I dannati: una conversazione con Roberto Minervini
Pubblicazione su concessione Okta Film e Pulpa Film. Traduttrice Claudia Vettore
Tutti i suoi film precedenti erano ambientati nell’America di oggi. Cosa l’ha attirata alla storia passata e al genere del film di guerra?
Ho sempre avuto un problema con i film di guerra in ragione degli archetipi che vi sono presenti: l’idea della giusta causa, il bene contro il male, la vendetta, l’eroismo. Non c’è mai stato un approccio che definirei umano. Al contrario, sono presentati archetipi che diffondono idee e credenze false sulla guerra. Mi sembra assurdo che le persone tendano a fidarsi di un governo (soprattutto qui negli Stati Uniti, ma non solo) in materia di guerra e difesa. La guerra diventa così un elemento intoccabile e l’eroismo della guerra diviene qualcosa di sacro.
Le sue riserve mi ricordano una citazione di François Truffaut, che diceva che ogni film sulla guerra finisce per essere a favore della guerra. È in sintonia con il suo pensiero?
Sì, sono assolutamente d’accordo. Anche i film che rappresentano la tragedia e l’autodistruzione enfatizzano il martirio e il sacrificio. C’è sempre una ragione o una giustificazione, un’idea che rende la guerra perversamente sacra, addirittura divina, inafferrabile. Eppure, la guerra è probabilmente l’evento, l’esperienza più disumanizzante che esista. Non so se il mio obiettivo in questo caso sia stato quello di realizzare un film contro la guerra, ma ho voluto sottolineare alcuni aspetti personali del viaggio, piuttosto che concepire la guerra come qualcosa che esiste al di sopra e al di là dell’individuo.
È interessante che porti il suo sguardo agli anni ’60 del XIX secolo dopo una serie di film sul Sud dell’America di oggi. La Guerra Civile Americana non è solo un momento determinante della storia degli Stati Uniti, ma anche un periodo in cui molti dei temi che animano gli altri suoi film sono presenti in forme anteriori, in particolare le paure e i risentimenti legati alla razza, alla classe e alla religione.
Questo film è senz’altro fortemente influenzato dal mio lavoro precedente e dalla mia esperienza di vita ultradecennale nel Sud. È stata una scelta molto consapevole quella di tornare a un momento in cui sono state piantate molte di queste radici: la grande divisione tra Nord e Sud, il cristianesimo, una sorta di mascolinità tossica. Volevo capire come queste problematiche persistono, perché c’è ancora molta nostalgia per la Guerra Civile, come quel periodo ha dato forma a un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni. Volevo che il film si riallacciasse all’esperienza di persone che sono state lasciate in un limbo durante la guerra, nel mezzo di una transizione da valori molto conservatori a una nuova società: persone che non sapevano nemmeno in nome di cosa stessero combattendo. Molti nell’esercito americano erano mercenari che si erano arruolati senza comprendere appieno la causa. Con un Paese in crisi, le persone si sono schierate, a volte in modo geografico, a volte in modo opportunistico. L’approccio in questo caso è stato quello di mettere un gruppo di persone nel bel mezzo del nulla, o meglio nelle terre selvagge del Montana, e lasciarle lì a cercare di capire che cosa ci facciano.
Perché ha ambientato il film nel West? È una parte del Paese che di solito riceve meno attenzione nei resoconti della Guerra Civile, ma è anche un tempo e un luogo che porta con sé un altro genere, un’altra mitologia, quella del western.
Era importante che la pesantezza della storia non fosse troppo oppressiva. Questi interpreti sono un gruppo di osservatori ai margini, quasi come se stessero guardando sé stessi, che è anche una battuta del film. Sarebbe stato completamente diverso se si fossero trovati in Virginia, ad esempio. Ho voluto liberarmi un po’ del peso della storia per facilitare questo viaggio esperienziale, per permettere a qualcosa di più catartico e primordiale di nascere da dentro e da questi individui. Per quanto riguarda il Montana e l’Old West, il 1862 è l’anno in cui iniziò la corsa all’oro. È una terra ancora incontaminata, ancora territorio del Dakota, ma sta iniziando qualcosa di più grande che trasforma l’idea del per chi e contro chi si sta combattendo. Volevo posizionarli in un luogo che fosse quasi una vedetta, senza il peso e la responsabilità di rappresentare questa guerra; allo stesso tempo, questa terra ha significato tanto in termini storici, e certamente per le guerre indiane americane. È un luogo speciale, energicamente e, potremmo anche dire, spiritualmente.
