Il nostro Salvemini
Per ricordare Salvemini a sessant’anni dalla morte, abbiamo scelto di ripubblicare, su segnalazione di Alessandro Leogrande, il ritratto che ne fece un altro maestro su “Il ponte” del luglio 1955.
Ebbi occasione di vedere la prima volta Gaetano Salvemini da lontano, a Firenze, intorno al 1905, nella sala lunga e stretta della Camera del lavoro, che era allora in corso dei Tintori: lui laggiù in fondo, oratore al banco della presidenza, io ragazzo liceale pigiato tra la folla di ascoltatori accorsi a sentire una sua conferenza sul suffragio universale. Allora, come quasi tutti i ragazzi di quei tempi, non mi interessavo di politica. Ma il nome di questo professore di storia che andava in giro a fare i comizi, mi aveva incuriosito: e per sentirlo m’ero andato a cacciare nel budello di quella sala piena zeppa di operai, che, al lume delle mie recenti reminiscenze scolastiche, mi immaginavo dovesse essere una specie di club giacobino dei tempi della rivoluzione francese. Quando prese a parlare, la sua voce tagliente e incisiva, così diversa dall’oratiroio di piazza, mi afferrò subito: e cominciai ad accorgermi con meraviglia, via via che andava avanti, che tutto quello che diceva riuscivo a capirlo.
Se cerco di rievocare, a distanza di cinquant’anni, l’immagine di quel Salvemini trentenne, mi pare che non fosse molto diversa da quella di oggi: già calvo, colla stessa barba a punta, con quella faccia quadrata e accigliata e quel luccichio attento dietro gli occhiali. Frasi brevi, parole semplici e chiare: senza gesti, senza enfasi, senza che su quel volto fermo trasparissero i sentimenti. Ed era proprio la pacata serietà di quel ragionare che faceva apparire vive e come presenti in quella sala le miserie e le ingiustizie che denunciava.
Ma alla fine di ogni periodo c’era un istante di pausa, e in quella pausa un sorriso. Anche da lontano riuscivo ad accorgermi di quel sorriso, perché vedevo balenare per un attimo in mezzo al nero di quella barba il chiaro dei denti: quasi che nella tensione logica di quell’argomentare volesse mettere ogni tanto un respiro di distensione, per rincuorare l’ascoltatore, per farglisi vicino: come par dirgli: “Com’è semplice? Come si fa presto a capire? Come sarebbe facile rimediare, se si volesse?”. E mi pareva che, in quelle pause, Salvemini di lassù sorridesse anche a me, sconosciuto ragazzo.
Quand’ebbe finito la sua conferenza domandò: “Nessuno ha osservazioni da fare?”. Si udì allora, in mezzo alla folla, una voce un po’ rauca, come di un avvinazzato: “Domando la parola.” “Parla pure”, rispose Salvemini. Allora quella voce (della quale sento ancora l’accento del più genuino Sanfrediano) esordì testualmente così: “l’pprofessore Sarvemìni unn’ha detto artro che un mucchio di coglionerie.” Salvemini, serissimo, senza che un muscolo della sua faccia si scomponesse, lo fermò col gesto: “Scusi, lei chi è?”. “Sono Pepi, anarchico”. “Ho capito: anarchico del senso comune. Prosegua pure”. Altro non aggiunse Salvemini; ma scoprì tutta la dentatura in un largissimo riso.
Quello tentò di proseguire: voleva spiegare che colle elezioni non si combina nulla, che l’unica cosa seria sono le barricate. Ma non poté finire: i clamori e le risate lo subissarono.
Da allora, per una diecina di anni, mi capitò spesso di incontrare il professore Salvemini per le vie di Firenze, e di fermarmi a guardarlo da lontano, con quel suo caratteristico cappello tondo a tese piane e, d’inverno, con uno di quei cappotti col mantello che allora si chiamavano “pipistrelli”: passava con quel suo passo risoluto di uomo indaffarato che non ha tempo da perdere, con un pacco di libri sotto il braccio, guardando diritto dinanzi a sé e come concentrato nel suo pensiero. Avrei voluto fermarlo; ma quella sua faccia che pareva burbera mi dava soggezione.
