Il disastro lombardo

Negli incontri – videoconferenze soprattutto – di presentazione di Senza Respiro (Edizioni Altreconomia, 2020), un libro che analizza la pandemia da coronavirus in Lombardia, Italia ed Europa, Vittorio Agnoletto ricorda sovente che se la Lombardia fosse una nazione indipendente, come voleva la Lega di Bossi, sarebbe oggi al primo posto nella classifica dei tassi di mortalità (numero di decessi in relazione alla popolazione) e letalità (numero di decessi in relazione ai casi di positività). La Lombardia a metà dicembre 2020 secondo i dati della Protezione Civile scontava un tasso di mortalità dello 0,24% (240 decessi su 100mila abitanti) rispetto alla media nazionale dello 0,11%, e una letalità del 5,4% (5,4 decessi ogni 100 pazienti positivi) in confronto alla media nazionale del 3,5% e al minimo dell’1,3% in Campania. Questi numeri si riferiscono ai soli dati ufficiali unanimemente considerati sottostimati perché soprattutto in Lombardia durante la prima ondata pandemica moltissime persone sono decedute dentro le Rsa, a casa propria e negli ospedali senza aver fatto i test-tampone e non sono quindi annoverate fra le vittime dirette del Covid.
Richard Horton, capo redattore di “The Lancet” – autore dell’editoriale Non si tratta solo di una pandemia ripreso in questo stesso numero della rivista – in Covid-19. La catastrofe (Il Pensiero Scientifico, 2020) , ha ampliato la prospettiva sul piano globale (e l’ha poi trasposta anche in chiave storica in una seconda edizione del gennaio 2021). Horton narra di un pianeta in crisi da stress post-traumatico e di leader politici e scientifici disorganizzati e incoerenti, come Donald Trump capace di ritirare i fondi e il sostegno Usa all’Organizzazione Mondiale della Sanità in piena crisi in Nord America (luglio 2020) o Boris Johnson a lungo confusionario sostenitore della “immunità di gregge” fino a che le previsioni dei suoi consiglieri sulle conseguenze del contagio nel Regno Unito non gli hanno fatto cambiare idea.
Mentre a fine febbraio 2021 il coronavirus ha già colpito 120 milioni di persone nel mondo causando quasi 3 milioni di vittime e la devastazione di interi settori economici, su scala regionale e nazionale si osservano differenze di mortalità e letalità che non dipendono solo dalla fragilità della popolazione più anziana (motivazione che spiegherebbe in parte l’alta mortalità in Italia) ma anche da altri fattori: carenze organizzative, ritardi nella comunicazione, falle nel tracciamento dei contagi, diverse aggressività del virus, comportamenti individuali e scelte dei governi locali o nazionali, che Agnoletto e Horton provano a raccontare ed esaminare. Pur senza mai trattarne in modo esplicito, entrambi rimandano sistematicamente al plesso di poteri che unisce politica, tecno-capitalismo e industria medica per individuare le ragioni di questa crisi sanitaria globale, evidenziando anche le storture derivanti dalla mercificazione della salute e dalla privatizzazione dei servizi sanitari praticate negli ultimi decenni su tutto il globo. Sullo sfondo delle narrazioni resta l’amarezza per gli elogi al personale medico e sanitario dei servizi sanitari nazionali – quello inglese, nato nel secondo dopoguerra, ebbe un ruolo guida per l’affermazione universale dello stato sociale – unanimemente profusi da economisti, politici e capitani d’industria che hanno come modello quello stesso neoliberismo usato prima da Margaret Thatcher negli anni ’80 dello scorso secolo per indebolire la sanità pubblica e poi nel nuovo millennio dai fautori del mercato per darle l’assalto e saccheggiarla a favore del settore privato e dei grandi gruppi di ricerca medica dove si fa fatica a distinguere fra pubblico e privato.
Uno scenario mondiale con poche varianti
Il testo di Horton si sviluppa con capitoli rapidi: parte dell’emergenza nella provincia cinese del Wuhan per raccontare il ritardo delle risposte internazionali agli avvertimenti provenienti dall’oriente, analizza il paradosso dei successi delle scienze mediche e del fallimento delle loro applicazioni, descrive i lavoratori della sanità di tutto il mondo come combattenti in prima linea in nome della collettività, elenca i fallimenti delle politiche di contrasto al coronavirus (dalla sorveglianza alla comunicazione), chiarisce che il rischio delle pandemie non è mai azzerato e si chiede come ci si può preparare alle emergenze sanitarie future.
