Il porto di Genova e la nave delle armi

Oggi è ormai cosa piuttosto nota che otto merci su dieci nel mondo transitano via mare e di tutto quello che viene trasportato, molto viene trasportato nei container. Eppure, verso la fine degli anni Sessanta in pochi ci avrebbero scommesso. Si diceva che un giorno il capo dei camalli genovesi, mentre osservava il funzionamento di un carroponte montato sulla nave che agganciava e movimentava da solo i container, realizzò che svolgeva il lavoro di quattro portuali e impallidì. Stava finendo l’epoca del porto “emporio” che s’intravede insieme a una città distrutta dalla guerra nel film con Jean Gabin degli anni Cinquanta, Le mura di Malapaga. Nel 1969 a Genova nasceva il primo terminal container del Mediterraneo e seguirono anni di dure lotte sindacali.
In un’epoca storica segnata da crisi umanitarie, relative intensificazioni dei flussi migratori e pandemie, il trasporto delle merci rappresenta uno dei settori che muovono letteralmente l’economia globalizzata e i porti, di conseguenza, diventano un osservatorio privilegiato. Il porto di Genova oggi si estende per ventidue chilometri partendo da Foce a est, passando per il porto antico e arrivando a Voltri a ovest, laddove è situato il maggior terminal container dell’Alto Tirreno – il Voltri Terminal Europe, gestito da un’impresa terminalistica di Singapore leader del mercato globale. Stretto nella morsa tra la dorsale appenninica e il mare, il porto si sviluppa in parallelo con l’area urbana lungo tutta la costa da Levante a Ponente: una superficie di circa sei milioni di metri quadrati di terra, uno specchio d’acqua di quindici milioni di metri quadrati protetti da una diga foranea. Più di centocinquanta servizi di linea con oltre quattrocento porti in tutti i continenti. Più o meno venticinque terminal specializzati e gestiti da imprese terminaliste private che trafficano container, merce varia, merce deperibile, merce pericolosa, acciaio, prodotti forestali, rinfuse solide e liquide, prodotti petroliferi, sostanze stupefacenti, rifiuti, armi, passeggeri.
Ho iniziato a frequentare il porto di Genova nel 2015 perché nel corso del dottorato decisi di studiare le condizioni di lavoro nella logistica intermodale e, insieme al mio supervisore che frequentava quel porto dagli anni Settanta, lo scegliemmo come caso di studio da comparare al porto belga di Anversa. L’accesso al campo portuale è passato sin dall’inizio per la mia condizione di ricercatore affiliato a un’istituzione accademica, senza la quale non sarei mai riuscito a varcare quella soglia sbarrata dagli addetti alla sicurezza e ai controlli, dal momento che i porti restano un campo poco avvezzo alla trasparenza e inaccessibile per la maggior parte dei casi ai non addetti.
Su un altro binario, nel frattempo, ho intrapreso un viaggio parallelo e spesso sovrapposto lungo la filiera del container, allo scopo di conoscere le condizioni che determinano la circolazione delle merci e la comunità umana che ci ruota intorno senza i filtri dell’università, e senza dover sottostare ai vincoli di (para)subordinazione imposti dal lavoro di ricerca accademica. E Genova rappresenta una delle tappe imprescindibili di questo viaggio, uno dei luoghi di transito delle merci che rientra nel novero dei porti di rilevanza nazionale.
È un mondo nel mondo o, come altri scali finora esplorati, un caleidoscopio del territorio circostante. Ci sono tornato spesso negli ultimi anni, in particolare quando c’erano scioperi, presìdi, manifestazioni, conferenze, o ancora in seguito al crollo del ponte Morandi, oppure per andare a salutare le persone che nel frattempo ho conosciuto: portuali della Compagnia Unica lavoratori merci varie “Paride Batini”, sindacalisti, lavoratori, osservatori, attivisti del Calp – Collettivo autonomo lavoratri portuali – e addetti ai lavori che conoscono quel porto come le loro tasche.