Altri eventi dovevano sopravvenire a darmi l’occasione di poterlo avvicinare in ben diverse circostanze: nell’ottobre o novembre del 1916 in una giornata di neve, a Pian delle Fugazze, ai piedi del Pasubio, ove il mio reggimento era sceso a riposo dalla prima linea. Fummo convocati una sera, noi ufficiali, nella baracca del comando per ascoltare una conferenza: vi andammo di mala voglia, perché avevamo in odio i conferenzieri che venivano dall’interno a parlare della guerra, a noi che ci stavamo in mezzo. Ma quando di sotto al mantello spruzzato di nevischio vennero fuori la barba e gli occhiali di Salvemini, accompagnato e presentato da un ufficiale di milizia territoriale barbuto anch’egli come un profeta (era Giuseppe Lombardo Radice), le cose cambiarono. Nella baracca si fece un gran silenzio: e passò su quell’uditorio di giovani che la guerra aveva disabituato dal pensare, l’onesta chiarezza rasserenatrice di quel pensiero civile, che mi aveva incantato giovinetto dieci anni prima: e nelle pause riconobbi quell’aperto sorriso che veniva alla fine di ogni periodo; come a suggellare la fiducia nella ragione e nella comprensione umana.
Poi venne il fascismo: e fu quello che definitivamente ci avvicinò. Appena finita la guerra, intorno alla piccola “Unità” di Salvemini si raccolsero da tutte le parti d’Italia giovani insofferenti della retorica nazionalista e assetati di verità e di onestà, nei quali l’esperienza della trincea aveva ridestato la coscienza del dovere politico, che era prima di tutto esigenza di capire il perché di tutto quel sangue: e fu proprio il “problemismo” salveminiano, agitato da quel suo piccolo foglio settimanale, che dette la prima educazione politica e la indelebile impronta di serietà morale a quella generazione di italiani che fece poi le sue prove nell’antifascismo e, per quelli che vi arrivarono vivi, nella Resistenza. La vocazione politica di Carlo Rosselli cominciò di lì. Di lì ebbe ispirazione il “Circolo di cultura” di Firenze, da cui poi nacque il “Non Mollare”. Al “Convegno del Rinnovamento”, tenuto nel giugno 1920 a Roma fra gli amici dell’“Unità”, furono presenti, intorno a Salvemini, molti degli uomini che nel ventennio successivo, usciti da quella scuola di chiarezza morale, si ritrovarono uniti nella lotta contro il fascismo. La prima volta che conobbi Gobetti, fu lì, in occasione di quel convegno. Gli “unitari” erano gente povera: il comitato organizzatore non aveva sovvenzioni segrete. I congressisti furono alloggiati due per camera, in albergucci di terz’ordine: per compagno di camera mi fu assegnato un giovinetto esile e biondo, che la sera, quando ci ritrovammo, mi si presentò: “Piero Gobetti”. Pareva soltanto un ragazzo sperduto nelle sue fantasticherie d’adolescenza. Si addormentò subito: mentre io, disturbato dalla mezza luce che entrava dal vetro sopra la porta, non riuscivo a prender sonno.
A un tratto, a metà della notte, lo udii che mi chiamava: “Professore, professore!”. Lo vidi seduto sul suo letto, a occhi chiusi; parlava dormendo: “Professore… Ho cominciato un lavoro… Spero che potrà servire a qualcosa… ”. E il suo capo riccioluto ricadde nel sonno.
Ho ripensato tante volte alle parole quasi profetiche dettemi in sogno da quel giovinetto, che pochi anni dopo, dopo aver lasciato i fermenti del suo pensiero all’avvenire, sacrificò la vita, perché potesse “servire a qualcosa”.
Credo che Salvemini sia stato in quegli anni, tra il 1920 e il 1925, l’uomo più odiato d’ltalia, e il più felice collezionista di vilipendi fascisti. Tutti noi in quegli anni abbiamo messo insieme la nostra piccola raccolta privata di ingiurie dedicateci dalla libera stampa di quel tempo (raccolta che ha ricominciato ad arricchirsi in questo ultimo decennio); ma la raccolta di Salvemini ha battuto nettamente ogni concorrenza. In questa materia delle contumelie la collezione di Salvemini ha lo stesso primato che nel campo dei francobolli ha la collezione del re d’Inghilterra. Salvemini “bieco rinunciatario”, Salvemini “traditore della patria”, Salvemini “venduto agli Slavi”, questi erano complimenti di stile, adoprati normalmente dai giornali educati “fiancheggiatori” e “liberali”; ma gli squadristi, nei loro libelli, soprattutto quelli di Firenze, rovesciavano su di lui i corbelli variopinti della loro spazzatura domestica. Ricordo che verso il 1921, mentre io ero professore a Siena, in una zuffa di studenti uno di loro si offese perché l’avevano chiamato “salveminiano”; ne nacque una vertenza quasi cavalleresca (Mario Bracci deve ricordarsene) nella quale io fui chiamato come arbitro a decidere se quella parola fosse un’ingiuria: li rimisi in pace diplomaticamente, col sentenziare che tutto dipendeva dall’intenzione.
