Il vertice ONU sui sistemi alimentari e la governance globale del cibo

Il Segretario Generale dell’Onu António Guterres, con il sostegno del World Economic Forum (cioè il consorzio di transnazionali che organizza il Forum annuale di Davos), organizzerà a New York nel mese di settembre un Vertice sui sistemi alimentari, il “Food Systems Summit” (Fss) . Un’iniziativa molto discutibile e che è già stata molto criticata dai movimenti sociali e dalla società civile, ad esempio con una lettera indirizzata da 300 organizzazioni al Segretario Onu a febbraio 2020, che è rimasta senza risposta, e con una successiva lettera al coordinatore del Comitato sulla Sicurezza Alimentare Globale. Le critiche vertono sul fatto che questo vertice sostituisce al governo multilaterale delle Nazioni Unite un approccio “multistakeholder”, che mette al centro le corporation multinazionali del cibo. La governance globale del cibo che viene proposta si basa sul mercato libero, la tecnologia e i big data e privilegia i profitti delle imprese rispetto alla lotta alle disuguaglianze e alla salute delle persone e del pianeta.
Dal 26 al 28 luglio si terrà a Roma un pre-vertice al quale il governo italiano sta cercando di dare grande visibilità, insieme con gli eventi del G20 di cui l’Italia ha la presidenza quest’anno. Ci si può aspettare una grande copertura sui media, mentre la società civile e i movimenti contadini organizzeranno degli importanti contro-eventi. Sarà necessario tenersi aggiornati e mobilitarsi per influire su questo processo. In vista di ciò, è importante approfondire le dimensioni e la storia della governance globale del cibo, che sarà all’ordine del giorno negli incontri di Roma e New York (oltre a questo articolo, rimando al mio libro Food Governance: Dare autorità alle comunità. Regolamentare le imprese, Jaca Book, 2019).
La governance globale del cibo: storia e questioni in gioco
Le scoperte archeologiche hanno consentito di datare gli scambi intercontinentali di cibo a ben prima rispetto al commercio di spezie praticato da Marco Polo, che così tanto colpisce l’immaginazione italiana. Tuttavia, l’attuale governance del cibo a livello globale è entrata in scena con il capitalismo e l’espansione coloniale. In termini di politica economica, i teorici dei “regimi alimentari” (food regimes), come Philip McMichael (di cui si può leggere in italiano Regimi alimentari e questioni agrarie, Rosenberg & Sellier, 2016), parlano di periodi successivi in cui gli attori dominanti hanno cercato di organizzare il commercio agroalimentare con l’obiettivo di ottimizzare l’accumulazione capitalista, il primo guidato dalla Gran Bretagna imperiale (tra gli anni 1870 e gli anni 1930), il secondo dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra e fino agli anni settanta) e il terzo – che vacilla oggi sotto i colpi di molteplici crisi – dalle corporation.
Sul piano della governance istituzionale del cibo, invece, si dovette aspettare la costruzione di una architettura intergovernativa mondiale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Vi sono stati tre momenti fondamentali di questo processo: la creazione della Fao nel 1944, la World Food Conference del 1974 e la riforma del Comitato delle Nazioni Unite sulla Sicurezza alimentare globale (Committee on World Food Security, Cfs) nel 2009. Tutti furono provocati da importanti crisi alimentari, le cui implicazioni non poterono essere ignorate dalla comunità internazionale. Gli approvvigionamenti istituzionali che essi introdussero, tuttavia, non erano e non potevano essere sufficienti per far fronte alle questioni strutturali cumulative alla base di tali crisi: dall’estrazione coloniale di risorse per fornire cibo a buon mercato alle classi lavoratrici, al dumping operato nel secondo dopoguerra dai surplus di cereali statunitensi travestiti da aiuti alimentari, fino alle politiche neoliberiste introdotte dagli anni settanta con gli effetti di aprire i mercati dei paesi “in via di sviluppo” e di esporre i loro piccoli produttori alla concorrenza sleale dei prodotti alimentari esteri sostenuti da sussidi nei paesi di provenienza. Inoltre, al di là dei meccanismi formali di governo, una buona parte delle decisioni che hanno un impatto sull’approvvigionamento del cibo è di fatto esercitata dalle corporation agroalimentari che gestiscono le filiere senza supervisione politica.
