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Il suono accade in un’immagine: Fenoglio e il teatro

disegno di Riccardo Ricci
7 Luglio 2022
Damiano Grasselli

Siamo nel cuore della “Langa porca”. C’è una ripida discesa che si stacca dal Passo della Bossola, in mezzo ad un bosco selvatico e animale: curve tortuose che si tuffano a rotta di collo nel Belbo e poi risalgono, su per qualche metro, fino alla via che, da chiesa a chiesa, taglia in due San Benedetto. Nel paese le capre di Ivo, il pastore, scampanano la loro presenza, mentre dalle colline più alte, attorno, cala presto l’ombra.

Fa freddo a San Benedetto, anche in estate il calore non rassicura: l’imprevisto buio, un acquazzone, l’ombra delle nuvole che trasfigura il sole. È un’ombra San Benedetto, l’ombra della sera. “Lassù a San Benedetto” (paese di suoi parenti paterni) Beppe Fenoglio aveva immaginato (proprio sotto il passo della Bossola) la sua tomba, sotto l’ombra di quegli alberi: un’ombra che insegue col marciare del sole e che aguzzina incalza, fomenta. Inquieta.

Nelle opere di Beppe Fenoglio quest’ombra è presente, ovunque. Tutti i suoi personaggi sono in bilico: circondato dalla morte ossessiva di tutti i suoi cari Agostino, il protagonista de La Malora; braccato dai carabinieri e dai suoi fantasmi il pluri-assassino Gallesio; a cavalcioni sul pozzo in cui vorrebbe finire i suoi sogni lo scapestrato Paco del racconto Ma il mio amore è Paco; destinata ad una vita livida Catinina, ne La sposa bambina. E sotto quest’ombra sono tutti i suoi non eroi, non trionfatori, non invincibili partigiani, destinati ad una raffica, a una vendetta o a un incidente di mortaio. L’ombra aleggia sulle lettere che Fenoglio metteva in fila, sulla sua Olivetti, come sulla collina di San Benedetto. È la stessa ombra.

Vent’anni fa, sotto la luce di un lampione, a una fiera, incontrai su una bancarella di libri usati un volumetto rovinato e segnato dal tempo: per la prima volta lessi un libro di Beppe Fenoglio, La Malora. C’era un’ombra sopra la mia testa, forse c’è ancora: credo sia quell’ombra più di ogni altra cosa che mi ha attratto a Fenoglio, calamita assorbente di un eterno ritorno, in sottrazione, che per quattro volte mi ha messo in gioco nella creazione di spettacoli attorno ai suoi testi.

Amo il suono delle parole di Fenoglio. La parola di Fenoglio sulla scena è una delle cose più potenti che conosca. È la sfida orale alla morte.

Il rapporto tra la letteratura di Fenoglio e il teatro è ambiguo: molti dei suoi romanzi e racconti sembrano soggetti (se non già sceneggiature) per film e spettacoli. Lo testimonia su tutti Un giorno di fuoco, che già nel titolo rifà il verso al famoso film western. 

Lo stesso Fenoglio, proprio poco prima di morire, aveva iniziato a discutere con due giovani registi cinematografici italiani (Gianfranco Bettetini e Giulio Questi) della possibilità di realizzare un film: la morte lo colse prima che questi progetti potessero prendere una qualsiasi forma ufficiale. Che il cinema sia stato un suo grande amore è noto: la passione per The wizard of Oz e l’innamoramento per la voce di Judy Garland che canta Over the rainbow ci è stato svelato da Milton stesso, il partigiano protagonista de Una questione privata. Ma il rapporto tra Fenoglio e le assi del palco teatrale è più nervoso, incostante, misterioso. E permeato da un’ombra.

Ci sono cinque testi teatrali (forse in alcuni casi frammenti?) scritti da Fenoglio: La voce nella tempesta (riduzione di Cime Tempestose da Emily Brontë), Serenata a Bretton Oaks, Atto unico, Solitudine, Prologhi. Sono scritti in momenti diversi della vita di Fenoglio: i primi due sono testi di un Fenoglio giovane ed alle prese con riflessioni d’amore, gli ultimi tre, molto brevi, sono testi dedicati all’esperienza partigiana. I testi sono stati raccolti una quindicina d’anni fa da Elisabetta Brozzi, che li ha pubblicati con Einaudi, lo storico editore delle opere di Fenoglio.