I lunghi capitoli del libro di Agnoletto partono dagli sviluppi del contagio in Italia fino ad agosto 2020, alternando alla discussione numerose testimonianze e cronache da ospedali e luoghi di lavoro. Il testo coglie a piene mani dalle migliaia di messaggi e telefonate inviati da cittadini e operatori sanitari alle associazioni Avvocati per niente e inCerchio, allo Sportello di ascolto e intervento per l’emergenza Covid-19 attivato alla Bicocca e soprattutto a 37e2 la rubrica di Radio Popolare condotta da Agnoletto che con Medicina democratica ha costituito a Milano un Osservatorio coronavirus diventato un riferimento informativo durante la pandemia.
Successivamente, nella parte centrale Senza Respiro confronta la diffusione del Covid-19 in regioni italiane diverse dalla Lombardia e in altri paesi europei riscontrando ovunque lo sgomento di cittadini e medici per le disposizioni contraddittorie e l’assenza di coordinamento dei sistemi assistenziali, assieme alla rabbia per le pressioni e le minacce esercitate contro ogni voce dissonante dalla narrazione di efficienza eroica delle strutture sanitarie.
Questo insieme di denunce e testimonianze che si rincorrono simili su ogni livello e in ogni luogo colpito dal virus obbliga a una revisione critica dei sistemi sanitari di tutto il mondo partendo dal paradigma dell’intervento medico e di cosa si debba oggi intendere per medicina. Questa premessa è necessaria: occorre una nuova prospettiva per la difesa della salute e per definire le priorità sanitarie. Infatti, secondo entrambi gli autori quella a cui ci troviamo di fronte non è una parentesi che prima o poi andrà a chiudersi con il ritorno a una normalità sanitaria ma il peggiore effetto finora manifestatosi di una deriva dello stato di salute umana e del pianeta. È impressionante osservare come negli ultimi decenni si fossero moltiplicati e fatti sempre più minacciosi e frequenti i segnali di un’imminente crisi pandemica mondiale
David Quammen, l’autore di Spillover. L’evoluzione delle pandemie (Adelphi), già nel 2014 aveva passato in rassegna l’insorgenza di malattie da contagio sviluppate nel mondo dal 1961 a oggi osservando che con il passare dei decenni si è fortemente ridotto il periodo di tempo intercorso tra due epidemie successive sviluppate su scala extra-nazionale. Quest’ultima epidemia – la prima che sia riuscita a oltrepassare tutte le barriere e i confini, non solo di tipo sanitario – se tutto rimarrà come prima lascerà molto probabilmente e rapidamente il posto a un’altra. In un’ottica di sola cura e non di prevenzione, il problema principale diventerà unicamente quanto tempo intercorrerà tra l’una e l’altra crisi pandemica, tutte frutto del nostro stesso modello di sviluppo centrato sulla deforestazione, sugli allevamenti intensivi, sullo sfruttamento di ogni millimetro di ecosistema del nostro pianeta, sull’abbattimento di tutte le barriere che dividevano gli animali selvatici dagli esseri umani. Tutte azioni che alla fine, nell’insieme, hanno non solo permesso ma agevolato quasi rendendolo biologicamente inevitabile il salto di specie del virus fino all’uomo.
Occorre inoltre ammettere che il Covid-19 ha colto disattente e impreparate le istituzioni sanitarie di tutto il mondo, senza eccezioni. Eppure, come ha osservato Richard Horton, quando il 24 gennaio 2020 un gruppo di ricercatori di Hong Kong ha pubblicato i primi dati scientifici che dimostravano la trasmissibilità del Covid-19 da uomo a uomo, per i tecnici è stato impossibile non riconoscere analogie con l’epidemia Sars i cui primi casi accertati risalgono a novembre 2002 nella città di Foshan, provincia di Guangdong, nella Cina meridionale.
