla scrittura, non c’è dubbio che oggi i bambini siano esposti a strumenti di comunicazione e aspetti di vita quotidiana più che sufficienti a permettere loro di imparare in modo autonomo. Negli anni ’50 molti non sapevano leggere e scrivere e quindi la scuola, ma anche per esempio il famoso maestro Manzi in televisione, hanno svolto un ruolo importante di alfabetizzazione. Tuttavia, mi chiedo anche quante conoscenze, all’epoca diffuse, si siano perdute perché la scuola è diventata via via l’unica istituzione deputata a istruire. Penso alla puericultura, ad esempio, ma anche a un ambito a cui ho iniziato a interessarmi fin da quando vivevo in Inghilterra, come quello della filatura e della tessitura. Si tratta di competenze complesse, pratiche e teoriche insieme: la preparazione dell’ordito su un telaio, il sistema di agganci, la sequenza con cui i pedali debbono essere pressati, la conoscenza dei materiali… Tutte competenze che hanno delle ricadute estremamente interessanti anche in termini di matematica e, se vogliamo usare un termine legato ai computer, di coding. Nel giro di settant’anni abbiamo perso completamente questo tipo di conoscenza, che permetteva alle persone, per esempio, di coltivare, raccogliere la canapa e tessersi i vestiti. Tornando a noi, quest’anno la mia figlia maggiore deve fare l’esame per l’idoneità alla quinta elementare e con la scuola di riferimento abbiamo avuto un dialogo intenso. Abbiamo fatto presente, per esempio, che non abbiamo approfondito la terminologia della grammatica. Mia figlia sa benissimo quando una frase è corretta o meno, ma non ha dimestichezza con termini quali complemento oggetto o d’agente. D’altra parte, suona Bach con il violino e anche questo è apprendimento. Quindi la vera domanda è: chi decide cosa è fondamentale imparare e cosa no?

Intravedi il rischio che la vostra sia una scelta per pochi, soprattutto per chi, come voi, ha un forte bagaglio culturale?

In Italia non conosco molte famiglie che hanno fatto questa scelta. In Inghilterra c’era un po’ di tutto, da chi aveva un diploma a chi più di un dottorato. Tuttavia penso si tratti di una scelta legata soprattutto al tipo di sensibilità, alla visione. Talvolta, più scolarizzato sei e più fatica fai a uscire dalle dinamiche dell’istituzione educativa. Ci vogliono degli scossoni. Forse non ci sarei riuscita nemmeno io se non avessi avuto l’opportunità di avere una figlia molto richiedente, di non avere con me una famiglia, di non poterla mettere al nido e alla materna. Penso che il percorso di istruzione e di educazione sia strettamente legato alle aspettative di vita futura. Oggi vedo maturare semi di inquietudine, uno sguardo più critico verso i criteri imposti per il successo. Bisogna mettere in discussione questo, che cosa sia una carriera, l’arrivare, il senso di titoli di studio avanzati, cosa costituisce un “buon” lavoro… Ora che, come scherzava un comico, ci sono più laureati dietro il bancone di McDonald’s che in certi settori del governo, forse si apriranno margini per tentare nuove strade. Penso soprattutto alle donne, perché la maternità è uno snodo chiave, e tutte le scelte hanno un prezzo: se abbandoni la carriera ti guardano dall’alto in basso per tutto ciò che pensano tu abbia sprecato; se rientri al lavoro subito, stai male per il tempo che sottrai a tuo figlio, al vostro legame… Si aprono così momenti importanti di revisione delle priorità.

Quando è scoppiata l’epidemia, il tuo libro mi è tornato prepotente alla memoria. Nel ritrovarmi a pensare che la cura – stare ore e ore di fronte a un computer o a un tablet – potesse essere ben più dannosa della presunta malattia – perdere alcuni mesi di scuola – mi sono detta: perché non cercare di capire meglio come vivono, che qualità di esperienza hanno, coloro che stanno fuor dall’istituzione scolastica?

