Il termine “Nero” e il suo doppio*

traduzione di Livia Apa
Il termine “Nero” come significante razziale, porta con sé tutta una “poetica grezza” della quale lo scrittore haitiano Jean-Claude Charles ha fornito un dettagliato abbecedario. “Percorso alfabetico” lancinante, ripetitivo, che evoca gli abituali bestiari (scimmia, bestia, Tarzan…), l’anatomia fantastica (bocca, cranio, naso, fallo, dentatura, culo da negro…), luoghi consacrati (Harlem, L’Africa, il Katanga…) o, ancora, simboli ormai logori (ebano, fuoco, magia, notte…)i.
Questo catalogo di immagini – vetrina di tante curiosità letterarie – implica anche una politica che si declina intorno ad alcuni grandi temi. Evocare il termine “Noir” vuol dire rimanere imbricato in una serie di problemi specifici che ritornano oggi con più o meno clamore sulla scena: le questioni relative all’identità e alla differenza, alla tensione tra l’autenticità e l’assimilazione, alla razza e all’universale. Identità, razza, integrazione – tre termini che si intersecano e esauriscono in un unico movimento, tutto quello che ci possiamo aspettare dal termine “Nero” sul piano politico. Nient’altro.
La questione nera diventa la questione dei Neri. Il piccolo perimetro consentito all’interno di quelli che sono stati identificati come “neri” si raccontano i loro mali, le loro storie, tra di loro, sotto l’occhio benevolente dell’antico maestro, felice della beffa.
Il termine “Nero” appare come un nome-ghetto in un mondo pienamente soddisfatto della proliferazione di narcisismi e di provincie. Eppure, ogni intelligenza politica sensata dovrebbe reclamare un gesto definitivo: il confronto con il termine “Nero”, come fine di un discorso sulla razza. Jean-Paul Sartre ha indicato con rigore il cammino dell’antirazzismo: i mezzi e il fine di tutte le politiche antirazziste dovrebbero implicare l’abolizione di tutti i significanti razziali, e di conseguenza del termine “Nero”. Non c’è alcuna ragione per forgiare teoricamente il termine “Nero” se non dentro una piena riflessione sulla razza e la sua mostruosa concretizzazione politica e cioè la schiavitù, il sistema della piantagione e la violenza coloniale.
Perciò evocare questo termine eccede la questione razziale, o ancor meglio, la fabbrica della razza permette di pensare il modo in cui si ordina il divenire del mondo. Nel suo Critique de la raison nègre, Achille Mbembe mette in luce queste conflittualità interne al termine “Nero”: esse indicano la necessaria abolizione dal discorso della razza come orizzonte politico, e del suo carattere universale inoppugnabile come struttura stessa del capitalismo.
Sul termine “Nero” si mettono in campo due logiche irriducibili e irriconciliabili. La prima, legata a certe tradizioni di pensiero africano-americano, caraibico o africano, fa della differenza nera il luogo di elaborazione di un mondo “che si è sbarazzato del fardello della razza”, un “mondo che arriva”, “davanti a noi”ii. Il significante “Noir” non è più il segno di un recinto razziale, assembla invece le scritture di quelli che riprendono e correggono i linguaggi dell’universale a partire da “la parte dell’umanità (che è) stata (loro) rubata”iii.