Intorno a Salvemini si creò in quegli anni una leggenda, di cui anche oggi non sono cancellate le tracce: ne fecero un uomo ringhioso, impastato d’odio e di fiele, una specie di anticristo dei benpensanti.
In questo paese di gente accomodante e pronta alle transazioni, la intransigenza morale è stata sempre spregiata e perseguitata come testarda faziosità. Io avevo allora una vecchia zia, incapace, povera donna, di qualsiasi barlume di pensiero politico, ma attaccata alle sue tradizioni borghesi e alle se terre: la quale, avendo saputo, forse da qualche prete o dal marito che era un alto ufficiale a riposo, che io ero amico di un pericolo sovversivo che si nascondeva sotto un nome molto simile a quello di una celebrata acqua da tavola, se ne affliggeva per la salute della mia anima, come se io fossi caduto nelle grinfie del diavolo: e diceva ai parenti, quando andavano a trovarla: “Sto in pena per Piero: con quel Sangemini, si rovina!”
Eppure quel diabolico “Sangemini”, anche nei momenti delle lotte più serrate e più pericolose, anche nei momenti in cui era in giuoco la sua libertà e la sua vita, anche nelle prove più dure del dolore, della prigionia e dell’esilio, ha sempre conservato intatta quella freschezza e quella serenità della coscienza onesta, che, avendo scelto la sua strada, non ha titubanze o rimpianti o timori; e può permettersi il lusso di celiare bonariamente sulle proprie pene, e di sopportare senza muover ciglio, come se fossero dette a un altro, le calunnie più infami.
Egli si era abituato a ricevere nelle polemiche, in cambio di documentate ragioni, bestiali vituperi. Non se ne adontava. Diceva scherzando agli amici: “Non devi pigliartela se i giornali fascisti ti ricoprono di ingiurie. In Italia i lettori sono così svagati e smemorati che dopo una settimana hanno bell’e dimenticato le male parole che hanno detto di te. Si ricordano soltanto che tu sei uno di cui parlano i giornali, e basta questo perché ti considerino una persona importante!”. E un’altra volta, ai tempi del delitto Matteotti, quando un ingenuo andò a domandargli che cosa sarebbe successo se il fascismo fosse caduto, lo rassicurò: “Niente di grave: verrebbe un corteo di dimostranti sotto le mie finestre a fischiarmi, sostenendo che il fascismo l’ho inventato io!”.
Anche in quel periodo di avvenimenti tragici, non mi sono mai accorto che Salvemini abbia perso il suo buonumore, naturale espressione della sua forza d’animo e della sua virile tranquillità di coscienza. Quest’uomo che nel mito della gente timorata è passato come una specie di orco intrattabile, ha conservato attraverso tante prove fino a questi ultimi anni il dono giovanile di poter ridere a cuore aperto, con quella fresca semplicità che è solo delle anime limpide. Le fragorose risate di Salvemini sono passate in proverbio tra noi amici: e se penso a quegli anni così agitati e difficili che in certi momenti furono anni di sangue e di terrore, vi trovo ogni tanto, a darci coraggio e speranza, le esplosioni della sua ilarità. Una volta, al “Circolo di cultura” prima che i fascisti lo devastassero, feci una conferenza sul libri di testo delle scuole elementari, dei quali in quel periodo era stata fatta una generale revisione da una commissione di cui facevo parte anch’io. Lessi una specie di antologia degli amenissimi errori che vi avevamo trovato: e Salvemini che sedeva in prima fila tra gli ascoltatori ci si divertiva un mondo, fino al punto che ogni tanto le sue risate coprivano la mia voce. A un certo momento, quando io dissi che in un libro di “Nozioni varie” avevo letto (sacrosanta verità) questa descrizione del naso: “Il naso si compone di tre parti; le narici, il setto nasale e il moccolo”, l’ilarità di diventò talmente violenta, che per i sussulti del ridere rischiò di scivolare dalla seggiola.