Commentando in un libro del 2016 i risultati dei tre momenti fondamentali della governance globale del cibo nel secondo dopoguerra, John Shaw, un funzionario di lungo corso del World Food Program dell’Onu, ha notato che questi risultati “erano più spesso quello che i grandi poteri non volevano che non quello che volevano fare”. Il World Food Board e l’International Trade Organization, che furono proposti quando l’architettura della governance internazionale del cibo fu disegnata nel secondo dopoguerra, ma su cui gli Stati Uniti posero il veto, avrebbero permesso la regolazione dei flussi globali di cibo nel nome del “cibo per tutti”. Il World Food Council, sfortunato e dal mandato inadeguato, istituito dalla World Food Conference del 1974, fu un povero compromesso fra l’autorevole World Food Security Council proposto da alcuni e la resistenza di coloro che non volevano istituire nessuna nuova organizzazione delle Nazioni Unite che potesse effettivamente occuparsi di questioni strutturali come quella della sicurezza alimentare globale. La crisi alimentare del 2007-2008 ha rivelato, ancora una volta, un vuoto politico per cui, in assenza di un apposito forum politico autorevole, le decisioni in questa area chiave erano prese di fatto da un club ristretto di paesi ricchi, corpi internazionali come l’Organizzazione Mondiale del Commercio che hanno un mandato istituzionale differente o, ancora peggio, attori economici e finanziari privati che non sono soggetti ad alcuna supervisione politica.
La storia della governance del cibo del secondo dopoguerra è essenzialmente la storia di come la responsabilità pubblica sia stata ceduta ai mercati e alle corporation, a detrimento della maggior parte della popolazione mondiale e del pianeta che abitiamo. È la storia di come siano stati progressivamente privati di potere i principali attori della sicurezza alimentare: i piccoli produttori e le unità familiari, che sono investiti della preoccupazione immediata per l’approvvigionamento di cibo. Nello stesso periodo, tuttavia, abbiamo assistito alla crescita di una rete sempre più robusta, diversificata e articolata di questi produttori e di altri attori sociali, i quali non possono contare sul sistema alimentare globalizzato diretto dalle corporation. Questi movimenti, sotto la bandiera della “sovranità alimentare” (ne ho parlato sul numero di febbraio 2020 di questa rivista), sono fortemente impegnati nella difesa e nella costruzione di modi di approvvigionamento alimentare sostenibili dal punto di vista ecologico e sociale e radicati sul territorio, che di solito sono chiamati “alternativi”, sebbene siano responsabili di circa il 70% del cibo consumato nel mondo. La parola chiave per descrivere la dialettica tra queste due dinamiche è potere, in tutte le sue declinazioni: il potere di definire l’agenda del cibo, il potere di pesare quando sono prese le decisioni, il potere – o la mancanza di potere – di sostenere i diritti dei vulnerabili e gli interessi pubblici che sono fondamentali per il benessere delle generazioni odierne e future.
Quattro domande critiche possono guidarci per seguire l’evoluzione della governance globale del cibo: cosa è necessario che venga governato? Da chi? Come? Per quale proposito e a profitto di chi?
Il “cosa” della governance istituzionale del cibo si è evoluto costantemente, anche se non in maniera coerente. Il concetto di ‘sicurezza alimentare’ è stato proposto dall’inizio come obiettivo della governance del cibo. Dall’orientamento puramente produttivista e dal lato dell’offerta adottato dalla World Food Conference del 1974 (durante la quale la sicurezza alimentare fu definita come “disponibilità in tutti i momenti di un’offerta mondiale di alimenti di base adeguata per sostenere una costante espansione del consumo di cibo e per compensare le fluttuazioni nella produzione e nei prezzi”), il concetto è arrivato in seguito a comprendere questioni come l’accesso, la stabilità, l’utilizzo o la qualità nutrizionale. La definizione accettata e usata oggi espande l’idea di accesso e aggiunge un accenno alla cultura: “La sicurezza alimentare esiste quando tutte le persone, in tutti i momenti, hanno un accesso fisico, sociale ed economico a cibo sufficiente, sano e nutriente, che soddisfi i bisogni di una dieta sana e le preferenze alimentari per una vita attiva e salutare”. Questa estensione del campo di applicazione, tuttavia, non ha messo al riparo il concetto di sicurezza alimentare dalle critiche. Ad attaccarlo per primo sono stati attori della società civile, che hanno notato, dal tempo del World Food Summit nel 1996, che esso non prendeva in considerazione le questioni importanti di dove il cibo dovrebbe essere prodotto, come, da chi, a beneficio e sotto il controllo di chi (per approfondimenti, N. McKeon, Global Food Governance. Between corporate control and shaky democracy, Development and Peace Foundation, 2018). Tali questioni hanno continuato a definire la battaglia del cibo fino a oggi. Un report pubblicato nel 2020 dall’High Level Panel of Experts (Hlpe)del Cfs (Food security and nutrition. Building a global narrative towards 2030) aggiunge due importanti dimensioni, la sostenibilità e l’agency, avvicinandolo al paradigma della sovranità alimentare.
