I ragazzi sotto sequestro

Al grido di “come sono stati bravi i nostri ragazzi!”, molti adulti angosciati dal lockdown pandemico si sono abbandonati a un festoso compiacimento. Non solo genitori e insegnanti, ma persino colleghi psicoanalisti, che delle ambivalenze dell’anima umana dovrebbero saperne, hanno elogiato la serena accettazione del confinamento da parte dei ragazzi, dimostrando nient’altro che la nostra cecità di adulti. Abbiamo ammirato i “nostri” adolescenti per il loro senso di maturità, ne siamo stati piacevolmente stupiti, come se la Covid-19 avesse potuto imprimere uno slancio verso quella responsabilità che prima non avevano, iscrivendoli d’un tratto nella schiera, peraltro non affollatissima, dei cittadini consapevoli.
Siamo in un equivoco immenso.
Purtroppo, i “nostri” ragazzi erano “bravi” anche prima: come nessuna generazione precedente alla loro, se ne stavano buoni buoni in casa, dove abbiamo operato in modo che vi si accomodassero fin troppo bene. Già prima della Covid-19, i ragazzi avevano fatto dell’adattamento la loro religione: mimetici e accondiscendenti, accontentavano i genitori non confliggendo troppo con loro. (Per questo, quando lo fanno, possono risultare violenti o autodistruttivi: se non confliggono con noi, confliggono contro loro stessi.) Sono così “bravi” che molti scelgono il ciclo di studi universitari sulla base di “ciò che chiede il mercato”, anche quando questa scelta deraglia dalle loro legittime aspirazioni. Si sono trasformati in normotici: ubbidienti-robotici-normalizzati.
L’adattamento, in un giovane, ha qualcosa di immorale. La vita non pulsa. Non credono davvero – anche quando vi s’impegnano – di poter cambiare il mondo che gli abbiamo lasciato, così come non credono di poter andarsene senza colpa dal nido in cui sono stati claustrofilizzati. Amano il chiuso, i “nostri” ragazzi, amano la famiglia, spesso più della loro ragazza o del loro ragazzo; preferiscono l’endogamico all’esogamico, la capanna al panorama.
I loro corpi sono come la statua di Michelangelo: non quella del David colto nell’atto glorioso che lo fa passare da garzone dei fratelli maggiori a uomo, ma più simili a quella de L’Adolescente accucciato, custodita all’Ermitage. Il loro corpo ondeggia nello spazio come se non avesse un asse. Nel canto – che insegno – le mute vocali sono sempre più tardive, l’appoggio dei piedi è volante, il loro corpo canoro non si è ancora autorizzato ad avere un peso e a occupare uno spazio. Ragazze e ragazzi formati si muovono e parlano come bambini: privati della coordinazione interna che l’età richiederebbe, i loro corpi denunciano quanto troppo siano rimasti tra le mani della madre.
Il corpo dei ragazzi è il vero sequestrato dell’epoca Covid-19: lo era anche prima, ma senza l’autorizzazione sociale offerta dalla pandemia. Mai come nel lockdown i ragazzi sono stati “nostri”, sprofondati nell’ambiguo torpore famigliare della coccola benigna intessuta alla maligna prigione che separa dal mondo. E il naufragar m’è dolce in questo mar è la condizione dei figli presi nelle maglie della famiglia plusmaterna, quella in cui la cura parentale fallisce per intrusione, controllo o soccorso eccessivo. Quel verso fu scritto da uno che aveva come (plus)madre donna Adelaide, la quale pretese dal figlio la rinuncia alla gioventù e alla vita. Conosciamo da più tempo gli effetti di un minusmaterno abbandonico, ma non abbiamo ancora il polso del danno plusmaterno che depaupera il mondo di uomini di valore e che sembra aver contagiato schiere di madri, anche quelle che sarebbero state, in un’altra epoca, solo madri in colpa di essere un po’ apprensive. La claustrofilia delle famiglie contemporanee, il bisogno di passare lunghissimi tempi tutti insieme, ha preparato i ragazzi al lockdown: la convivenza con i loro famigliari non è stata sentita dai giovani contemporanei con la stessa insopportabilità che avrebbero provato i loro genitori o i loro nonni che, in una situazione analoga, sarebbero impazziti nella rinuncia agli amici, al gruppo, al mondo. Anche se avessero avuto l’attuale tecnologia.
