I nuovi decreti sicurezza
Non tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e, in assenza di un effettivo riconoscimento dei diritti umani, appena si varca il confine di un altro paese la loro formale inviolabilità si fa retorica. Come noto, la dialettica tra universalità dei diritti e particolarità dell’ordinamento politico chiamato a riconoscere quelle tutele a una comunità di cittadini segna la storia delle diseguaglianze e delle forme di coercizione moderne sin dalla Rivoluzione francese. Come già accennato su queste pagine, c’è un nesso tra le forme di imbrigliamento della forza lavoro, la mobilità delle persone e le protezioni garantite a diversi segmenti della popolazione. Nonostante il senso comune nazionalpopulista si riferisca al tempo presente come a un periodo storico dove la libertà di movimento di merci, capitali e persone va di pari passo, è cruciale registrare la selettività con cui questi diversi flussi vengono gestiti, incanalati e gerarchizzati.
La violenza della “Fortezza Europa” è ampiamente documentata e denunciata, ma piuttosto che analizzare queste manifestazioni di brutalità dal punto di vista della disumanità di chi ci governa e dalla passività di chi si trova a essere governato, ci appare più utile provare a inquadrare questa dinamica all’interno delle contemporanee forme di accumulazione che fanno della mobilità della popolazione, e della divisione della stessa, un essenziale elemento di governo della società e dell’economia. A scontare i danni del regime confinario europeo sono i migranti della periferia dello spazio europeo, così come chi viene da altre zone geografiche dove la vita è più precaria e insicura. Il sogno della cittadinanza europea che avrebbe dovuto disarticolare cittadinanza e nazionalità non si è realizzato e sempre più si va determinando un apartheid europeo, come lo hanno chiamato Étienne Balibar e Sandro Mezzadra, rispettivamente in Noi cittadini d’Europa? (Manifestolibri 2004) e in La condizione postcoloniale (ombre corte 2008). La discriminazione sociale e normativa, la retorica dello scontro di civiltà, non servono a impedire l’ingresso dei migranti ma servono piuttosto a inserirli in una posizione subalterna all’interno delle gerarchie delle economie e delle società europee.
E se parte della violenza discriminatoria delle leggi sull’immigrazione in Italia è condivisa con altri stati-nazione, è pur vero che la normativa italiana è andata, con particolare coerenza, costantemente restringendo diritti e libertà per i non cittadini nel corso degli ultimi trent’anni. Non a caso, anche dopo questa riforma, a resistere è il nesso tra politiche migratorie, di sicurezza e del lavoro. Si vuole, da un lato, produrre forza lavoro precaria e vulnerabile, espellibile all’occorrenza e regolarizzabile nelle emergenze. Dall’altro, si intende riprodurre un’identità nazionale altrimenti fragile ed esposta alla sua contingenza. A tal fine, si strumentalizza il rancore sociale attraverso la logica della priorità nazionale, utile al disciplinamento della società. Per rassicurare le popolazioni impoverite si lascia il residuo di welfare ai soli nazionali, rassicurati sulla superiorità della propria cultura rispetto ai nuovi arrivati o alle popolazioni precedentemente colonizzate. Si crea così un circuito di reciproca legittimazione tra illegalizzazione, discriminazioni a mezzo di legge e pregiudizi e violenze nella società. Poco importa che i migranti siano regolari o irregolarizzati, dato che nel dibattito pubblico sono sempre più identificati come parte della stessa emergenza. Non conta che le persone passino spesso da uno status all’altro, la clandestinità è una condizione considerata ontologica, un sinonimo di propensione alla delinquenza. Tutti sono discriminati perché senza diritti e tutti sono senza diritti perché non meritevoli degli stessi.
La riforma del governo Conte II
La riforma dei decreti sicurezza (il decreto Lamorgese, Dl 130/2020) è stata approvata e segna alcuni timidi passi in avanti. Tuttavia, per far fronte al razzismo odierno – che si manifesta tanto nel discorso pubblico quanto nella pratica istituzionale e amministrativa – servirebbe molto di più. Forse sarebbe stato troppo ambizioso (ma soprattutto ingenuo) aspettarsi che questa dinamica cambiasse con lo stesso premier che ha condotto il governo più a destra della storia del paese. Così come poco c’era da aspettarsi da un partito nazional-populista come il M5S e da un centro-sinistra che da venticinque anni fa politiche sostanzialmente uguali a quelle della destra, di cui condivide lo spirito securitario ma ne attenua la retorica. Non vogliamo negare le differenze che pure intercorrono tra le diverse forze politiche ma tuttavia è importante individuare la continuità nelle politiche migratorie negli ultimi decenni. Se prima della riforma Martelli (1990) la regolazione dei non cittadini era di natura amministrativa – con l’enorme discrezionalità che ne consegue – anche successivamente lo statuto degli stranieri è stato normato in modo da radicalizzare la differenza tra i membri della comunità e gli stranieri. L’esito è stato la negazione dell’eguaglianza che ogni essere umano meriterebbe. D’altronde, come già accennato, la cittadinanza nazionale in quanto tale istituisce una discriminazione legale, che può esser radicalizzata – dietro alla apparente naturalità della differenza nazionale – per via normativa e amministrativa.