Anche allora la diffusione iniziale della Sars fu causata principalmente dal mancato riconoscimento del nuovo virus e da insufficienti capacità di isolamento dei malati negli ospedali. Il contagio si diffuse dal Sud Est asiatico fino a colpire circa 8mila persone in tutto il mondo prima che la reazione di insieme dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riuscisse, dopo aver dichiarato l’allerta pandemica a marzo, a estinguere il contagio nel mese di maggio 2003. I danni economici stimati in circa 80 miliardi di dollari si riversarono principalmente su Cina e Hong Kong. Nel frattempo, a causa anche delle denunce dell’Oms, nel mese di aprile 2003 il governo centrale cinese, che aveva già dichiarato guerra nazionale alla Sars e sostituito il sindaco di Pechino e il Ministro della Sanità, si riprometteva di non incorrere più in una crisi sanitaria ed economica di simili proporzioni. A luglio 2003 l’Oms ritirò l’allarme pandemico e nel 2004 il mondo intero contemplava con soddisfazione il successo nel contenimento della Sars, risultato di un decennio di impegni e collaborazioni della rete sanitaria internazionale – anche se le principali agenzie della salute invitavano a non abbassare la guardia e a proseguire l’impegno per irrobustire e preparare le strutture sanitaria alle pandemie, naturali o prodotte intenzionalmente, che sarebbero venute.
Cosa non ha funzionato: partiamo dall’Italia
Occorre quindi capire che cosa questa volta non abbia funzionato e se non si offre una risposta plausibile il rischio è che tutto, anche la pandemia, possa essere accettato come una fatalità e trasformarsi in pratica quotidiana leggera ed efferata mentre intorno si ricompone una normalità riadattata, spacciata per cambiamento. Questa normalità va messa in discussione, bisogna chiedersi come sia stata possibile una tale disfatta sanitaria mondiale rispetto a quanto accaduto con la Sars meno di vent’anni prima e come sia stata possibile in Italia in poco più di quarant’anni una tale deriva e frammentazione di un Servizio sanitario ideato e nato universalistico, sostenuto dalla fiscalità progressiva e uniforme su tutto il territorio.
Horton non ha dubbi sulla necessità di sottrarre risorse pubbliche al tecno-capitalismo che, oltre a moltissimi leader politici, annovera fra i fautori personalità iconiche come Bill Gates, Elon Musk e i guru di Google e della Apple, funzionali per il funzionamento dell’intreccio fra finanza, politica e medicina. Il direttore di “The Lancet” osserva inoltre che questi personaggi godono di finanziamenti pubblici per i loro settori ma raramente rischiano in proprio – come accaduto con la ricerca sulla Sars, abbandonata dai privati dopo il 2003 quando la probabilità di profitto legato al vaccino andava scomparendo assieme al contagio.
Agnoletto prova a rispondere a molti dei quesiti precedenti nella seconda parte del suo libro (Una bomba nucleare prevedibile; Come distruggere un servizio sanitario pubblico) riflettendo sui motivi storici, economici e politici del degrado che ha permesso al virus di diffondersi incontrastato e su come dovrebbe essere una sanità equa e sostenibile per evitare il ripetersi di una simile tragedia.
Nel nostro paese, per riprendere il discorso sulla Sanità pubblica occorre tornare alla situazione in Lombardia – riferimento continuativo del libro di Agnoletto – e chiarire i temi del dibattito. Soprattutto va ribadito che lo scontro sul tema della privatizzazione dei servizi sanitari non è secondario ma prioritario e necessario se non si vuole tornare alla situazione precedente accettando che il supercapitalismo possa stravolgere non solo i rapporti umani ma addirittura i rapporti di cura rendendo anch’essi epifenomeni dei rapporti di produzione.
Horton osserva che l’indebolimento del Servizio Sanitario britannico è stato pianificato all’inizio degli anni 2000 per favorire il graduale e inesorabile ingresso del privato in sanità. Una “riorganizzazione” che ha progressivamente sottratto alla collettività ospedali, strutture assistenziali, cliniche e associazioni di categoria fino a raggiungere ogni luogo e funzione del sistema sanitario che si è trovato, infine, come un naufrago circondato dagli squali.