Mi ha raccontato egli stesso che una volta, in quel tempo, la sua signora lo trascinò a sentire il Parsifal; ed egli dové soffrire in silenzio l’inesorabile Gurnemanz, che nel primo atto dura a cantare per un’ora e mezzo. Ma la sera dopo Salvemini si vendicò: trascinò la signora alla Traviata e fin da principio, appena l’orchestra ebbe attaccato uno di quegli accompagnamenti verdiani che i wagneriani del tempo chiamavano sdegnosamente strimpellii, egli, per protestare contro Gurnemanz, cominciò ad applaudire clamorosamente, gridando a gran voce “bravo! bravo!”, con molto scandalo della signora e più divertimento suo.
Una volta, in quel periodo, mi invito a cena, nel suo quartiere di piazza d’Azeglio: “Mia moglie non c’è. Ci sarà Carlo Sforza: vieni anche te, ho piacere che tu lo conosca.”
Andai puntuale alle otto e mezzo. Venne lui stesso ad aprirmi e mi introdussi nel salotto da pranzo; e lì mi presentò a Sforza, col quale rimanemmo a discorrere più di due ore. Sulla tovaglia sparecchiata sbirciai soltanto due piatti colmi di noccioli di ciliege, e qualche sgocciolatura di caffè in due tazzine. Non c’era rimasto per me neanche il caffè! Salvemini si era dimenticato di avere invitato a cena anche me; e non se ne ricordò affatto per tutta la serata. Alla fine quando uscii quasi a mezzanotte, con una gran fame in corpo, gli dissi sorridendo: “Bisogna che vada a casa: non vorrei che la cena mi si freddasse… ”. Allora si ricordò: e mi par di sentire ancora, su quelle scale, le matte risate con cui egli si scusava del mio infortunio.
Anche alle Murate, dove lo rinchiusero dopo il suo arresto per il “Non Mollare”, non perse mai la sua gaiezza. Un giorno che lo andai a trovare mi disse che quello era un soggiorno ideale: poteva nutrirsi di grandi cartocci di frutta, e studiare in pace dalla mattina alla sera. L’ultima volta che lo vidi prima del suo esilio, fu nell’aula del Tribunale, dopo la sentenza che gli dava la libertà provvisoria, quando io rimasi qualche minuto a conversare con lui, mentre il pubblico lentamente sfollava: e furono quei pochi momenti di indugio che mi salvarono dalla bastonatura, pronta per tutti all’uscita. Anche allora, dietro le sbarre della gabbia, era tranquillo e sorridente: di quel sorriso con cui egli ha sempre cercato, anche nelle ore più gravi, di fare schermo alla commozione.
Ho qui, dinanzi a me, le lettere che mi scrisse dalla Francia in quella estate del 1925, quando ancora qualche lettera dall’estero riusciva a sfuggire alla censura.
Era stato sospeso dall’insegnamento: doveva ricominciare a farsi la vita a cinquant’anni, in un paese straniero, lontano dai suoi studenti e dai suoi libri: e, per prima cosa, imparare l’inglese. Ma anche allora non pensava che a rimettersi a! lavoro, senza scoraggiarsi e senza drammatizzare, anzi quasi scherzando sulle vicende. Tipica mi pare, per dimostrare questa serenità di giudizio anche sui casi propri, una lettera del 17 agosto 1925, datata dall’Abbazia di Pontigny, nella quale mi scriveva: “Io ho bisogno di farmi un programma di lavoro per l’anno venturo. Cioè ho bisogno di sapere se dovrò o no tornare a Firenze per le lezioni. Se mi tengono sempre sospeso dall’insegnamento o se mi destituiscono, me ne vado a cercare lavoro in Inghilterra: in fondo, se tengo presente il comodaccio mio, desidero questa soluzione: me ne sto all’estero al sicuro, visto e considerato che non posso morir di fame rimanendo disoccupato in Italia; mi metto a fare un baccano del diavolo contro la nuova ingiustizia; passo definitivamente nei libri di testo di storia come martire dell’idea, insieme ad Attilio Regolo, a Pietro Micca, ai Fratelli Bandiera, eccetera; e fra alcuni anni, quando sarà voltata la carta, ritorno in Italia a riscuotere gli arretrati: tutti i vantaggi dalla mia parte, tutti gli svantaggi dall’altra. Ma potrebbe anche darsi l’altro caso: che i padroni trovassero di averne avuto abbastanza del processo, e mi lasciassero al mio posto: a) sperando che io non lo riprenda per paura delle minacce cagliesche (allude al direttore del settimanale “Battaglie fasciste”, che si chiamava Cagli, ndr) o canagliesche che dir si voglia, il che permetterebbe loro di considerarmi dimissionario; b) con l’idea di farmi tornare a Firenze con successiva definitiva rottura di testa; c) con l’idea che ritornato nella capponaia, sarei meno noioso che all’estero. In tutte queste ipotesi, io debbo tornare a Firenze: è evidente. Solamente, in vista della ipotesi b), prenderò un’assicurazione con una società… inglese, se trovo una società così minchiona da assicurarmi (a Turati hanno rifiutato l’assicurazione, a Treves hanno rifiutato di rinnovarla)… ”.
