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Il greenwashing di Eni

Salvatore Esposito/contrasto
1 Marzo 2022
Alessandro Runci

C’era una volta l’Ente Nazionale Idrocarburi, l’azienda petrolifera di stato creata nel 1953 per sfruttare i giacimenti del Nord Italia. Oggi, a settant’anni dalla sua nascita, Eni afferma di essersi evoluta in un’impresa dell’energia che ha come obiettivo quello “di preservare il pianeta”. Ma cosa è c’è di realmente diverso nella nuova Eni?
Ha ricevuto ampio spazio su tutti i principali quotidiani italiani la nascita di Plenitude, società del gruppo Eni che integrerà i business rinnovabili, mobilità elettrica e retail. Un “avamposto della nostra strategia di decarbonizzazione” l’ha definita il suo amministratore delegato, Stefano Goberti, mentre svelava il logo – ovviamente verde – della nuova arrivata. La quotazione in borsa è prevista entro la fine del 2022 e si stima che il valore supererà i 10 miliardi. Al mercato andrà una quota pari al 20-30% del capitale, mentre la maggioranza rimarrà sotto il controllo della casa madre.

Nel darne la notizia, i media nostrani hanno fedelmente riportato la nota di Eni, in cui spicca l’obiettivo di fornire il 100% di energia decarbonizzata a oltre 15 milioni di clienti entro il 2040. Parte di quell’energia sarà effettivamente prodotta da fonti rinnovabili, ma una fetta importante del business di Plenitude sarà la vendita di gas fossile, le cui emissioni l’azienda promette di compensare attraverso espedienti alquanto controversi come la cattura dell’anidride carbonica e i cosiddetti progetti di conservazione delle foreste.
Mentre a Milano Eni sfoggiava il suo lato green, una decina di migliaia di chilometri più a sud la mega piattaforma galleggiante Coral gettava gli ormeggi a largo delle coste del Mozambico. Lunga oltre 400 metri e pesante 200 mila tonnellate, il nuovo gioiellino in casa Eni perforerà pozzi a 2 chilometri di profondità, nel bacino di Rovuma.
A causa delle sue enormi riserve di gas, il Mozambico è diventato uno dei paesi chiave dell’espansione di Eni. Il Cane a sei zampe è capofila di due dei tre progetti estrattivi in fase di realizzazione nel paese, valutati intorno ai 35 miliardi di dollari. Qualora la totalità delle riserve di gas venisse estratta, le emissioni generate sarebbero pari a 50 volte quelle attribuibili ogni anno al paese africano e cinque volte quelle dell’Italia.

Intanto, la regione di Capo Delgado, dove si concentrano le operazioni dell’industria, è alle prese con una delle più gravi crisi umanitarie del continente, dopo che il conflitto scoppiato nel 2017 ha causato tremila morti e quasi un milione di sfollati. Lo scorso anno, dopo l’ennesimo spaventoso attacco da parte dei miliziani, la francese Total è stata costretta ad abbandonare il paese dichiarando la “forza maggiore”. Nessun ripensamento da parte di Eni, che “pur non escludendo attacchi dimostrativi”, ritiene che le sue infrastrutture e il suo personale siano al sicuro.
Se il 2021 si è chiuso alla grande per l’azienda di San Donato, con utili fino al terzo trimestre triplicati rispetto al 2020 grazie soprattutto all’aumento vertiginoso dei prezzi del gas, l’anno nuovo sembra iniziare sulla stessa scia. In poche settimane, Eni è riuscita ad aggiudicarsi ben 15 nuove licenze esplorative, di cui 10 in Norvegia e 5 nell’Egitto di Al Sisi, paese che già oggi costituisce il maggiore serbatoio di gas per la società.

È chiaro come Eni continui a puntare su petrolio e gas, tanto che la sua produzione di idrocarburi è destinata ad aumentare nei prossimi anni, fino a superare i 2 milioni di barili al giorno nel 2024.
Visto che la sbandierata decarbonizzazione non implica dunque l’abbandono dei combustibili fossili, Eni fa ricorso a degli escamotage, che gli consentono di mantenere invariato il proprio modello di business ma al contempo promettere una riduzione delle emissioni climalteranti.
Uno di questi è la cattura e stoccaggio della Co2 (CCS), una tecnologia molto rischiosa, che finora ha collezionato solo fallimenti sebbene abbia beneficiato di enormi finanziamenti pubblici. Secondo una ricerca del 2020 della Carleton University, l’80% dei progetti di Ccs analizzati si è rivelato inefficace e gli unici a essere andati in porto sono quelli dove l’anidride carbonica è stata re-iniettata nei giacimenti al fine di aumentare l’estrazione delle riserve.
Tra i progetti più noti portati avanti dal Cane a sei zampe c’è il Ccs di Ravenna, annunciato a febbraio 2020 dall’Amministratore Delegato, Claudio Descalzi, e poi rimasto invischiato in una serie di polemiche sia locali – con i sindacati della chimica a favore da una parte e un’amministrazione locale divisa dall’altra – che europee. A fine novembre, infatti, il progetto ha incassato una secca bocciatura dall’Unione europea, che lo ha escluso dalla lista dei beneficiari dell’Innovation Fund, al quale Eni lo aveva candidato sperando nel supporto finanziario di Bruxelles. Poche settimane prima, il governo Draghi aveva inserito una postilla nella Legge di Bilancio che allocava 150 milioni per questa tecnologia, poi stralciata anche questa in seguito alle polemiche.