Occorre approfondire quali storture implichi l’affidarsi alla sanità privata osservandola da vicino e denunciando quanto sta avvenendo dove è più presente e imperante. In Lombardia l’invasione dell’interesse privato a discapito di quello pubblico è esperienza quotidiana. Per questo il Coordinamento Regionale per il Diritto alla Salute costituito da 52 associazioni ha lanciato una petizione chiedendo al governo di commissariare la Regione Lombardia in campo sanitario. Non si voleva solo evitare nella seconda ondata di lasciare la gestione sanitaria nelle stesse mani di chi aveva disastrosamente gestito la prima, si voleva anche ridurre la capacità di condizionamento che hanno oggi in Lombardia quelle stesse strutture private che nella prima fase, approfittando delle difficoltà, si facevano pagare i tamponi a un costo fino a 300 euro e nella seconda fase in strutture come il San Raffaele hanno proposto a 450 euro un “pacchetto Covid” costituito da tampone, esame ematochimico, misura dell’ossigenazione sanguigna, radiografia al torace e parere medico.
La regione Lombardia affitta interi reparti ospedalieri a organizzazioni private che agiscono imponendo proprie regole all’interno di strutture pubbliche. Dal mese di marzo 2020 vige una delibera regionale emanata in emergenza per l’affitto a soggetti privati di reparti di “Sorveglianza Covid”. Grazie a questa delibera Medicasa – struttura nata nel 1993, che insieme a VitalAire costituisce in Italia la “Business Unit” del gruppo Air Liquide per le “Cure a Domicilio” – gestisce alcuni reparti degli ospedali di Sesto San Giovanni e di Passirana nel comune di Rho. “Questo è accaduto nel silenzio totale dei media e dell’opposizione in Regione, che non hanno sollevato nessuna obiezione” – ha sottolineato Agnoletto in videoconferenza dopo aver scoperto la vicenda grazie alle inchieste condotte da 37e2 (puntate del 10 e 17 dicembre 2020 su Radio Popolare).
Se la Lombardia fosse una nazione indipendente, come voleva la Lega di Bossi, sarebbe oggi al primo posto nella classifica dei tassi di mortalità
Dunque, ciò che accade oggi in un ospedale pubblico della Lombardia – a rischio di chiusura mentre si aprono strutture improvvisate a Rho Fiera, a pochissimi chilometri di distanza, negli spazi dell’ex Expo 2014 – è che chi viene dimesso dalla terapia intensiva è poi trasferito, sempre dentro lo stesso ospedale, in un altro reparto dove la sua degenza prosegue ma in cui il cartello di benvenuto informa che si è arrivati a Medicasa, struttura privata costituita come Business Unit a fine di lucro. In quelle stesse sedi la gestione dei servizi resta a carico dell’amministrazione pubblica che spesso e volentieri a sua volta li terziarizza con perdita di garanzie economiche e normative per tutti i lavoratori e pazienti coinvolti.
Le responsabilità della politica e della scienza
Ricostruire una sanità pubblica rafforzata, territoriale ma omogenea sull’intero territorio significa dunque anche decidere di scontrarsi con interessi forti e radicati. E mentre anche in Italia dal 27 dicembre è in corso la campagna di vaccinazione anti-Covid-19 – la cui accelerazione è stata possibile dalla ricerca pregressa sulla Sars continuata grazie soprattutto a istituzioni pubbliche (700 milioni di dollari solo dagli Usa) quando nessun privato era più interessato alla ricerca di un vaccino – occorrerebbe spingere il ragionamento fino al campo della farmacologia sostenendo la necessità di una grande azienda sanitaria pubblica in grado di fare ricerca sui farmaci. Perché gli accordi commerciali validi in questo settore sono vincolati all’interno dei Trips, accordi internazionali che si occupano della tutela dei diritti di proprietà intellettuale e che obbligano gli stati-nazione – anche quelli poveri in crisi già per le forniture di farmaci generici – a stipulare accordi separati con le multinazionali della farmaceutica.