Sembra che sia passata un’eternità dall’ultima volta che ci sono stato, eppure era solo il 17 febbraio scorso. Di lì a qualche giorno il tempo si è fermato (o ha subìto un’accelerazione?) a causa dell’emergenza scoppiata con la diffusione della Covid-19, che ha avuto un impatto rilevante sulle catene di fornitura. Tra i mesi di gennaio e febbraio la metà delle portacontainer dalla Cina non sono partite e nel medio e lungo termine i porti dovranno affrontare in maggiore o minore misura un declino delle attività di movimentazione delle merci per la significativa flessione dei volumi. A questo vanno aggiunti i ritardi accumulati negli hinterland e alle frontiere a causa dei controlli al personale viaggiante, che hanno provocato congestioni in banchina e file interminabili di camion e assembramenti di autotrasportatori ai varchi portuali.
Nel porto di Genova si è registrata una riduzione consistente dei volumi causata dalla riduzione drastica dell’export cinese nel mese di febbraio che, per i tempi di transito, ha avuto un impatto sui volumi a Genova trenta giorni dopo. Al porto di Genova, primo scalo italiano, un porto pubblico ma con i servizi e le banchine in concessione ai privati, la Compagnia Unica dei portuali conserva l’autonomia cooperativa con l’esclusiva funzione di fornire a chiamata il lavoro temporaneo a complemento del personale dipendente delle imprese terminalistiche private. In questi mesi di pandemia i portuali della riserva di manodopera fornita dalla Compagnia Unica, insieme ai lavoratori diretti dei terminal, hanno garantito il carico e lo scarico delle merci senza mai fermarsi. All’inizio dell’emergenza sanitaria a Voltri i portuali hanno indetto uno sciopero per costringere la creazione di un tavolo di trattativa tra sindacati, imprese e Autorità di Sistema Portuale allo scopo di stabilire le linee guida necessarie alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in porto. A un calo dei traffici poi, i portuali della riserva di manodopera hanno visto ridursi gli avviamenti al lavoro, dal momento che a una riduzione dei volumi loro sono i primi a vedere diminuite le chiamate.
A fronte di un calo dei traffici, le imprese terminaliste hanno cercato di correre ai ripari riducendo le chiamate al lavoro della manodopera temporanea fornita dalla Compagnia Portuale e usando la cassa integrazione per i dipendenti operativi nel carico e scarico delle merci. Ma come ha notato il Collettivo autonomo lavoratori portuali, poche tra queste imprese avevano reale necessità dell’uso della cassa integrazione. Certe imprese terminaliste hanno pensato di predisporre la cassa integrazione per i dipendenti a condizione che in caso di bisogno questi sarebbero stati “chiamati con il massimo preavviso possibile”. In altri termini hanno pensato di adottare il modello del lavoro a chiamata anche per i dipendenti. Un rappresentante sindacale nel corso di un’intervista ha spiegato come molte imprese del porto avessero fatto ricorso alla cassa integrazione, ma solo due avessero poi integrato il reddito dei lavoratori, aggiungendo inoltre come di tale strumento alcune imprese avessero fatto un uso discutibile, come quei casi di imprese che, dopo aver messo in cassa integrazione alcuni lavoratori, hanno poi chiesto straordinari e cambi turno a quelli rimasti: un ricorso alla massima flessibilità che cozza con quello degli ammortizzatori sociali e con l’organizzazione generale del lavoro in porto che, lo ricordiamo, per i picchi di lavoro prevede l’uso della manodopera temporanea fornita dalla riserva di portuali a chiamata della Compagnia Portuale.
Con il passare delle settimane le tensioni sono aumentate ed è stato necessario l’intervento dell’Autorità di sistema portuale, che in una nota ha richiamato le imprese al rispetto delle norme che regolano i contratti di lavoro, gli orari, le prestazioni straordinarie e i regimi di flessibilità, ricordando che il mancato rispetto delle norme sarebbe sanzionabile dall’Autorità di Sistema stessa.