La seconda logica descrive un rapporto sociale: “il razzismo è un rapporto sociale e non un semplice delirio su argomenti razzisti”iv per riprendere le parole di Étienne Balibar. La razza naturalizza le disuguaglianze sociali. L’invenzione moderna del soggetto “negro” è indissociabile dalla storia del capitalismo che l’ha prodotto. La fabbrica di questo soggetto della razza – massa muscolare da cui i proprietari estraggono forza di lavoro a basso costo – costituisce un modello d’intelligibilità dello sfruttamento capitalista e della sua etnicizzazione o della sua razzializzazione: antagonismo razziale e antagonismo sociale si costruiscono mutuamente, anche se si sviluppano, a volte, in modo autonomo. Nell’epoca moderna, “l’alienabilità proprietaria” dello schiavo trova la sua giustificazione nel “principio della razza”v. Nel XXI secolo le istanze del capitalismo contemporaneo partecipano all’estensione di questo principio: la fabbrica del “negro” oggi non prende i suoi codici sulla biologia; descrive piuttosto una “categoria subalterna dell’umanità” che noi espelliamo e che abita spazi di confinamento in cui “l’auto-reificazione costituisce la migliore occasione di capitalizzazione di sé”vi. Lo sviluppo dell’ultra liberalismo rende effettiva la planetarizzazione della questione negra – questo è il senso del “divenire-negro del mondo” che apre Critique de la raison nègre.
Tra queste due logiche, i significanti scivolano. Il termine “Nero” diventa il termine “negro” e viceversa. Ma questo scivolamento non è sempre innocente. Nel 1926, Lamine Senghor, militante comunista senegalese, crea in Francia il Comité de defence de la race nègre, dotato di un suo organo di stampa, La Voix de nègres. Il termine “negro”, “questo nome preso dal fangovii”, diventa il simbolo rivendicato dell’onore e della fierezza della razza contro la barbarie coloniale. Le divisioni politiche del Comité che all’epoca incrociano gli antagonismi tra africani e antillani, si riconfigurano simbolicamente intorno alla proprietà, cosciente o meno, del nome “negro”. Gli assimilazionisti operano la trasformazione del Comitato della difesa della razza negra, in Comitato della difesa degli interessi della razza nera. Il termine “negro”, che porta con sé un’intera storia di ignominia, è riscattato dal termine “Nero”. I personaggi del romanzo del 1929 Banjo di Claude Mc Kay vagabondano per il porto di Marsiglia e proclamano i loro sogni politici: il buon “nato-negro”, prodotto dal terrore razziale, crollerà davanti al “nuovo Nero”, l’uomo in piediviii.
I termini “negro” e “Nero” oltre la razza e la calunnia, sono indifferentemente investiti di desideri rivoluzionari o di un voler essere invisibili – di fondersi nei codici e nei linguaggi della maggioranza e di rivendicare definitivamente la coappartenenza all’umanità. La traduzione inglese di Critique de la la raison nègre del 2017 dello storico Laurent Dubois, diventato Critique of Black Reason, permette di interrogare l’economia politica dei significanti razziali che percorrono il testo di Mbembe. Black non traduce “nègre” e attenua la violenza del N-word, o del termine dispregiativo negro in cui si uniscono, al cuore dell’ingiuria, il colore dell’epidermide, le realtà di classe (proletaria e rurale) e l’istituzionalizzazione politica della separazione (le leggi Jim Crow, l’apartheid, etc.). Per Achille Mbembe la ragione negra descrive tutta un’economia politica razzializzata e le formulazioni discorsive indignate, vertiginose, che hanno cercato di giustificare fin dall’epoca moderna all’interno del “sistema mondo” capitalista che è stato messo in atto. A questa economia, i corpi dell’Atlantico nero hanno opposto altri discorsi e altre pratiche tentando di circoscrivere voci emancipatrici, spesso in conflitto le une con le altre, strappando i termini “negro” e “Nero” al regno della merce e a tutta una ontologia della degradazione dell’umano a cosa.
In Critique, il termine “Negro” è indissociabile da una distopia politica divenuta planetaria. Ingannevole, sfuggente, si allea ormai con gli immaginari prometeici dell’umanità in crescita, sancendo una divisione coloniale del mondo, opponendo nomi a questi superuomini, sottouomini che sono “i negri del fondo”, “la parte superflua e in eccesso (dell’umanità) di cui il capitale non ha bisogno e sembra essere votata allo zonaggio e all’espulsioneix”. Tracciare il cammino del futuro vuol dire affrancarsi da questa divisione coloniale del mondo che riposa sull’universalizzazione del principio di razza. Il versante utopico delle scritture nere ha offerto per quattro secoli gli immaginari politici plurali e contradditori di un mondo liberato dalla collusione tra razza e capitale.