Mi sarebbe piaciuto che esperienze come la nostra fossero ascoltate di più, perché credo avrebbero potuto offrire spunti e anche rassicurazione. Gli studi sugli unschooler ci dicono che senza scuola si può crescere bene. Come hai detto prima, non sono una unschooler ideologica: non sono partita da un’avversione per la scuola pubblica e mi capita di trovarmi molto in sintonia con insegnanti o dirigenti che perseguono un’idea di educazione differente, anche nella scuola di stato. Penso a Giampiero Monaca, preside di una piccolissima scuola statale a Serravalle D’Asti, che in tempi normali si svolgeva soprattutto all’aperto, e che in tempi di Covid ha scelto di supportare i genitori a scoprire le ricadute, in termini di apprendimento, di tutti i lavori domestici, nei quali hanno chiesto di coinvolgere i bambini. Lavoretti forzati, li hanno chiamati. La vita quotidiana è una fonte inesauribile di apprendimento, se ci si mette la testa. Mi sento molto in linea anche con il Manifesto dell’educazione diffusa (di Paolo Mottana, Giuseppe Campagnoli e Luigi Gallo), dove si parla della scuola come di un luogo/tempo di organizzazione di gruppi di interesse che svolgono altrove esperienze formative. Sono contributi sui quali ci si dovrebbe soffermare per ripensare una scuola che rischia di perdere, a causa delle norme sulla distanza, quel poco di interesse che ancora manteneva dal punto di vista dell’interazione. Per me è stato sconvolgente vedere mia nipote che alle materne aveva i compiti da fare, cose da copiare e cose da tagliare. Siamo davvero sicuri che un bambino di tre anni debba essere stimolato in questo modo? In questi mesi ho visto crescere l’interesse di molti genitori per la nostra esperienza proprio per la deriva che sta prendendo la scuola, che dovrebbe pensarsi flessibile anche in termini di frequenza. Se un bambino ha bisogno di stare a casa, perché negargli il dritto alla solitudine, al bisogno di imparare anche per conto suo? Il punto vero è che la scuola è un tassello su cui si regge il sistema economico così come lo stiamo vivendo. Questi mesi ne hanno evidenziata la vera funzione: permettere a degli adulti (genitori, insegnanti) di lavorare. Se vogliamo cambiare sistema, dobbiamo partire da scelte che sì, forse sembrano un po’ pazze, ma da esse ne possono dipendere molte altre.

Nel tuo libro citi un noto proverbio africano, Di quanto “villaggio” abbiamo bisogno per non mandare figli a scuola? E che tipo di ricaduta ha, sul territorio e le sue istituzioni, una famiglia come la vostra, una scelta come la vostra?

Quando abbiamo maturato questa scelta vivevamo ancora in Inghilterra, dove il diritto della famiglia nel decidere quale istruzione dare è molto sentito e si inserisce in un solco storico di lunga tradizione. Vivevamo a Bath, una città un po’ borghese ma con una biblioteca spettacolare, ben fornita e anche ben disposta. Due volte all’anno organizzavano eventi per i bambini che non vanno a scuola, dove era presente anche un rappresentante del dipartimento istruzione a disposizione per dubbi, difficoltà, supporto a metterci in rete. Poi avevamo una fattoria didattica a due passi di casa, che si occupava di progetti di salute mentale e di reinserimento di persone fragili. C’era un gruppo nutrito di famiglie, varie opportunità di interazione, è stato facile partire così, l’ambiente era accomodante. Avevamo anche l’accesso gratuito a tutti i musei, una risorsa incredibile, a maggior ragione se hai interesse a che i figli possano fruirne. È un invito ad andarci quando vuoi, per quanto tempo vuoi. Infine, avevamo trovato un gruppo di famiglie che si occupavano di ambiente in senso lato e una volta al mese ci ritrovavamo in un pub, unendo così i due ambiti nei quali stavamo approfondendo la nostra ricerca, l’educazione e l’ambiente.

In Italia ci siamo trovati di fronte a rigidità abbastanza importanti dovute sia alla non-conoscenza del fenomeno, sia a veri e propri pregiudizi: essere visti come gente che fa opposizione dura e pura – no vax, no tav, no school -; o essere accusati di voler tenere i figli sotto la campana di vetro. D’altra parte, siamo in Emilia Romagna, terra ricchissima di relazioni, associazioni di volontariato, attivismo civico… Anche qui abbiamo una biblioteca, una ludoteca, Legambiente con cui andiamo a raccogliere i rifiuti… Diciamo che laddove c’è fermento, una scelta come la nostra è facilitata e crea una dinamica interessante; laddove le opportunità mancano, bisogna cercarle con il lanternino, costruirle, sostenerle. E anche questo può creare delle dinamiche interessanti. Una delle mie bimbe vuole fare la pasticceria. Siamo quindi andati dal pasticcere locale e gli abbiamo chiesto se nostra figlia poteva trascorrere un po’ di tempo con loro per vedere come funziona il laboratorio. È stata accolta con grande disponibilità, presa come sotto la loro ala protettiva. È una cosa piccola, ma crea delle relazioni, delle attitudini. Un altro esempio: poiché sanno che siamo una famiglia che suona, ci hanno chiesto di fare i busker e hanno iniziato a invitarci nei mercatini di Natale, alle feste del volontariato. Un giorno, la nostra seconda figlia, avendo imparato alcune canzoni nuove, ha chiesto al padre di portarla al mercato perché voleva suonarle per gli altri. Bene, i vigili ci hanno multato per accattonaggio con uso di minore. Siamo finiti sul giornale, ci hanno intervistato alla radio, s’è creata attenzione attorno a noi. Poiché sono combattiva e non mi fermo, ho scritto al sindaco e sono andata a leggere per bene la normativa, dove ho visto che esiste un comma specifico per gli artisti di strada, al quale i vigili avrebbero dovuto far riferimento. Credo che la nostra presenza susciti interrogativi e smuova un po’ il terreno. Credo abbia anche una ricaduta, visibile forse soprattutto sul lungo termine, perché laddove non si delega l’educazione a una sola istituzione, tutta la comunità è chiamata a farsene carico. Diventa una responsabilità collettiva, una responsabilità politica.

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