“Prof, mi sto abituando”, “Ho paura che tutto ritorni normale”, “Ho paura del momento in cui dovrò tornare ad avere contatti sociali”, “Sono anestetizzata”, “Non mi manca così tanto il mondo di prima”, “Prof., se ci pensa, comunichiamo lo stesso sui social, anzi è meglio perché di persona ti devi mostrare con la mascherina e si vede che sei ingrassato, mentre nello status di Whatsapp puoi mettere una bella foto con i filtri”, “A casa ti puoi anche non lavare, tanto nessuno se ne accorge!”, “La scuola è forse meglio così”, “Col fidanzato si può parlare in chat o videochiamata”: questi alcuni commenti degli studenti raccolti da una professoressa di un liceo milanese. I “nostri” ragazzi sono naufragati solo un po’ di più: erano già sedati e anestetizzati, c’era già un diaframma invisibile che li separava dal mondo, morivano anche prima di accidia e pensavano che l’amore potesse essere scisso dal corpo proprio e da quello dell’altro corpo giovane. I loro corpi erano già sequestrati dall’amore parentale, abitati ancora da mani famigliari, abituati all’eccessiva prossimità del corpo degli adulti: una continguità che ha fatto decadere la necessità che ogni generazione avesse un proprio mondo ben separato. “La Dad ha rubato la socialità ai ragazzi!”: altro equivoco refrain. La socialità ai ragazzi era stata rubata già prima e all’uscita dal lockdown più restrittivo, molti sono restati in casa, installati nell’inerzia psichica che il domestico comporta.
La
prima generazione senza conflitti aperti con gli adulti sta fermando
il proprio orologio all’ora in cui le mamme possono continuare a
fare le mamme. Una signora ha un lampo di verità durante una seduta:
“ecco perché mia figlia si è arrestata a quella fase! Perché i
miei studi sono specifici proprio di quell’età a cui ora lei è
ferma e io, in cuor mio e senza saperlo chiaramente, non volevo che
crescesse!”. Molte plusmadri lo sono malgrado loro, non perché lo
vogliano davvero: a nessuno piace avere figli spenti alla
vita.
Famiglia
claustrofilica e collettivo hanno finalità opposte: il plusmaterno
famigliare è un danno alla comunità. Anche se ora non sembra perché
una società intera si è claustrofilizzata e i ragazzi hanno fatto
quello che hanno imparato a fare meglio.
Fanno
di tutto per compiacerci, per mimetizzarsi sui nostri desideri. O
meglio sui nostri godimenti. Così come si gode di un bene, gli
adulti contemporanei si godono il corpo dei loro figli, dormendo con
loro anche quando non sono più neonati, spupazzandoli di continuo,
conservandoli nel limbo infantile a portata delle loro mani, da cui
non sono impazienti di vederli uscire. Ho ascoltato anche molti
insegnanti dire che non vedono l’ora di poter riabbracciare i loro
alunni. Ricordo il giorno in cui, mentre tenevo una conferenza sul
plusmaterno per gli allievi di un grande liceo raccolti in aula
magna, la preside girava tra i sedili abbracciandoli e accarezzando
il capo di molti ragazzi, producendo, dato l’argomento
dell’incontro, un effetto al limite del comico. Il corpo dei
ragazzi è il vero, scandaloso oggetto del contendere nella lotta tra
scuola e famiglia. A molti genitori non è parso vero poter veder
esaudito, grazie alla Dad, uno dei loro sogni più oscuri: chi non ha
mai pensato, “mi piacerebbe essere una mosca e vedere cosa succede
nella classe di mio figlio e come insegna questo tal insegnante”?
Molti genitori non si sono schiodati dagli schermi Dad, anche quando
non apparivano direttamente. Vedere le facce dei loro compagni e dei
loro insegnanti! Le loro case, gli oggetti del mondo degli altri su
cui immaginare. Già, le facce: gli studenti a scuola vedono
soprattutto molte nuche, ma in chat tutti di fronte, visi titubanti
che perlopiù si nascondono dal godimento scopico dell’occhio
altrui, anche quello di quell’estraneo che è il genitore di un
compagno.
È forse ora di chiedere linee guida Dad anche per ricreare l’ambiente-classe nella sua essenza di asylum, cioè, etimologicamente, di spazio inviolabile senza diritto di cattura. Nemmeno psichica. La scuola come asylum è quel riparo temporaneo dalla fascinazione della famiglia. Se la scuola soffre, in condizioni normali, delle intrusioni genitoriali persino sulla didattica, occorrono dispositivi di classe o di scuola o ministeriali per evitarle, almeno in epoca Dad, in cui il sequestro del corpo dei ragazzi, da parte delle famiglie, è ancora più pesante. Molti ragazzi sono svogliati nella Dad, ma forse non è il mezzo che inibisce l’apprendimento, è che non si può apprendere a casa: può il sapere diventare esperienza viva nella clausura delle mura domestiche? Il corpo del maestro non è lì a garantire l’asylum, il luogo franco in cui sperimentare più liberamente che a casa. L’evaporazione del corpo del maestro nella Dad è un’eco dell’evaporazione del corpo del padre, di cui parla Lacan. Come precipitato, c’è la casa come corpo della madre.
Cosa resta del corpo del maestro? Il corpo della sua voce. Alterata dalla tecnologia ma non irriconoscibile.