A Firenze allora non tornò: dovevano passare altri ventitré anni, prima che ci tornasse. E, venute le leggi “fascistissime” contro i fuorusciti, la nostra corrispondenza dové interrompersi. Eppure anche in quegli anni egli riusciva nei modi più impensati a farci arrivare ogni tanto, dalla Francia o dall’Inghilterra, e poi dall’America, parole serene di incoraggiamento e di comprensione.
Tra i documenti della sua delicatezza e della sua sensibilità conservo come prezioso ricordo un foglietto senza firma, scritto da lui con inchiostro simpatico oggi sbiadito, che riuscì a farmi arrivare non so come, quando ormai l’Italia era schiacciata senza respiro sotto il peso della ditturatura trionfante. All’estero egli si era gettato subito in quella lotta ad armi impari contro il fascismo, che doveva durare vent’anni: povero e isolato tra le diffidenze degli stranieri, armato solo di onestà e di verità, colle sole forze private di studioso e di polemista, contro un regime che anche fuori d’Italia allungava i suoi tentacoli di corruzione, di spionaggio e di assassinio. Ma aveva ad aiutarlo la libertà: e con questa compagna fedele egli poté durare venti anni, instancabilmente, a forza di conferenze, di articoli polemici, di libri rivelatori e di quotidiana propaganda individuale, a spiegare ai ciechi quale pericolo costituiva il fascismo per la pace del mondo e a cercar di separare dai delitti del fascismo la responsabilità del popolo italiano. Ma egli comprendeva bene, come forse non tutti i fuorusciti comprendevano, qual era senza la libertà la condizione obbligata degli antifascisti rimasti in Italia; e si rendeva conto degli accorgimenti e dissimulazioni a cui essi dovevano ricorrere per restare ai loro posti di lavoro in patria, senza vendere al regime la loro dignità. Accadde in quel tempo che una rivista fascista (non ne ricordo più il nome: era un libello ufficialmente addetto alle delazioni, che in ogni numero pubblicava liste di proscrizione delle persone sospette di antifascismo) cominciò a rivolgere agli antifascisti più in vista, e specialmente ai professori di diritto, una specie di questionario provocatore, per costringerli, se non volevano compromettersi, a condannare il fuoruscitismo. “Che cosa ne pensa dei fuorusciti il professore Alessandro Levi?”. “Crede il professore Piero Calamandrei che i fuorusciti meritino una pena?”. Noi non rispondemmo: il libello tornò più volte alla carica. Poi cominciarono a mandarci lettere raccomandate all’Università e a casa; e intanto il libello avvertiva: “Abbiamo inviato ai predetti signori una lettera raccomandata nella quale ripetiamo le nostre domande. Se non rispondono, vuol dire che essi sono solidali coi fuorusciti: e noi ne trarremo tutte le conseguenze”.
Allora bisognò rispondere: non era piacevole esser presi per la strada, portati alla sede del fascio, e rimandati a casa colla testa rotta: era meglio cercare con una risposta ambigua di evitare queste estreme conseguenze del silenzio. Studiammo una risposta sibillina che in sostanza diceva questo: “Abbiamo tanto ossequio per la magistratura che non vogliamo offenderla col dare una risposta che essa solo può dare”. Questa nostra risposta fu pubblicata sul libello fascista, accompagnata da un commento che la interpretava ad arte come una condanna del fuoruscitismo. La cosa fu risaputa a Parigi: e pare che Carlo Rosselli, che anche lui era già rifugiato in Francia, se ne sia dispiaciuto e che abbia scritto sul suo giornale una nota di rammarico contro le ambiguità delle nostre risposte.