Ma al di là della qualità ed importanza letteraria, di questi testi (non sono un critico e non è mio ruolo giudicare questo aspetto), il rapporto con il teatro per Fenoglio si sposta, per me, sicuramente su un altro piano, che ha a che fare con il suono delle parole, con la fatica e l’ombra. Si tratta della scrittura di un autore che diviene attore delle proprie parole: Fenoglio scrive sentendo il suono, trasformando in atto teatrale, pertanto vivo, l’ombra dell’atto letterario.

Fenoglio è ossessivamente alla ricerca di un suono nelle parole: scrive e riscrive i suoi racconti, abbozza i romanzi in inglese e poi li traduce in italiano, usa in continuazione anacoluti, digressioni dialettali, rimandi ad un linguaggio spurio. La riscrittura di Fenoglio è continuamente un fatto orale (come per altro accade, quasi sempre, nella grande letteratura).

Fenoglio cerca la forma nell’ombra. Da un punto di vista pratico, lo fa alla lettera: scrive di notte, illuminato dalla poca luce delle sue sigarette. Dal punto di vista metaforico è l’ombra che lo fa scrivere. I suoi personaggi sono rincorsi da quest’ombra, che non lascia scampo: scende sul paese di San Benedetto e invade le strade, le case, gli occhi, l’anima. L’ombra si porta via tutto. In questo il suono delle parole diviene fondamentale per trovare vita nei suoi non eroi. Questi personaggi in bilico, vessati dall’ombra aguzzina, possono vivere nel suono di una sola parola. Trovarla, darle voce in un racconto, è opera di grande pazienza, dedizione, sfinimento.

Il lavoro letterario di Fenoglio è proprio questo: sfinirsi dietro a ciascuna parola, inseguito dall’ombra. Ogni parola. “Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine ‘esce’ spensierata da una decina di penosi rifacimenti”, dirà in un’intervista.

Questa fatica nera è ciò che per me rende teatralmente interessante la scrittura di Fenoglio. Quella dei racconti soprattutto, prima ancora di quella delle sceneggiature teatrali. La fatica nera del trovare la parola, il suono, quel passaggio segreto tra significato e significante, in bilico, sospeso ad una linea in continuo movimento, che divide la luce e l’ombra. E che cambia il modo di porsi al mondo. Che cambia il modo in cui la parola diventa dono al mondo.

Questa linea, per un attore, è il senso stesso della vita.

Il primo lavoro teatrale che ho creato a partire da un’opera di Beppe Fenoglio era intitolato L’Amal’Ora. Giocando a torcere il collo al suono delle parole, ho esattamente cercato di inseguire, su questa ripidissima discesa, Agostino per le strade di San Benedetto (Il racconto è ambientato tra San Benedetto e San Bovo di Castino). Colui che “ama l’ora del male”, è colui che risuona ne La malora. 

Nella malora ciascuno è schiacciato da un’ombra che lo porta a spostarsi sempre più vicino al limite, fino a varcarlo, cadervi, perdersi. Agostino, il protagonista, sembra essere l’unico che, investito da ogni sorta di destino contrario, riesce a mantenere l’equilibrio impossibile sulla linea. Ogni volta che la vita di Agostino sembra indirizzarsi verso un crinale (un filo di luce), l’ombra lo riporta in bilico, inseguito dai suoni di questa lingua che tira frustate ad ogni episodio: sversare, genato, tiretto, mesata, servente, stanchità… È l’arrotondarsi della lingua piemontese a farla da padrona in questo susseguirsi di sofferenze sonore. La fatica (nerissima) si sente, nello scricchiolio tra le mascelle che inseguono il selvatico di questa lingua: per l’attore una penetrazione necessaria tra il suono e l’essere, l’attore diventa uno strumento musicale nella bocca di Fenoglio.

Agostino viene “venduto” dal padre su una piazza di mercato, in mezzo alle urla dei venditori; quando il padre muore, Agostino torna a casa di corsa, finendo a più riprese il fiato e lasciandosi andare a soliloqui sofferenti; quando Tobia, il mezzadro per cui lavora, porta Agostino dal padrone della cascina, lui non ha il coraggio di alzare gli occhi, ascolta soltanto; quando Fede, la ragazza con cui sogna finalmente un riscatto, viene improvvisamente data in sposa a un uomo che ha due fratelli, “per poi usarla tutti e tre”, i due si separano senza dire una sola parola.

Suoni. Ogni stanza di questa vita che viene alla malora, è un’aggiunta di suono, potremmo dire un’epi-fonia. Il suono accade in un’immagine.