Al momento il progetto di Ravenna sembra essere in una fase di stallo, ma nel frattempo Eni sta andando avanti con un altro Ccs da realizzare a largo di Liverpool, contro cui non mancano le opposizioni da parte di attivisti locali, e un altro in Australia, legato a uno dei più inquinanti e costosi giacimenti di gas liquefatto al mondo.
Il secondo espediente insito nel piano decarbonizzazione di Eni sono i cosiddetti progetti di compensazione delle emissioni di anidride carbonica, ovvero presunte attività di conservazione delle foreste che generano dei crediti di carbonio, i quali consentono ai loro detentori di cancellare parte delle emissioni dal proprio bilancio. “Decarbonizzazione contabile” la si potrebbe chiamare, dietro cui si celano impatti molto più sostanziali.
Spesso questi progetti forestali si traducono in pesanti restrizioni all’accesso alla terra per le comunità locali che abitano quei territori, e che vengono rappresentate come una minaccia per la biodiversità per via delle loro pratiche culturali o di sussistenza. Ad oggi, Eni afferma di voler portare avanti iniziative di questo tipo in Zambia, Malawi, Mozambico, Ghana, Angola e Congo, paesi dove i diritti alla terra non sempre vengono rispettati.

Se da un lato Eni continua a portare avanti il proprio core business fossile, dall’altro la società si sta espandendo anche su altri fronti. Primo tra tutti il biogas, su cui il cane a sei zampe sta puntando molto. A marzo dello scorso anno, Eni ha concluso l’acquisizione del gruppo altoatesino Fri-EL, controllato dall’impreditore Josef Gostner, attivo nel settore dell’eolico e delle biomasse e leader italiano del biogas. Così facendo, Eni ha rilevato una ventina di impianti di temovalorizzazione, per lo più nel nord Italia e di cui alcuni particolarmente controversi. Una mossa astuta, dato che il biogas è stato poi inserito all’interno del Pnrr (1,9 miliardi) e che lo scorso novembre è arrivato il nuovo decreto incentivi da parte del governo.
C’è poi il ramo dei bio-carburanti, in particolare quelli per l’aviazione, dove i margini di profitto sono enormi. Per accaparrarsi le risorse necessarie alla loro produzione, Eni ha già stretto accordi con Kenya, Tunisia, Angola e Congo. Migliaia di ettari di terre che passano sotto il controllo della multinazionale italiana, con il rischio che ciò aumenti ancor di più la pressione sulle già scarse risorse a disposizione delle comunità locali. Non è chiaro ancora dove Eni intenda processare le materie prime che importerà dai paesi africani, visto il futuro sempre più nero delle raffinerie italiane controllate dalla società. I piani industriali per gli impianti di Stagno, Milazzo e Sannazzaro sono molto incerti e in tanti temono chiusure che rischierebbero di lasciare a casa centinaia di lavoratori, in territori già gravemente impattati da un modello di industrializzazione inquinante.

Che il comparto della raffinazione italiano sia in crisi non è certo una sorpresa, tanto che Eni a gennaio del 2019 ha investito oltre 3 miliardi per rilevare il 20% delle raffinerie Adnoc, negli Emirati Arabi, dove i margini di profitto sono molto più alti e i vincoli normativi probabilmente meno gravosi.
Per quanto riguarda solare ed eolico, l’azienda di Descalzi ha intrapreso una serie di acquisizioni in Sicilia, Spagna, Francia e Grecia. Dal punto di vista del Cane a sei zampe le rinnovabili oltre a rappresentare un’ulteriore opportunità economica, si rivelano un ottimo alibi pulito per celare il business più inquinante della società, da cui ancora oggi deriva oltre il 90% dei propri utili.
L’ingresso di Eni in settori come quello delle rinnovabili o del biogas rappresenta una differenza rispetto all’Eni del passato, ma non di certo una autentica transizione per uscire dal fossile. Quella messa in atto dal cane a sei zampe è piuttosto una politica di espansione, che ambisce a consolidare la propria egemonia nei combustibili fossili e contemporaneamente conquistare nuovi mercati e risorse.


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