La storia della governance del cibo del secondo dopoguerra è essenzialmente la storia di come la responsabilità pubblica sia stata ceduta ai mercati e alle corporation, a detrimento della maggior parte della popolazione mondiale e del pianeta che abitiamo.
La nascita produttivista e market-oriented della governance globale del cibo e gli interessi commerciali di potenti attori politici ed economici hanno determinato un focus sulle “catene del valore” come ciò che necessita di essere governato, un orientamento che continua a riapparire in momenti di crisi, nonostante la sua evidente inadeguatezza, come ha mostrato la pandemia da Covid19. Tuttavia, negli anni più recenti c’è stato un progressivo cambiamento verso il concetto molto più ampio di “sistemi alimentari” (food systems), descritto dallo Hlpe in questi termini: “Un sistema alimentare comprende tutti gli elementi (ambiente, persone, input, processi, infrastrutture, istituzioni, ecc.) e le attività collegate alla produzione, trasformazione, distribuzione, preparazione e consumo del cibo, e i prodotti di queste attività, inclusi i prodotti socio-economici” (Food losses and waste in the context of sustainable food systems, 2014). C’è un ampio consenso sulla necessità di andare oltre un approccio basato sull’agricoltura per includere considerazioni relative a nutrizione, clima, salute e altri aspetti, ma il consenso finisce qui. La definizione e regolazione dei sistemi alimentari è oggi il campo di battaglia della governance del cibo. Una battaglia tra, da un lato, chi spinge per una comprensione sistemica della trasformazione profonda richiesta per la salute e il benessere del pianeta e delle sue popolazioni e, dall’altro lato, il modo con cui si posiziona il Fss del prossimo settembre, guidato dalle corporation, che sta profilando un futuro ad alta tecnologia legato alle onnipresenti digitalizzazione e medicalizzazione della nutrizione, sostituendo prodotti naturalmente salutari con integratori alimentari industriali.
Le idee riguardanti “da chi”, “come” e “per quale proposito e a profitto di chi” il cibo dovrebbe essere governato a livello globale si sono del pari evolute. Gli stati sovrani prendevano decisioni politiche in splendido isolamento alle Nazioni Unite e alla Fao dalla loro fondazione fino agli anni ottanta, quando una serie di fattori hanno spinto il sistema dell’Onu ad aprirsi ad altri attori, principalmente la società civile e il settore privato. La crisi dei prezzi del cibo nel 2007-2008 ha dato un’altra spinta. Quando le rivolte per il cibo nelle capitali di tutto il mondo erano sulle prime pagine, la reazione iniziale della comunità internazionale prese la forma del “business as usual” del potenziamento dell’efficienza amministrativa attraverso la creazione di un consorzio dei segretariati delle agenzie e dei programmi Onu che si occupavano di sicurezza alimentare, assieme a una richiesta di stabilire un fondo gestito dai donatori per dirigere più aiuti e investimenti sull’agricoltura, senza riflettere su quale modello fosse necessario promuovere. La proposta di riforma del Cfs dell’Onu, esistente ma inefficace, che mirava a trasformarlo nel principale forum intergovernativo e inclusivo per una coerente politica globale del cibo, fu l’unica che riconobbe le cause strutturali della crisi e il bisogno di cercare soluzioni politiche attraverso la negoziazione politica, con la sfera pubblica che si prendesse la responsabilità di regolare le attività del settore privato nell’interesse pubblico. Quella riforma ebbe successo grazie a un contesto politico particolare in cui alcuni paesi chiave dell’America Latina poterono allearsi con alcuni paesi europei che difendevano il diritto al cibo, la Fao guidata da un direttore generale africano molto deciso e il combattivo movimento per la sovranità alimentare che da allora ha costruito la sua capacità di advocacy a livello globale.