Verso la fine di maggio, una situazione in costante mutamento vedeva una realtà composta da operatori logistici che raschiavano il fondo del barile approfittando della situazione d’emergenza nel tentativo di adottare in toto un modello di lavoro a chiamata, e da una forza lavoro che invece non si è mai fermata, che anzi ha avanzato delle rivendicazioni, e che soprattutto durante l’emergenza ha tenuto ancora più alta l’attenzione sulla trasformazione delle loro condizioni. Nel frattempo, è arrivata la notizia della nuova piattaforma logistica di Amazon a Genova, che sarà operativa a partire dall’autunno 2020. Una superficie di settemila metri quadrati. Cercano personale.
Dai conflitti del lavoro
alla lotta contro i traffici di armi
Quel giorno di metà febbraio ero andato al porto perché c’era il presidio contro l’arrivo della Nave saudita Bahri Yanbu. Dopo una decina di giorni passati a monitorare il tragitto della nave dal sito che traccia le rotte di tutte le navi che solcano i mari, avevamo trovato conferma della data di arrivo a Genova e il passaparola aumentò d’intensità: era stato organizzato un presidio dalla mattina presto al Varco Etiopia.
La nave Bahri Yanbu appartiene alla maggiore compagnia armatoriale saudita, la National Shipping Company of Saudi Arabia, e viene in genere utilizzata nella rotta tra Golfo del Messico e Golfo Persico per la fornitura di merci varie strategiche come le attrezzature petrolifere, i veicoli industriali, le munizioni, i mezzi militari, le armi. La mattina del 20 maggio 2019 a Genova la nave è stata oggetto per la prima volta delle proteste di portuali e attivisti dei diritti umani, dopo una mobilitazione che ha coinvolto alcuni porti europei e gruppi indipendenti in Belgio, Francia, Spagna, Italia. Gruppi antimilitaristi e associazioni pacifiste hanno seguito passo dopo passo i movimenti di quella che nel tempo è stata battezzata “la nave delle armi”, fino al presidio sulle banchine a Genova. Quando attraccò in porto, il cargo saudita trasportava un carico di armi pesanti destinate all’Arabia Saudita per la guerra in Yemen, e si sospettava che avrebbe caricato altro materiale bellico in Italia. Dopo uno sciopero iniziato all’alba del 20 maggio, è stato impedito alla nave di effettuare le operazioni di carico. “Porti chiusi alle armi, porti aperti ai migranti” era scritto su uno striscione. Di fatto quella mobilitazione impedì le operazioni di carico di attrezzature militari destinate alla Guardia nazionale saudita.
Dal blocco del cargo abbiamo deciso di costituire insieme ad altri attivisti e lavoratori l’associazione Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo (https://www.weaponwatch.net/), dopo che il movimento stesso nato dalla mobilitazione ha pensato di dotarsi di uno strumento di conoscenza. I primi a far esplodere la contraddizione, rifiutandosi di maneggiare queste merci mortifere, sono stati proprio i portuali che avrebbero dovuto favorire con il loro lavoro un’operazione per la guerra dello Yemen, condotta dall’Arabia Saudita e sostenuta dai suoi alleati nel Golfo e in Occidente in violazione delle Convenzioni di Ginevra, della Carta Onu e del Trattato sulle armi convenzionali. Come ha sottolineato Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal (Osservatorio permanente armi leggere di Brescia), autore insieme a Sergio Finardi del libro La strada delle armi (Jaca Book 2002) e tra i fondatori di Weapon Watch, l’associazione è nata dalla volontà di creare uno strumento trasversale di analisi e un luogo critico in cui discutere e confrontare idee, creando dibattito e conflitto, e definendo una geografia dei produttori di armi che trasportano questa merce di transito nei porti attraverso la parallela costruzione di una rete nazionale e transnazionale.
Quasi un anno dopo quella mobilitazione la circostanza si è ripetuta per la seconda volta il 17 febbraio scorso, di lunedì, ma a differenza della volta scorsa non c’erano le elezioni europee all’orizzonte e di conseguenza il coinvolgimento politico e sindacale è stato pressoché nullo, nonostante l’attenzione mediatica. Poco prima dell’arrivo della Yanbu in porto, inoltre, è avvenuto il sequestro di un cargo libanese sospettato di aver trasportato armi verso la Libia, con arresto del capitano e ispezione a bordo della Digos.