Il virus entra dalla bocca e dagli occhi: come un gran castigatore entra dai bordi pulsionali del godimento. Oltre all’occhio, che però può essere sentito come persecutore, la voce è la gran protagonista dell’epoca Covid-19. Mascherina e Dad lasciano questo resto umanizzante, che ridona forma etica alla relazione a distanza che, così, non è nell’indifferenza.
La
voce del maestro è il luogo del transfert tra maestro e allievo, il
vettore di trasferimento attraverso cui un nuovo amore – simbolico
– per il maestro s’installa sul vecchio amore – simbiotico –
per la madre. Ciò che viene agganciato dal pensiero si fissa solo se
è legato a un momento di vita, a un’immagine, a un profumo e,
soprattutto, a una voce. La voce del maestro non porta solo ciò che
esplicitamente dice, ma soprattutto ciò che non si può dire, un
indicibile, oscuro al soggetto stesso che parla. Nei momenti di
maggior passione in aula, il professor Stoner, mirabile personaggio
del romanzo di John Edward Williams, balbettava. È la non
padronanza, espressa nella voce e nel gesto, che porta Stoner a
trasmettere la vitalità del sapere. Come mai c’è bisogno di
questo trasporto difettoso del maestro, la cui presenza è bucata
dalle sue imperfezioni, perché si dia del transfert, cioè
un’avventura viva nella conoscenza? Ciò dipende dal fatto che il
sapere non è trasparente, non è un intero, non è nemmeno integro:
non è un Uno ma concerne quel vuoto centrale – sostiene Lacan –
cui allude ogni trasmissione autentica. È a causa di questo vuoto
centrale che l’anima dello studente pulsa e gli fa desiderare di
saperne ancora, ancora e ancora. Stoner balbetta: insegna attraverso
l’imperfezione della sua voce. Nel passaggio di un sapere la voce è
cruciale. Essa può porgere ciò che è opaco, non tutto, non integro
perché, essa stessa, non è trasparente, né tutta. È anch’essa
abitata da un vuoto centrale: nessuna voce è veramente familiare,
soprattutto la propria. Ogni voce è bifronte, sappiamo che è
nostra, la riconosciamo, eppure contemporaneamente reca in sé
qualcosa di perturbante che ce la rende anche estranea, per questo su
di essa non abbiamo il controllo che vorremmo. La voce è sempre
“bucata” – come il sapere – sfugge, attraversata com’è da
pulsionalità e da accidenti. È nella sua incertezza e nei suoi
inciampi che la voce rivela ciò che la parola non arriva a dire. Ciò
che non può essere detto “parla” nel transfert. È la musica
vocale del maestro che porta vicinissimo a ciò che non si può dire
ma che la prosodia canta. Legata all’inconscio di ciascuno, la
prosodia vocale non offre solo una nozione ma racconta di come
ciascuno sia attraversato nel suo corpo dal pathos – la balbuzie,
per Stoner – per quel che sta dicendo.
Non
è necessario che tutti gli insegnanti siano così, ne basta uno a
cambiare il corso di una vita.
La vertigine del sapere che si produce al riparo dell’asylum, fa guizzare i corpi. Questo è ciò che, anche a scuola, accade molto più spesso di quanto i nostri pregiudizi ci consentano di pensare, quando non la si frequenta come pura fornitrice di titoli e certificazioni. Anche nel bel mezzo del deserto di una ricezione disanimata, in una classe allo stato psichico inerziale, può arrivare la scintilla che fa vibrare un allievo – anche uno solo – strappandolo all’apatia. Scintilla che si spegne nella scuola plusmaterna, controllante, governata da genitori protocollari che stroncano sul nascere ogni passione e da presidi sempre più preoccupati delle reazioni dei genitori che del futuro degli allievi.
La didattica è così controllata, da parte di alcuni genitori, perché non può essere l’insegnante colui che lascia un segno (in-segnare) sul corpo del figlio. Una tale gelosia verso gli insegnanti, soprattutto quando è particolarmente pervicace, si spiega col fatto che il genitore, inconsapevolmente, sente ora dirigersi altrove il legame libidico che prima riguardava lui solo. Molti sono i bambini che strepitano davanti alla porta dell’asilo perché, nella loro connessione inconscia con la madre, ne captano il desiderio di tenerli stretti a sé. È anche a causa di questo tratto geloso, poco chiaro allo stesso genitore che lo prova, che la voce dell’insegnante non è sufficientemente sostenuta in casa. Supponenza, alterigia, diffidenza o disprezzo possono mascherare la paura di perdere la presa sul figlio e l’idea – insostenibile – che un altro adulto possa occupare, in lui, il posto di riferimento.
Alla fine, che cosa vuole controllare davvero, magari inconsapevolmente, un genitore che s’insinua con insistenza nella scuola? Forse proprio che il corpo del figlio non sia implicato in un sapere capace di offrirgli una seconda vita, una seconda nascita di cui egli non è l’artefice.