Noi in Italia, quando lo sapemmo a distanza di molti mesi, ce ne amareggiammo. Mi par di ricordare che pensò Nello Rosselli, che, vivendo in Italia con noi, riusciva a far da tramite con Carlo, a dissipare l’equivoco. Certo è che dopo qualche tempo mi arrivò, per via clandestina, un pezzetto di carta da parte dello “zio” (come si chiamava, nel nostro linguaggio, Salvemini), coll’avvertenza, datami verbalmente da chi me lo consegnò, del procedimento chimico che si doveva adoprare per render visibile la scrittura. Sotto l’azione del reagente, apparvero allora sul foglietto bianco queste parole scritte in rosso: “Prendo questa occasione per ricordarmi a te coi saluti più affettuosi. In confronto con noi, che viviamo al sicuro, la vita di voi altri che vivete in Italia salvando l’anima è assai più meritoria. In qualche momento io ho avuto qualche moto di sconforto e di scontento. Ma date le vostre condizioni, certe concessioni erano inevitabili”.
Di questi gesti di generosa comprensione la vita di Salvemini è piena. Al disopra di tutte le voci alle quali la sua coscienza è aperta, più della voce dell’amicizia che lo spinge alla operosa solidarietà, più della voce della ingiustizia che lo muove all’immediato sdegno, il richiamo che in lui supera ogni altro è quello della verità: nella sua opera di storico come nella sua instancabile quotidiana lotta politica, sempre egli è andato in cerca della verità, prima per convincere se stesso, e poi per proclamare agli altri, costi quel che costi, la sua onesta convinzione. Questo culto della verità è in lui talmente assoluto, che spesso gli avviene di esprimersi in difesa della verità con sincerità così aperta e quasi brutale, da farlo apparire, a chi non lo conosce, accecato dalla passione e dal risentimento. Eppure non ho mai trovato tra gli uomini della sua altezza uno più pronto di lui a riconoscere il suo torto, quando qualcuno gli dimostri che la realtà è diversa da quella da lui onestamente creduta: nessuno più di lui è disposto, purché trovi l’interlocutore di buona fede, a riprendere in esame i problemi, a rimettere in discussione le opinioni, anche quelle che gli sono più care. La attenzione, direi perfino l’umiltà con cui Salvemini è pronto a dare ascolto alle obiezioni dei contraddittori, specialmente se sono giovani e modesti, è proverbiale. Non sperate da lui acquiescenza per amicizia o per conformismo o per ossequio alle autorità costituite: egli è l’incarnazione vivente dell’amicus Plato sed magis amica veritas. Ma quando si accorge di avere sbagliato nessuno è più pronto di lui a proclamare il suo errore: la sua vita è tutto un seguito di rinunce agli onori, ricchezza, al quieto vivere pur di servire la verità: anche quando si è trattato di verità spiacevoli agli amici suoi e a lui stesso.
È celebre l’episodio elettorale di Albano, quando egli, nell’aprile del 1910, vi fu candidato politico dei partiti popolari; accettò la candidatura per condurre in quel collegio, già malfamato per i brogli elettorali, una campagna di onestà: si prodigò in cento comizi per spiegare al popolo il significato purificatore di quella campagna; il popolo lo comprese e lo seguì. La prima votazione ebbe, per sola virtù di questo richiamo all’onestà che non lascia mai insensibili le masse popolari, un esito insperato: Salvemini rimase in ballottaggio. La vittoria alla seconda votazione pareva sicura. Ma alla vigilia del ballottaggio si accorse che alcuni componenti del suo comitato elettorale, per meglio assicurare la vittoria, si apprestavano a ricorrere anche loro ai vecchi metodi contro i quali si era svolta tutta la sua campagna. Immediatamente egli denunciò pubblicamente agli elettori queste manovre e si ritirò dalla lotta, alla vigilia della vittoria: “per far queste porcherie, non avete bisogno di rivolgervi a me!”.
Anche nella lotta politica, questa intransigenza che i filibustieri hanno sempre irriso in lui come utopistico moralismo, è stata sempre, anche se a lunga scadenza, una forza destinata a imporsi. Ho sentito ripetere cento volte che Salvemini non ha temperamento di uomo politico. Eppure mi pare che egli abbia, più di quanti uomini politici ho conosciuto, quella virtù somma per la quale, specialmente nell’ora delle delusioni e delle defezioni, egli è stato sempre per i giovani una bandiera di raccolta: la virtù di non disperare mai, di non arrendersi mai, anche quando tutto pareva perduto. Rifuggente per amor di concretezza dalle discussioni filosofiche sulle ideologie, egli ha sempre concepito la lotta politica come azione: non perdersi a dissertare a vuoto sui programmi più grandi di noi, ma concentrare i nostri sforzi su ben circoscritti problemi alla nostra portata, entro i quali sia sperabile, anche alle poche forze di piccoli gruppi decisi, poter raggiungere qualche risultato pratico a breve scadenza.