L’investimento simbolico del termine “Nero” e del suo doppio, “negro”, nel campo politico non racconta solo l’identità e la differenza, non ha come oggetto solo le politiche liberali della rappresentazione (accesso ai diritti politici, quote, pratiche affermative, integrazione, ecc.). Achille Mbembe traccia, partendo dall’essere equivoco del significante razziale “nero/negro”, una politica mondiale della cancellazione della razza che rinnova l’idea moderna di cosmopolitica come orizzonte utopico: non c’è che un solo mondo per tutti, creature vive e umani.
Tuttavia una proposta politica, inconfessata e clandestina richiamata dal testo, sfida il proclama cosmopolitico che lo conclude. Non c’è che un solo mondo: ma forse dovremmo leggere: c’è una unica terra da condividere e dei mondi in conflitto che difendono la possibilità di viverci e di sopravvivere. La questione della razza apre il problema della correlazione tra la legge o lo spazio: chi ha il diritto di stare qui? Di gioire delle ricchezze della terra? Di vivere su un suolo fertile? Di stabilircisi?
Lo spettro del nomos della terra, quello della grande spartizione delle terre e dei mari, le politiche che si reggono sul termine “Nero” e il suo doppio, prendono una forma utopica o distopica. Esse rimettono in questione la possibilità di tutto il progetto cosmopolita del superamento della conflittualità dei mondi e il problema del diritto all’accesso alla terra per tutti gli esseri viventi del pianeta.
Nella piantagione gli schiavi lavoravano una terra che li stremava ma che non li nutriva: nelle colonie i soggetti indigeni sono spostati, espropriati, lasciano le terre di cui portano la memoria. Nella post-colonia le imprese di estrazione delle materie prime confinano le popolazioni alle frontiere dello stato in cui i dirigenti sono diventati dei fantocci.
Il mondo negro del secolo XXI – il mondo del 99%? – dice l’impossibilità per numerosi esseri umani di stabilirsi, di abitare la terra: predazioni minerarie, caccia agli indesiderati, campi, alloggi precari fatti di tavole e tela nelle periferie delle grandi città. Il termine “Nero” si addossa questa lunga memoria di più di quattro secoli che non porta con sé nessun auspicio pacifico di conciliazione. Questo nome ricorda l’inesorabilità degli antagonismi che saturano il campo politico. L’abolizione della razza si effettua contro un ordine che prolifera sul principio di razza. Tra questi due mondi, nessuna realtà condivisibile: semplicemente l’ineluttabilità del conflitto.
i Jean-Claude Charles Le Corps noir, Montréal, Mémoire d’encrier, 2017, p.136-137
ii Achille Mbembe, Critique de la raison nègre, Paris, La Découverte, 2013, p. 263
iii Ibid., p.262
iv Étienne Balibar e Immanuel Wallerstein, Race, nation, classe. Les identités ambigües, Paris, La Découverte, 1988, p.59.
v A. Mbembe , “Afrofuturisme et devenir négre du monde”, Politique Africaine, n.136, dicembre 2014, p. 128.
vi Ibidem, p.130.
vii Comité de Défense de la race “nègre”, La Voix des nègres, n°1, gennaio 1927, ripreso in Philippe Sewitte Les Mouvements Nègres en France (1915-1939), Paris, L’Harmattan, coll. “ Racine du present”, p.144.
viii Claude Mckey, Banjo, trad. di Michel Fabre, Paris, L’Olivier, 2015, p. 106.
ix Achille Mbembe, “Afrofuturisme e devenir-négre du monde”, art. cit., p.130.
*pubblicato sulla rivista Esprit, dic. 2018.
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