Nell’ultimo capitolo del suo libro Agnoletto osserva che l’emergenza in corso è insieme sanitaria, sociale e culturale e invita a mettere in ordine le priorità. Ragionando su una sanità pubblica universalistica e finanziata dalla fiscalità generale in Italia occorre unire le lotte assieme per esempio a chi sta lottando per evitare che si realizzi qualunque ipotesi di Autonomia Differenziata (così come la rivendicano Lombardia, Piemonte Emilia Romagna e Veneto) chiedendo ai responsabili di governo perché non abbiano mai utilizzato l’articolo 117, comma “q”, della Costituzione, che di fronte a crisi di “profilassi internazionale” attribuisce loro il potere di ogni decisione nell’interesse dell’intera nazione, evitando i balletti sulla responsabilità con le regioni, che hanno fatto perdere tempo prezioso.
Inoltre, avremo bisogno di individuare un sistema di sorveglianza sanitaria strutturato su diversi livelli. Dalla fine di novembre 2019 i medici di Bergamo e di Codogno segnalavano un aumento delle polmoniti interstiziali: occorre chiedersi dove siano finite quelle segnalazioni e come si può rendere efficace un sistema territoriale che segnali immediatamente l’arrivo di un agente infettivo e che altrettanto immediatamente provochi una risposta delle strutture nazionali e internazionali – a questo sarebbe servito un piano pandemico aggiornato.
Il servizio territoriale è da ricostruire assieme a nuove figure di medici di base da non lasciare soli con i loro pazienti ma da organizzare in gruppi utilizzando le risorse stanziate per l’assistenza domiciliare in capo agli enti locali e per ridurre l’enorme numero di anziani con patologie croniche relegati nelle Rsa e di fatto sottratti al contesto familiare quotidiano.
Dà speranza ed è di esempio che, accanto alla crisi gestionale e organizzativa non causata ma pienamente svelata dal virus, Senza Respiro sottolinei anche l’importanza delle esperienze di mutuo aiuto messe in atto dal personale medico e dai cittadini, non disconoscendo ma rivendicando la centralità dell’infrastruttura pubblica. In molti casi le buone pratiche apprese sul campo hanno sopperito all’inconsistenza delle direttive internazionali, nazionali e regionali con protocolli aperti di comunicazione e prevenzione in campo medico e con forme solidali di soccorso nella cittadinanza.
Il servizio territoriale è da ricostruire assieme a nuove figure di medici di base da non lasciare soli con i loro pazienti ma da organizzare in gruppi utilizzando le risorse stanziate per l’assistenza domiciliare
Questi sono i punti di partenza per ristrutturare i servizi sanitari nazionali, non gli interventi di medicina curativa individuale per raffinati e eccellenti che siano, che non migliorano sostanzialmente l’attesa e la qualità di vita di un’intera popolazione. Abbiamo sicuramente bisogno dei finanziamenti dedicati alla sanità stanziati con il Recovery Fund europeo, ma anche di una diversa allocazione delle risorse, sempre dentro l’ambito sanitario spostate però sulla medicina preventiva e territoriale.
Come suggerisce anche Richard Horton, la prevenzione delle pandemie prossime venture dovrà basarsi su un cambiamento del modello di produzione e consumo globale. Bisognerebbe rendere più efficiente e autorevole la sorveglianza tecno-scientifica, riunire sotto un’unica progettualità l’assistenza medica e sociale e ridurre quelle stesse ineguaglianze che nel 2013 Boris Johnson, allora sindaco di Londra identificava come motore del successo sociale perché “il bisogno competitivo è ciò che sprona le attività economiche”. Il Covid-19 – sostiene Horton – non rappresenta un evento singolo ma l’inizio di una nuova epoca sanitaria. Questo virus ci ha costretti a prendere atto dell’unità biologica e dell’interdipendenza della specie umana sull’intero pianeta, fenomeni che confutano ogni ipotesi di separazione dell’umanità secondo l’appartenenza a nazioni, continenti, linguaggi, fedi e ideologie politiche diverse. Nel post-Covid le libertà e i diritti individuali e collettivi potranno perciò realizzarsi appieno solo alzando il livello mondiale di cooperazione e intercomunicazione. Puntare a un semplice ritorno alla normalità, come scrive l’ex presidente del Brasile Lula da Silva nella prefazione a Senza Respiro, corrisponderebbe solo “alla piena restaurazione delle iniquità di un passato e di un presente caduco, che la pandemia ha squadernato e ingigantito”.
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