Nessuno oserebbe sostenere che Salvemini abbia un temperamento portato alle illusioni dell’ottimismo: lo direi piuttosto inclinato al pessimismo; ma un pessimismo lucido e operoso, che non è mai scoraggiamento o scetticismo. Da questa ostinazione nacque il “Non Mollare”: questo motto fu trovato da Nello Rosselli, ma l’spirazione fu salveminiana.
Anche in questi ultimi anni lo abbiamo visto: non c’è stato sopruso difronte al quale Salvemini non si sia ribellato, non c’è stata ingiustizia contro la quale egli non sia stato il primo ad alzar la voce e a suggerire il modo pratico per rimediarvi, colle nostre forze private di uomini liberi, senza aspettare la manna dalle autorità. C’erano due condannati innocenti, che le lentezze burocratiche della procedura spiegata continuavano a tenere in galera: invece di far tanti discorsi, raccogliamo danari per compensare gli avvocati che dovranno aiutarli a far causa ai responsabili della loro ingiusta condanna. C’è in atto una politica governativa fatta di arbitri, di quotidiane scalfitture alle libertà individuali, di favoritismi e corruzioni e ruberie: invece di adoprare parole grosse e generiche, denunciamo a uno a uno, con nome e cognome, questi arbitri e questi favoritismi. Non lasciamone passare uno: il malcostume politico non è altro che la somma di queste mille acquiescenze individuali.
Salvemini è un ammiratore di certe grandi virtù dell’America: la democrazia americana gli ha dato negli anni dell’esilio ospitalità, libertà, rispetto, e una cattedra universitaria al posto di quella che il fascismo gli aveva tolto in Italia. Egli non dimentica che senza la democrazia americana l’Europa sarebbe oggi un grande reclusorio nazista. Ma questo non gli ha impedito di insorgere pubblicamente contro il regale compiacimento con cui una fata benefica ha usato farsi fotografare in atto di distribuire pacchi-dono ai poveri italiani e assegni in dollari ai loro inchinevoli governanti: e di ricordare agli amici americani che l’Italia non è un paese vassallo al quale un “ambasciatore indiscreto” possa permettersi, in cambio di elargizioni, di dare ordini di politica interna, specialmente quando sono ispirati dalle sue personali preferenze confessionali o dinastiche.
Tutti sanno che Salvemini è un irreducibile oppositore del comunismo: eppure quando il 4 dicembre 1954 fu diffuso quell’annuncio di maccarthysmo ritardatario che rimarrà come marchio di stoltezza sul governo che lo concepì, le parole più fiere di ribellione vennero da Salvemini: e si vide allora che contro di lui si trovarono d’accordo i neofascisti nel chiedere che, come trent’anni fa, fossero messe le manette al vecchio ribelle, e i socialdemocratici (ahimé, proprio i socialdemocratici!) nel denunciare con ironico eufemismo i suoi “slanci generosi”, per colpa dei quali “è spesso vittima di curiosi qui pro quo”.
Eppure io ricordo che Salvemini, trentacinque anni fa, quando si annunziò il fascismo e tutti gli esperti di politica ne sorridevano come di un fuoco di paglia, fu dei pochissimi che fin da principio non fu vittima di alcun “qui pro quo”. Mi par di rivederlo, verso il 1921, a Montepulciano, seduto in campagna su una proda erbosa accanto a mio padre: “Ne avremo per dieci anni, e forse più”: e sorrideva tranquillo. Anche dopo la marcia su Roma, anche dopo il delitto Matteotti, egli fu il solo a non farsi illusioni. E tuttavia non disperava. Vedeva dinanzi a sé, dieci, cento anni di tirannia; non importa: ognuno doveva continuare a lavorare come poteva nel suo campo, per contribuire a lunga scadenza a ricreare le condizioni per il ritorno alla libertà: con testardaggine, ma senza impazienza. Salvemini, che chi non lo conosce considera come facile agli “slanci”, è in realtà, nella costante linea del suo insegnamento, un maestro di chiaroveggente pazienza: insegna a lavorare come si può, anche se con pochi mezzi, purché per uno scopo preciso e con idee chiare. Invece che attendere remote palingenesi, creare movimenti di opinione pubblica su problemi ristretti, che diano qualche speranza di possibile non lontana soluzione: la riforma tributaria, il petrolio, i monopoli; e lottare per questi sino in fondo, tenacemente, senza occuparsi d’altro.