Lei ha sviluppato un processo molto particolare nei suoi film, in cui le modalità della finzione e del documentario si intrecciano in maniera produttiva. Porta avanti il suo lavoro in modo collaborativo con i suoi soggetti: da un lato vengono osservati dalla macchina da presa, dall’altro questa rappresenta il pubblico nei confronti del quale si esibiscono. Quanto di questo processo è stato in grado di conservare in questo film, considerata la diversa cornice narrativa?
Direi quasi tutto. Il mio metodo di lavoro è rimasto essenzialmente lo stesso, utilizzando situazioni di finzione e momenti di osservazione. Una cosa che ho sempre fatto è usare ogni elemento, che sia di finzione o organicamente presente, come uno strumento per approfondire l’esperienza. Può trattarsi di uno spunto emotivo, della temperatura, del guardaroba, e il modo in cui questi elementi sono presenti e si ripercuotono sullo stato emotivo dei personaggi contribuisce alla storia. Non ho scritto nulla e non sono partito con un’idea chiara della storia. Ma avevo ben in mente, come per tutti i miei film, come ci saremmo mossi strutturalmente. Sapevo che, poiché la guerra consiste di una serie di battaglie, ci sarebbe stato un prima, un durante e un dopo la battaglia. La seconda parte è stata modellata sulla base della battaglia. Alcune decisioni sono state prese davvero all’ultimo minuto. La decisione di mandare quattro uomini da soli e di trasferirli a due ore di distanza è stata presa la sera prima. L’obiettivo finale era quello di assicurarmi che il mio modo di lavorare si adattasse all’aspetto narrativo del film e non lo indebolisse. Dal momento che eravamo più nell’ambito narrativo, nel film di genere, questa volta l’estetica è cambiata un po’. C’è un’immobilità, una fissità della macchina da presa che è stata fisicamente impegnativa, soprattutto per il clima rigido e perché si tratta di un film interamente in esterni. Durante le riprese mi sono venuti dei calcoli renali a causa della disidratazione. La dimensione fisica dell’esperienza è stata molto più evidente che negli altri film.
Spesso i suoi collaboratori sono il frutto di relazioni esistenti o di un processo esplorativo prolungato. Come ha messo insieme il cast di questo film?
Ho portato con me alcune persone con cui avevo lavorato [membri della famiglia Carlson che hanno partecipato a Ferma il tuo cuore in affanno]. Dal momento che stavo facendo il salto verso qualcosa decisamente nella finzione, ho sentito il bisogno di avere degli alleati su cui poter contare. Nel film ci sono anche alcune persone che hanno esperienza in campo artistico, con un background letterario o di spettacolo, come Jeremiah Knupp, che ha partecipato a un mio cortometraggio di 20 anni fa. Poi siamo andati a Helena, nel Montana, e ci siamo rivolti alla comunità locale. Abbiamo fatto un invito aperto, dicendo che chiunque era libero di partecipare. Si sono presentati molti membri della Guardia Nazionale di stanza in Montana. Un gruppo di vigili del fuoco è venuto e ha partecipato per qualche ora. Mi sta molto a cuore che, nei miei film, le persone vadano e vengano, mi piace l’idea che non si possano identificare gruppi specifici, non si possano circoscrivere. È la bellezza di un casting a porte aperte, che ha i suoi svantaggi perché tutto deve essere costantemente rimodellato. Ho dovuto allontanarmi da ciò che pensavo di fare e prendere altre strade perché i personaggi non funzionavano. Ma conosco bene questo processo. Questo modo di lavorare significa che il film è in continua evoluzione e in costante movimento. Il punto è vivere l’esperienza collettivamente, e c’è una selezione naturale dei personaggi durante le riprese. Quelli che arrivano alla fine sono quelli che si impegnano di più, e si crea una sorta di simbiosi tra loro, me e l’ambiente.