La definizione e regolazione dei sistemi alimentari è oggi il campo di battaglia della governance del cibo.
Il Cfs riformato è in prima linea nella costruzione di una governance globale del cibo inclusiva nella cornice internazionale dei diritti umani, assegnando una voce prioritaria a quegli attori che più subiscono l’impatto delle politiche in discussione, mentre le decisioni finali continuano a essere riservate ai governi, che quindi continuano a dover rendere conto per esse ai propri cittadini (N. McKeon, Global Governance for World Food Security: A scorecare four years after the eruption of the ‘food crisis’ Heinrich Boll Stiftung, 2011). La visione opposta, denominata “multistakeholderismo”, è stata elaborata dal World Economic Forum, attraverso un processo di “Ridisegno Globale” che comprende il rimpiazzare quello che è giudicato come un sistema multilaterale goffo e inefficiente, con una serie di “coalizioni dei volenterosi e capaci” (“coalitions of willing and able”), incaricate di affrontare i problemi globali più scottanti. Ognuna di esse è guidata da attori corporate, che si presume abbiano il necessario know-how, la capacità manageriale e le risorse per far sì che le cose accadano, anche se non la volontà di dover rendere conto dei risultati delle loro azioni. Questa è la visione che anima il FSS, sebbene i comunicatori delle corporation lo abbiano abilmente rappresentato come il “People’s Summit”.
L’approccio del World Economic Forum e del Fss mette l’accento sull’azione attraverso partnership pubblico-privato nelle quali finanziamenti pubblici misti e aggiustamenti politici creano un “ambiente favorevole” per gli investimenti delle corporation senza i quali, si assume, non si potrebbero trovare soluzioni alla fame. La visione, qui, è che le soluzioni centrate sul mercato sarebbero efficienti e dovrebbero in qualche modo tradursi in una crescita a beneficio di tutti, negando l’evidenza delle disuguaglianze in crescita costante all’interno e tra i diversi paesi. La tensione tra il cibo come un diritto umano e il cibo come un bene di mercato è ancora al cuore della lotta per la governance del cibo, come avviene da quando furono fondate le Nazioni Unite.
Dai tempi della riforma del Cfs il contesto politico è peggiorato. Il potere delle corporation nelle filiere del cibo ha continuato a crescere e la finanziarizzazione sta trasformando cibo e terra in oggetti di speculazione. Lo spazio di azione della società civile e la volontà di difendere i diritti umani si riducono. Il primato e la legittimità del settore pubblico sono minacciati dal fatto che le corporation si appropriano di spazi politici e da una narrazione dello sviluppo che assegna un ruolo guida agli investimenti privati (esteri), mentre il multilateralismo è sotto attacco da parte di un virulento nazionalismo populista.
Allo stesso tempo, l’edizione del 2020 dello State of Food and Nutrition Security in the World della Fao ha riportato una crescita del numero di persone che soffrono la fame per il quinto anno consecutivo, con l’impatto del Covid19 che probabilmente causerà un aumento sostanziale di queste cifre nei prossimi anni. La pandemia ha svelato e aggravato le questioni strutturali che ci hanno portato fuori strada rispetto al raggiungimento del secondo dei “sustainable development goals” fissati dall’Onu per il 2030, cioè quello dell’azzeramento della fame nel mondo. I sistemi alimentari mondiali richiedono trasformazioni radicali; è necessario difendere la visione di una governance inclusiva, rappresentata dal Cfs. Cosa ci serve per raggiungere questi obiettivi?
Cosa è necessario per costruire una migliore governance globale del cibo?
Il già citato report dell’Hlpe del giugno 2020, commissionato dal Cfs, afferma in modo lungimirante la necessità di quattro cambiamenti politici fondamentali: politiche che promuovano radicali trasformazioni dei sistemi alimentari in direzione di una maggiore equità, sostenibilità e radicamento sul territorio; politiche che favoriscano l’interconnessione di differenti sistemi e settori; politiche che affrontino la fame e la malnutrizione in tutte le sue forme e incoraggino la produzione di molte varietà di frutta e verdura fresca e locale; politiche che sviluppino soluzioni specifiche per ciascun contesto e che prendano in considerazione le condizioni e la conoscenza locale. Tutto ciò deve essere sostenuto da una governance efficiente centrata sul diritto al cibo e sugli altri diritti umani, con il Cfs che giochi un ruolo guida, data la sua legittimazione fondata sull’inclusività, sul fatto che i governi debbano rendere conto delle loro scelte e una solida base di evidenze costruita autonomamente per la deliberazione politica.