Proprio per la mancanza di pazienza e per la tendenza a porre sul tappeto troppi problemi in una sola volta Salvemini dette del partito d’azione, che pure era l’erede diretto della sua stessa intransigenza morale, quella definizione tagliente che è rimasta celebre: “un partito di gente che non sa bene quel che vuole, ma che lo vuole subito”. (Forse era vero; ma non so se Salvemini sia molto contento di vedere oggi l’Italia governata dai beati possidentes, cioè dai fondatori del “partito di inazione”, che sa benissimo quello che non vuole, né subito né mai!).
Ma, dietro a questo attaccamento alla concretezza che gli viene dal Cattaneo, c’è, al centro di questa coscienza, una fiamma che gli viene dal Mazzini: l’amore per il proprio paese. Non la retorica delle aquile e delle quadrate legioni, ma questo senso pudico e segreto di partecipazione profonda dell’uomo di cultura alle sofferenze dei poveri, quell’avvertire come fatte a se stesso tutte le angherie e tutte le ingiustizie e tutte le umiliazioni inflitte da secoli a questo popolo, da padroni di dentro e di fuori. In Italia non si sa abbastanza che cosa ha fatto Salvemini negli anni dell’ultima guerra per rivendicare difronte agli stranieri la dignità del nostro paese, e per impedire che le colpe del fascismo ricadessero su di esso: e la sua instancabile resistenza di lottatore isolato, impegnato con tutte le sue forze a difendere, anche nei momenti di più soffocante oppressione, il diritto del popolo italiano a decidere liberamente dei propri destini.
Sta per uscire la raccolta dei suoi scritti sulla questione meridionale: auguriamoci di poter leggere subito dopo la raccolta di quelli pubblicati in America sulle vicende dell’ultima guerra. Si vedrà da essi quale sia stata, anche in quel periodo, la ragionata coerenza della sua battaglia.
La sua sensibilità di storico lo ha portato a intendere meglio di ogni altro quello che c’era di nuovo e di consolante nella Resistenza (e “Parri, l’uomo che più stimo in Italia”): ha sentito, lui storico, che di qui comincia per l’Italia una nuova storia. Era commovente, quando tornò in Italia nel 1948 dopo più di vent’anni di lontananza, accompagnarlo in giro: e vedere con quale loquace entusiasmo egli incontrava, sotto i resti della catastrofe, la rinnovata volontà di vita e di libertà di un popolo intelligente e civile: e con quale emozione riscopriva queste città di cui nessuna somiglia all’altra, queste campagne fabbricate dall’uomo; questi volti di lavoratori ingegnosi, ognuno dei quali si è abituato a combattere da sé, colle sole sue forze, la sua battaglia quotidiana contro la miseria e contro il dolore. E queste donne: quando Salvemini tornò non si stancava di ripetere, con gioconda meraviglia, quanto sono belle le donne italiane: che se ne vanno per le strade così in capelli, e basta un nastro a far di ognuna di esse, signore o popolane, un miracolo di leggiadria.
E quando a Cuneo si trovò tra i partigiani adunati per festeggiarlo, egli, che non si commuove mai, non sapeva nascondere le lacrime. Me lo raccontò Livio Bianco. In mezzo a quei reduci s’accorgeva che se quella guerra era stata possibile, anche lui, da lontano, aveva contribuito a creare quello spirito: sentiva che lì, tra quella gente umile, era nato finalmente un popolo consapevole del suo destino e geloso della sua libertà.
Caro Salvemini! Come è difficile dire a un uomo come te, così superiore a noi eppure così vicino a noi, tutto il bene che ti vogliamo, tutta la riconoscenza che abbiamo per te: e spiegarti che nei vent’anni che sei stato lontano, tante volte, nel fare il nostro esame di coscienza, ci siamo domandati che cosa avresti pensato di noi, come ci avresti giudicati, come ci avresti consigliati: e abbiamo cercato nel tuo ricordo la misura del nostro dovere. Ci tornano in mente, come riordinate in serie, le tue apparizioni nella nostra vita: “Sarvemìni” “Sangemini” “Io zio”… Vorremmo celiare con te su questi ricordi, oggi che in patria e fuori ti festeggiano; ma in fondo al cuore c’è una gran tenerezza, che ci impedisce di scherzare. Mentre Accademie e Università onorano in te lo storico e il maestro, noi ti ringraziamo per la lezione di vita che ci hai dato: questo averci insegnato che l’amore per il proprio paese si identifica collo studio paziente dei suoi problemi politici e sociali: questa serena e operosa perseveranza nel dovere, senza speranza di paradiso né in terra né in cielo. Caro Salvemini, specchio limpido e umano della nostra coscienza.