La riforma dei decreti sicurezza, pur se con qualche luce, rientra all’interno della lunga tradizione di leggi securitarie e repressive che hanno disciplinato le migrazioni. La “sicurezza”, come specificato dalla ministra Lamorgese, rimane il contraltare con cui bilanciare le timide aperture su alcuni fronti. Non a caso, Luigi Manconi e Federica Resta in Non sono razzista ma (Feltrinelli 2017) hanno qualificato la normativa italiana sull’immigrazione come un diritto asimmetrico e deformalizzato e, in relazione ai decreti Minniti-Orlando – che l’attuale riforma non mette in discussione –, di un diritto etnico, “minore”. Con la riforma non scompaiono le sanzioni alle Ong – che diventano penali e non più amministrative – e aumenta la criminalizzazione di chi si ribella nei Cpr, il tempo di permanenza nei quali si restringe di nuovo a 90 giorni. Il Daspo urbano per selezionare e disciplinare la popolazione viene rafforzato. Rimangono le procedure accelerate di valutazione delle domande d’asilo e la cosiddetta lista dei Paesi di origine sicuri, secondo l’approccio hotspot proposto dal Patto sull’immigrazione e l’asilo che dovrebbe riformare il regolamento di Dublino. Le procedure in questione dovrebbero costituire l’eccezione poiché prevedono una valutazione più rapida e con molte meno garanzie per il richiedente. Anche nella visione della Commissione europea, invece, le nuove procedure diventeranno la regola: si applicheranno quasi a chiunque, salvo minori e persone con patologie gravi. E consentiranno il trattenimento del richiedente fino alla decisione sul rilascio della protezione. L’uso esteso di queste modalità di esame comporterà un aumento dei dinieghi delle richieste e, di rimando, contribuirà ad aumentare il numero degli stranieri irregolari, delle domande reiterate di protezione internazionale e dei contenziosi nei tribunali.
Così come con la riforma rimane la norma sulla revocabilità della cittadinanza. Si accorciano “in compenso” i tempi per il rilascio della cittadinanza che però sono comunque più lunghi di quanto lo fossero prima della riforma di Salvini. L’aspetto più importante forse consiste nell’introduzione della protezione speciale e nell’ampliamento dei casi di inespellibilità, che riguarderà chi abbia una vita privata e familiare consolidata in Italia così come chi rischi di subire trattamenti inumani e degradanti nel paese di origine: una protezione che ricalca (e non riproduce) quella approntata dal permesso di soggiorno per motivi umanitari, abrogato dal primo Governo Conte. Inoltre, sarà possibile convertire la protezione speciale, insieme ad altri permessi temporanei, in un permesso per lavoro, ed è stato tolto il tetto massimo alle quote del decreto flussi sugli ingressi per motivi di lavoro. Novità importanti che, tuttavia, riflettono le debolezze di un sistema basato su fondamenta fragili. Per ottenere un permesso di soggiorno per lavoro, è necessario dimostrare di percepire un reddito minimo da lavoro regolare di quasi 6mila euro. Molto difficilmente gli stranieri in possesso dei permessi di soggiorno ora convertibili grazie alla riforma riusciranno ad accedere alla domanda di conversione. Ciò accentuerà la già diffusa precarietà determinata dai titoli di soggiorno di breve durata, rinnovabili in base a una valutazione discrezionale della Pubblica mmministrazione, come ad esempio il perdurare delle condizioni che hanno portato al suo rilascio. Viene ripristinata l’accoglienza per i richiedenti asilo, nonché l’iscrizione anagrafica – che recepisce da un lato una sentenza della Corte costituzionale ma dall’altro la subordina al volere degli operatori dell’accoglienza, come rilevato da Enrico Gargiulo su “Napoli Monitor”. Il “nuovo” Sai (Servizio accoglienza e integrazione) sulla carta accoglie tutti ma di fatto differenzia i servizi erogati. Per esempio, per i richiedenti asilo non sono previsti l’orientamento al lavoro e la formazione professionale. In Italia, dove l’esame di una domanda di asilo può richiedere fino a più di un anno, non supportare l’inserimento lavorativo di una persona che sarà chiamata a beneficiare dell’accoglienza per quel periodo appare spiegabile in un solo modo: dietro alla retorica sull’accoglienza si vuole produrre forza lavoro ricattabile.