I popoli indigeni hanno lezioni da insegnarci che noi non possiamo più permetterci di ignorare, rispetto all’importanza di reintegrare l’umanità nella natura e di mettere fuorilegge forme di profitto che danneggiano la rete della vita e il pianeta che la sostiene.
Le pietra d’inciampo che accurate analisi come questa incontrano è sempre la stessa: alla fine è una questione di volontà politica, e la volontà politica – in questa epoca di leader largamente non illuminati – è difficile che emerga senza livelli significativi di mobilitazione popolare politicamente efficace. Questa difficoltà è esacerbata da un lato dalle ondate di nazionalismo populista e autoritario di cui il mondo sta soffrendo e, dall’altro lato, dalla capacità ben nota del capitalismo di reinventare soluzioni che producano profitto ai problemi che esso stesso ha creato (i miei preferiti sono i droni a strisce gialle e marroni introdotti per impollinare le piante in sostituzione delle api che sono state sterminate dai pesticidi venduti dalle stesse corporation). Non c’è dubbio che i tempi siano maturi per la negoziazione di un nuovo contratto sociale che governi l’approvvigionamento alimentare e spezzi lo strapotere delle corporation. Ecco alcuni suggerimenti rispetto alle direzioni in cui potremmo lavorare.
La prima è pensare al di fuori degli schemi (occidentali) con più determinazione rispetto a quanto abbiamo fatto fino ad ora. I popoli indigeni hanno lezioni da insegnarci che noi non possiamo più permetterci di ignorare, rispetto all’importanza di reintegrare l’umanità nella natura e di mettere fuorilegge forme di profitto che danneggiano la rete della vita e il pianeta che la sostiene. Un altro imperativo è quello di prendere seriamente le analisi femministe, non solo come una prospettiva tra le altre ma come una profonda rilettura di tutti gli aspetti della trasformazione dei sistemi e della governance del cibo.
La seconda direzione è quella di condurre la battaglia delle narrazioni, che oggi sembra avere un successo un po’ maggiore rispetto a pochi anni fa, come mostra per esempio l’accettazione ampia dell’agroecologia come modo di produrre migliore rispetto all’agricoltura industriale. Siamo ben consapevoli della capacità delle corporation multinazionali di cooptare linguaggi e concetti, e infatti l’agroecologia è l’oggetto di un esercizio di questo tipo, con le catene della grande distribuzione che sviluppano i propri brand nei quali alcune pratiche agronomiche vengono separate da una comprensione più complessiva delle implicazioni sociali, culturali, ecologiche e politiche dell’agroecologia. Sappiamo anche che i prodotti definiti in maniera ristretta come agroecologici dalla logica delle corporation potrebbero avere qualche effetto positivo sull’ambiente, ma essi non potranno mai contribuire alla creazione di occupazione, migliorare la qualità del cibo per le comunità interessate o rafforzare il tessuto sociale ed economico di aziende familiari nel modo in cui tutto questo è realizzato dalla “vera” agroecologia contadina.
La pandemia da Covid19 ci sta aiutando a svelare la realtà. I piccoli produttori e altri attori sociali hanno condotto dure lotte nel Cfs per il riconoscimento del fatto che la maggior parte del cibo consumato nel mondo transita attraverso mercati territoriali o “informali” e non attraverso filiere “formali” e supermercati, ottenendo finalmente raccomandazioni politiche in questo senso nel 2016 . Quando il Covid19 ha colpito, la risposta istintiva dei governi, ideologicamente ed economicamente influenzata, è stata quella di chiudere i mercati territoriali “non sicuri” e di concentrarsi sul tenere in movimento le filiere globali e aperti i “moderni e sicuri” supermercati. La protesta popolare e le verifiche nel mondo reale hanno portato però molte autorità – a livello locale soprattutto – a riaprire i mercati territoriali da cui la maggior parte della popolazione dipende per cibo fresco e nutriente, e gli spazi della governance globale stanno ora sempre più riconoscendo le fragilità delle filiere globali se comparate con i sistemi alimentari territoriali.
Un altro imperativo è quello di prendere seriamente le analisi femministe, non solo come una prospettiva tra le altre ma come una profonda rilettura di tutti gli aspetti della trasformazione dei sistemi e della governance del cibo.