Come ha ricostruito Carlo Tombola, a inizio febbraio scorso la Yanbu avrebbe dovuto scalare cinque porti europei prima di attraversare il canale di Suez: Bremerhaven, Anversa, Tilbury, Cherbourg e Genova. In previsione dell’arrivo nel porto di Anversa, alcune organizzazioni contro il commercio di armi hanno deciso di mobilitarsi. Autoproclamandosi “cittadini ispettori delle armi” hanno istituito un checkpoint di cartone per fermare il traffico. Tre ong belghe hanno presentato un’istanza alla magistratura per bloccare l’imbarco delle armi sulla nave, stabilendo che le autorizzazioni alle esportazioni militari sono prerogativa dei parlamenti regionali e quindi del governo fiammingo nel caso di Anversa. Inaspettatamente, la nave è rimasta qualche ora al largo e poi ha proseguito verso sud senza entrare nel porto.
Dopo aver saltato Anversa, la Yanbu invece del porto inglese di Tilbury ha effettuato uno scalo non previsto alla foce del Tamigi presso Sheerness, ma anche in quel caso ha temporeggiato al largo a causa dell’intervento dell’ong Caat (Campaign Against Arms Trade), che tramite uno studio legale ha interpellato i servizi legali governativi per sapere se il carico della nave rispettava o meno il bando britannico contro le esportazioni di armamenti potenzialmente usati nella guerra in Yemen.
Dopodiché la nave ha proseguito verso il porto francese di Cherbourg, noto per essere una delle maggiori basi militari della Marina, dove su iniziativa della Cgt e di altri sindacati i lavoratori portuali hanno preannunciato lo sciopero. Diciassette ong francesi hanno scritto una lettera al primo ministro Edouard Philippe chiedendo garanzie, un’altra organizzazione ha presentato un esposto urgente al tribunale di Parigi chiedendo l’annullamento delle autorizzazioni doganali di esportazione e transito di materiale militare a bordo del cargo saudita. Il 6 febbraio alcune centinaia di persone hanno protestato nei pressi del porto francese, lontano dal molo a cui era attraccata la Yanbu, sotto la sorveglianza della polizia e della Marina. Dopo aver imbarcato blindati leggeri, in tarda serata la nave ha ripreso il mare.
Il 9 febbraio la Yanbu è arrivata a Bilbao, sede di numerose industrie di armi e munizioni, dove la protesta era in corso. “La guerra comincia qui” recitava uno striscione nel porto basco. Qui la nave ha caricato autoblindo e munizioni posti all’interno di cinque container giunti in porto scortati dalla Guardia Civil. Nel frattempo, le manifestazioni si sono allargate ad altri paesi europei, anche a quelli non toccati dalle navi saudite. Il 12 febbraio, attivisti di Basilea si sono ritrovati davanti al consolato italiano in solidarietà con i portuali di Genova, su cui era puntata l’attenzione. Si moltiplicavano iniziative in solidarietà da tutta Italia di ciò che doveva ancora succedere a Genova, dove la nave ha attraccato sette giorni dopo aver lasciato Bilbao.