Ogni parola è misurata: La malora è un capolavoro musicale, un’onomatopea della sofferenza umana, un’incubatrice del dolore acustico del mondo. La Malora inizia con un suono: “Pioveva su tutte le Langhe”. È il crosciare dell’acqua che apre il sipario sul grande teatro costruito da Beppe Fenoglio, che non è fatto di assi ma di colline, che non si illumina di riflettori ma di linee a cavallo tra il giorno e la notte.

Anche il finale della Malora è un suono. Agostino, rientrato in famiglia, ha saputo che il fratello, Emilio, finito in seminario perché studiasse da prete, torna a casa, malato. La madre si nasconde in un filare, tra le viti, per pregare. E prega per i suoi figli: uno prossimo alla morte, l’altro destinato all’eterna ombra della malora. Il suono della preghiera di questa madre, raccolto come confessione penitente dal figlio, diventa una lacerante domanda all’inesplicabile perché della sofferenza nel mondo. Diventa, ancora una volta, cammino in bilico sul viaggio terrestre.

“Non chiamarmi prima che abbia chiuso gli occhi al mio povero figlio Emilio. Poi dopo son contenta che mi chiami, se sei contento tu. E allora tieni conto di cosa ho fatto per amore e usami misericordia. E tutti noi che saremo lassù teniamo la mano sulla testa di Agostino che è buono e s’è sacrificato per la famiglia e sarà solo al mondo”. Sono le ultime parole della madre: nello spettacolo che misi in scena questi suoni, almeno nella mia testa, avrebbero dovuto lacerare il cielo come il grido di Cristo sulla croce. 

Mentre cercavo un finale per quel primo spettacolo, mi ritrovai dunque assistito dall’ombra e stremato dalla fatica nera di una ricerca di quel suono. Una phoné che fosse un atto sonoro. Una mattina presi la decisione di affidare quelle parole alla voce di un’anziana contadina che per tutta la vita aveva parlato solo il dialetto della mia infanzia: un dialetto ruvido, essenziale, un suono scavato nella gola del mondo. Quella era la voce di mia madre, registrata su un nastro. Se non il cielo, ad ogni replica, perlomeno lacerava il petto. La fatica nera. L’ombra.

Quasi quindici anni dopo ho ripreso un altro testo di Beppe Fenoglio, La sposa bambina, breve racconto di una ragazzina che, dal gioco con le biglie, si ritrova buttata come corpo morto in un matrimonio combinato per estinguere i debiti della sua famiglia. Anche in questo caso inseguire Fenoglio nella sua ombra ha significato stare ad origliare la sua voce, da dietro il filare della vite. La vita, come l’arte, è sempre in bilico, nascosta tra le pieghe dell’ombra.

La sposa bambina è un graffio in fondo all’anima, di sussurri, e pause. La ricerca del suono è nei vuoti, nei levare, nell’assenza. L’atto è lento, moto periodico del ciclo vitale del mondo contadino. Anche in questo caso è l’ombra a dominare: la bambina, la prima notte di nozze, viene picchiata violentemente dal marito. Imparerà dal suono dei manrovesci la fatica nera del vivere. 

La scena diventa così il luogo di una favola senza lieto fine, dove, gocciolando dalla voce, le parole si inseriscono nel terrore del mondo. È ancora l’ombra a vincere.

Il rapporto tra Fenoglio e il teatro è dunque, per me, prima di tutto, un rapporto fatto di orazione. Fenoglio è necessariamente l’autore di una letteratura orale, dove il piano scenico appare immediato, senza indugi, senza contrattazioni. Ci si ritrova nella scena pensata da Fenoglio ascoltando l’incedere dei suoni della valle di San Benedetto. Si è, inevitabilmente, ingaggiati in una battaglia in cui si è attori di una scena viva.

È, dunque, il teatro di Fenoglio, un teatro creato dall’ascolto. Solo mettendosi a disposizione delle sue parole si può cercare di rimanere, come Agostino, in equilibrio sulla linea, la linea di quell’ombra che sempre ci insegue (non a caso Conrad è uno scrittore molto amato da Fenoglio). La linea d’ombra ha inseguito Fenoglio fino allo sfinimento della fatica: mettere in gioco il suono di quelle parole significa porsi in ascolto di quello straordinario teatro fatto di pendii, di chiaroscuri, di fallimenti che è la vita umana.

La salma di Fenoglio non è sepolta sotto quegli alberi, al passo della Bossola. Ma questo poco cambia: il suono delle sue faticose parole, come un’ombra, copre tutta la scena.

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