In definitiva, questa riforma, pur introducendo alcune norme positive, non interviene sull’inferiore considerazione della vita di chi non è cittadino. Restano la detenzione arbitraria nei Cpr e negli hotspot, l’assenza di canali umanitari e di visti d’ingresso per la ricerca di lavoro, il proseguimento della stigmatizzazione delle Ong e gli accordi con la Libia – nonostante non sia seguita né una condanna, né un indizio di colpevolezza alle inchieste della magistratura e, come noto, la situazione libica sia ancora estremamente pericolosa per chi si trova lì. Così come rimangono la minore tutela delle procedure di domanda d’asilo rispetto a qualsiasi altro processo, nonché l’enorme discrezionalità lasciata a sindaci e questure nel determinare le sorti di chi vive o transita in questo paese. Anche in questa riforma, si può facilmente constatare come il ricorso alla privazione della libertà personale degli stranieri sia una costante del nostro ordinamento. Nel corso di venti anni, ai Cpt (Centri di permanenza temporanea) della Turco-Napolitano, sono seguiti i Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio) del Decreto Minniti -– Orlando, passando per i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) del decreto Maroni (pacchetto sicurezza). E le ipotesi di trattenimento sono state progressivamente ampliate. È dal 1998, insomma, che la legislazione in materia resta ispirata a un approccio esclusivamente repressivo e, di fatto, detentivo. La privazione della libertà personale non avviene con la convalida di un magistrato, a seguito di un processo, ma è semplicemente una misura che colpisce, in modo automatico, uno status, una condizione personale e non un comportamento, ossia l’assenza del permesso di soggiorno o di visto di ingresso.
Una popolazione “in eccesso”
I confini sono porosi e le persone arrivano ma l’accesso deve essere pericoloso e il rischio di venir deportati, così come l’esperienza della detenzione, devono segnare l’orizzonte di senso di chi accede allo spazio europeo. Nel dibattito sull’immigrazione, la dignità umana di chi vive la violenza dei confini, esterni e interni, polizieschi e amministrativi, è una posta in palio, non un dato di partenza. Le violenze subite dai migranti lungo la rotta balcanica a opera delle forze di polizia croata e slovena sono solo uno degli effetti delle modalità di “protezione” che l’Europa ha messo in campo. D’altronde Frontex, l’agenzia europea della guardia costiera e di frontiera, è coinvolta nei respingimenti illegali dei migranti nel mar Egeo.
L’umanità di chi muore ai confini d’Europa – a Ventimiglia, così come nel Mediterraneo o nei Balcani – è negata dai decisori politici che senza troppe difficoltà, e con diversi livelli di violenza, pagano milizie e forze di sicurezza per trattenere parte della popolazione “in eccesso” a distanza di sicurezza. Quando arrivano in Italia – su navi spesso tenute fuori dai porti anche sotto il governo Conte II –, con il pretesto della pandemia, possono essere rinchiusi in navi-lazzaretto e messi poi nei Cpr senza poter fare domanda d’asilo, pronti per l’espulsione. Oltre al razzismo istituzionale a cui larga parte della popolazione migrante è quotidianamente esposta, nel corso dell’emergenza sanitaria molti cittadini stranieri hanno visto aggravarsi ulteriormente le discriminazioni. I migranti senza dimora o che vivevano in contesti informali, a prescindere dalla regolarità del soggiorno o meno, hanno riscontrato notevoli difficoltà nell’accedere alle prestazioni sanitarie. Una delle ragioni è legata alle conseguenze del decreto sicurezza e riguarda tutti quelli che non hanno più potuto rinnovare il permesso di soggiorno per motivi umanitari, che sono così entrati in una condizione di irregolarità, non potendo quindi più iscriversi al Servizio sanitario nazionale, né avere un medico di base. Un altro problema ha riguardato la difficoltà di tutti coloro che abitano in insediamenti o occupazioni ad accedere alle misure di prevenzione e contenimento del contagio – come mascherine o tamponi. Durante il periodo di lockdown sono stati isolati, molto spesso in condizioni igienico-sanitarie del tutto inadeguate. Solo l’intervento della società civile ha potuto – parzialmente – supplire a ciò, attraverso campagne di informazione, sensibilizzazione e distribuzione di materiale necessario alla tutela della salute. La parziale sanatoria di maggio infatti – così come le recenti dichiarazioni di Arcuri sui clandestini che non potrebbero venir vaccinati – indicano chiaramente come la popolazione senza cittadinanza veda riconosciuta una parziale dignità solo in funzione del suo valore. Si può, selettivamente, ricorrere ad alcune forme di regolarizzazione dei migranti irregolari per ragioni di sicurezza di una parte dei residenti sul territorio nazionale e per le esigenze di alcuni settori dell’economia (l’agricoltura e il lavoro domestico). Altrimenti essi vanno tenuti in una posizione subalterna che si stratifica secondo le diverse condizioni giuridiche concesse.
Non a caso, con la riforma, il vincolo tra lavoro, reddito e status giuridico rimane intatto. L’esclusione legale o de facto dai diritti fondamentali di chi non ha la cittadinanza non diviene – come servirebbe per configurare la “rivoluzione” di cui le forze della maggioranza parlano – l’ingiustizia da interrompere. D’altronde le parole della ministra che hanno accompagnato la riforma non lasciano dubbi: il pur necessario accoglimento delle minimali indicazioni del presidente della Repubblica e delle sentenze della corte costituzionale va bilanciato da una maggior severità nella repressione di chi si rivolta nei Cpr. Tra politica dell’eguaglianza e polizia, si propende per la seconda.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini. |