Le narrazioni delle corporation vanno avanti con generalizzazioni e slogan quali il produttivista “come nutrire 9 miliardi di persone entro il 2050?”. Narrazioni alternative guadagnano terreno attraverso una definizione chiara dei problemi e un’aderenza alla realtà. Il World Economic Forum e il Fss ora lamentano genericamente che il cibo e l’agricoltura sono responsabili per ogni tipo di problema climatico, ambientale e di salute, senza distinguere tra i differenti impatti delle filiere agroindustriali globali se comparate con i sistemi alimentari territoriali agroecologici e contadini. Il Fss pensa di assemblare le componenti dei sistemi alimentari come se fossero perline da legare assieme una dopo l’altra e vorrebbe maneggiare compromessi come se fosse una partita a poker. La narrazione alternativa è consapevole dei modi complessi in cui le diverse componenti dei sistemi alimentari interagiscono e si influenzano l’una con l’altra, ed esclude i diritti umani dal gioco dei compromessi. Anche qui l’inclusivo Cfs, dove i piccoli produttori e le altre categorie sociali possono portare le proprie evidenze, è un focolaio di chiarezza radicata nella realtà, se paragonato con altri forum dell’Onu.
La terza direzione è quella di ricostruire la governance del cibo (e la democrazia) dal basso, con un aiuto da parte di normative dall’alto. Se il Cfs costituisce la frontiera avanzata di una governance inclusiva multilaterale, questo è dovuto al fatto che la sua riforma è stata il prodotto non di un esercizio di disegno tecnocratico a tavolino o di un diktat governativo, ma di due decenni di mobilitazione e di costruzione di reti da parte di piccoli produttori e altre categorie sociali, dal livello locale a quello globale. Affinché la governance funzioni in maniera favorevole ai popoli e al pianeta, è necessario che le persone esercitino la propria agency come cittadini e comunità, piuttosto che come consumatori individuali e attori economici in una logica di mercato. Questo è un apprendistato che nella maggior parte dei casi funziona meglio a livello locale, per cominciare, dove le autorità sono più vicine alla realtà e alla pressione delle comunità. Se la realtà è importante per combattere false narrazioni, essere collegati consente di costruire potere politico contro l’isolamento e la separazione tra produttore e consumatore indotta dal mercato e contro la divisività del discorso populista e nazionalista noi-loro. La ricostruzione di connessioni comincia nella comunità ma richiede convergenza per essere efficace politicamente: una convergenza intersezionale a tutti i livelli, attraverso aree di interesse e identità, che costruisce una comprensione comune delle minacce portate dalla cattura dell’economia e della democrazia da parte delle corporation e che stimola un’azione comune contro esse.
Naturalmente, c’è una relazione dialettica tra differenti livelli a questo proposito. Tra i punti di supporto che il livello globale può fornire ai movimenti popolari che si mobilitano dal basso c’è la difesa convinta del bisogno di situare le politiche e l’azione all’interno di una cornice normativa basata sui diritti umani e della sfera pubblica come lo spazio legittimo in cui ci si prende la responsabilità di definire le regole per l’azione del settore privato e ci si assicura che esse siano rispettate. La guida politica che il Cfs assicura è notevole ed è necessario applicarla in maniera più rigorosa.
Dopo oltre due decenni di critica agli stati nazionali da parte dei movimenti popolari che chiedono giustizia ed equità, oggi, in un momento in cui aumenta e si concentra il potere delle corporation, un crescente numero di attori sociali sta riscoprendo i benefici della governance multilaterale, se essa può essere messa a difesa della sfera pubblica, degli interessi pubblici e dei diritti umani. Il Cfs inclusivo è uno spazio in cui questo può accadere ed è per questo che costituisce il luogo da cui cominciare nel collegare i forum internazionali – oggi frammentati e spesso contraddittori – che si occupano di sistemi alimentari. Chi avrebbe previsto, un decennio fa, che un movimento popolare avrebbe potuto sollevarsi per difendere un forum intergovernativo come il CFS contro lo sforzo di un Food Systems Summit di costruire la conquista della governance globale del cibo da parte delle corporation? Se giochiamo bene le nostre carte potremmo davvero avvicinarci a una Onu dei Popoli.
Questo articolo trae materiali da un articolo più dettagliato che
apparerà in inglese sul “Development Journal”, 64, 1, 2021.
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