Quel giorno ho preso il treno regionale di mattina presto in partenza da Milano Centrale e sono arrivato alla stazione di Piazza Principe dopo un paio di ore. Pioveva. Per raggiungere il Ponte Etiopia ho trovato un autobus che mi ha lasciato nei pressi di San Benigno e poi ho camminato a piedi finché non ho visto un razzo di segnalazione partire da non troppo lontano verso il cielo grigio, e poi striscioni, un centinaio di persone, delle telecamere puntate verso le banchine. Il varco era bloccato a metà. Da una parte i manifestanti lo presidiavano, dall’altra uscivano i mezzi pesanti, mentre quelli che dovevano entrare in porto venivano fatti deviare dai vigili verso un altro accesso. Il presidio era cominciato da tempo e la nave saudita stava effettuando le manovre di attracco quando l’ho raggiunto. C’erano tre camionette tra polizia e carabinieri, e una quantità sproporzionata di agenti nervosi in tenuta antisommossa che formavano un cordone tra noi e la banchina in cui stava attraccando la nave. Stavolta non ci facevano avvicinare. Tante le facce già viste in altre occasioni tra lavoratori e attivisti. I giornalisti aspettavano con ansia di raccogliere qualche informazione da impacchettare per i loro servizi. Non era neanche possibile andare liberamente al bar del porto appena dopo il varco, a pochi metri di distanza dal presidio. Per superarlo, quel varco, bisognava prima litigare con gli agenti, poi lasciare il nominativo a una funzionaria – oltre a specificare se eri un manifestante o un giornalista –, quindi avere il permesso giornaliero valido per l’accesso alle aree portuali, e infine ottenere l’autorizzazione ad accedere al bar a due passi (ma bisognava comunque aspettare che qualcuno tornasse indietro dal bar poiché gli ingressi erano contingentati). Anche se gli agenti erano visibilmente tesi noi ce ne stavamo là sotto la pioggia sottile a seguire l’evoluzione della faccenda, a lanciare cori contro la guerra e a condividere quello spazio discutendo, intervenendo al megafono tra un fumogeno e un petardo. A un certo punto circolavano immagini dal Ponte Assereto, verso il terminal traghetti, che mostravano mezzi militari destinati ufficialmente alla Tunisia (e poi alla Libia?), circostanza che ci colpì per il tempismo inopportuno.
Le questioni più rilevanti che venivano messe in risalto nel corso del presidio erano il pericolo costituito da una nave carica di esplosivi, a cui veniva permesso di attraccare a poche centinaia di metri dalle abitazioni di Sampierdarena e in prossimità di strutture portuali sensibili, e poi la corretta applicazione delle leggi nazionali e internazionali relative al transito di armamenti che potrebbero essere impiegati per violare i diritti umani e commettere crimini di guerra. Su questi punti l’associazione Weapon Watch ha presentato un’istanza di accesso agli atti dell’Autorità portuale e al Prefetto allo scopo di conoscere in dettaglio il carico della Yanbu, oltre a un esposto alla Procura di Genova per accertare le eventuali responsabilità penali. Il Calp, Collettivo autonomo lavoratori portuali, ha chiamato la città allo sciopero generale e un gruppo di delegati sindacali dei terminal genovesi ha pubblicato un comunicato in cui si affermava il rifiuto dei traffici di armi e il rispetto dei princìpi costituzionali, oltre che della legge 185/90 sull’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento – di fatto aggirabile per le stesse autorità.
Il presidio è durato sette ore e ha favorito il confronto tra lavoratori, autorità e dimostranti. I lavoratori del terminal in cui è attraccata la Yanbu hanno preso coscienza che la nave su cui dovevano lavorare era carica di merci esplosive, e cominciavano a considerare il problema della sicurezza come primario, strettamente connesso a quello del transito del materiale militare. A bordo della nave, per la prima volta, sono saliti gli uomini della Capitaneria per svolgere un’ispezione accurata che ha portato a una sanzione a carico della compagnia Bahri proprio per non aver segnalato correttamente la presenza di esplosivo in alcuni container. Un segnale altrettanto rilevante evidenziato dal Calp è stato il rifiuto di alcuni portuali chiamati a lavorare sulla Yanbu, che hanno optato per una sorta di obiezione di coscienza.
Dall’ispezione della capitaneria emergeva che, nonostante gli esplosivi già a bordo, non c’erano armamenti da caricare a Genova, e nel tardo pomeriggio, dopo aver caricato materiale civile, la nave prendeva di nuovo il largo. Il suo caso ha mostrato non solo l’importanza della mobilitazione in corso a livello nazionale e internazionale, ma anche, e per l’ennesima volta, la centralità del porto di Genova nella movimentazione internazionale di armi, e al contempo la volontà di lavoratori, attivisti e attiviste di persistere in futuro nel colmare il vuoto di informazioni sui commerci di morte che transitano al suo interno. Mi allontanai dal varco dopo pranzo percorrendo la stessa strada dell’andata a ritroso verso la stazione di Piazza Principe, consapevole, come gli altri che avevo incontrato al presidio, che un giorno o l’altro ci saremmo rivisti, e che quella storia non sarebbe finita lì.