A proposito della battaglia, vorrei la sua opinione sulla rappresentazione comune dei combattimenti nei film, e vorrei sapere che tipo di linguaggio cinematografico lei ha voluto usare per ritrarre il combattimento.
Avevo alcuni punti di partenza. Uno è stato quello di comportarmi sempre come un reporter che segue le persone al centro dell’azione, adottando il loro punto di vista e il loro campo visivo. In secondo luogo, in battaglia la cosa più importante è non essere visti, quindi non ho voluto mostrare alcun momento in cui si vede il nemico in uno scontro ravvicinato: volevo che i nemici fossero nascosti, proprio come noi. In terzo luogo, volevo abbandonare l’idea del fronte, che di solito è molto importante quando si mostra e si pensa alla guerra. La prima linea ci dà l’idea di un attacco ordinato, di competenza. Questo ci rassicura, ma è la prima ipotesi che va in frantumi perché il caos regna sovrano ed è assolutamente impossibile individuare la provenienza dei colpi. La mancanza di visibilità del nemico e la perdita della percezione del tempo e dello spazio erano importanti.
Ha discusso molto di politica e della Guerra Civile con i suoi attori? Ha lavorato con loro in modo diverso rispetto ai suoi collaboratori in altri film?
Se dovessi tornare indietro e decodificare quello che dicono i personaggi, tutto deriva da esperienze personali. Quello che trovo interessante quando lo rivedo è che i ragazzi partono dalle loro esperienze e dalle loro riflessioni (chi sono, perché sono qui e come mi sento a questo proposito) e poi le riportano alla Guerra Civile, portando avanti continuamente questa dialettica. La differenza rispetto agli altri film è che questa volta ho lavorato per omissione, in un certo senso. Ho abbandonato i miei personaggi, assicurandomi di non essere necessariamente il punto di riferimento, colui che dispensa saggezza e consapevolezza su ciò che stiamo facendo. Ho fatto il contrario: ho allestito un campo, mi sono assicurato che ci fossero le provviste e li ho lasciati da soli a capire cosa fare dell’esperienza e del processo, il che credo abbia provocato in loro uno shock emotivo. Non ho chiesto loro di arrivare sul set con una conoscenza della Guerra Civile. Ma ero fiducioso che alcuni di loro lo avrebbero fatto e quindi avevano tutti diversi gradi di conoscenza, e anche questo è stato utile, perché rispecchia la realtà e crea una dinamica interessante. C’era una leadership che si occupava della logistica delle riprese, ma non di nessuno di loro individualmente. Non si è trattato di un approccio paternalistico. L’ho fatto perché il film lo richiedeva, in un certo senso, e anche perché sapevo che avrebbero potuto apportare un grande contributo rimanendo da soli.
Qual è il significato del titolo del film per lei?
È stato il primo elemento. C’è un aspetto ludico, fa un po’ Sergio Leone, sembra molto di genere. È anche un po’ un omaggio a un gruppo punk-rock che mi piace. E poi c’è l’idea che una volta che si entra in guerra, una volta che si affronta una battaglia, è la fine di qualcosa, si è come condannati. Dannazione contro condanna: c’è anche una forte componente religiosa che è parte integrante della Guerra Civile. Quindi è un titolo che rimanda al genere ma anche a un’esperienza religiosa superiore, messa in discussione nel film.
I suoi film hanno sempre esplorato la psiche americana contemporanea. Quanto hanno pesato per lei le circostanze del presente mentre lavorava al film?
La pertinenza del film rispetto al presente è certamente accentuata oggi. L’ho concepito nel 2020 e l’ho girato nel 2022, e forse il mondo era leggermente diverso qualche anno fa, ma mi sono trasferito a New York 11 mesi prima della caduta delle Torri Gemelle e la presenza della guerra come male presumibilmente necessario è stata una costante della mia esperienza di vita in America. Il fatto che la guerra rappresenti una fetta enorme dell’economia statunitense, il fatto che alcune persone si sentano sicure e protette attraverso la guerra, il fatto che ci sia una fede cieca nella guerra che ignora il conteggio dei cadaveri, il fatto che ci sia una macchina economica che giustifica la perdita di esseri umani – tutto questo era molto presente, soprattutto vivendo nel Sud, e mi turba molto. Questo è un film che in un certo senso racconta la mia esperienza come cittadino americano.