I “buoni” secondo Rastello
Forse solo Luca Rastello poteva regalarci il romanzo più atroce e più bello sulle ambivalenze dell’agire umanitario, sull’inconfessabile che agita e opacizza il volontariato organizzato, sul torbido delle fabbriche del bene. Perché Luca Rastello lo conosce da vicino, ha lavorato per il Gruppo Abele di Torino, ha diretto Narcomafie, prima di prendere la strada del giornalismo professionistico a più ampio spettro e rinunciare definitivamente a quella vita, la vita che così lucidamente descrive nel suo libro.
“I buoni” è il titolo azzeccatissimo (forse meno la copertina, pur firmata da un bravissimo designer come David Pearson) di un romanzo appena edito da chiarelettere, e come nei film che lasciano il dubbio sul realismo dei riferimenti si precisa che fatti e personaggi sono frutto dell’immaginazione. Così pure l’editore, noto per i libri di inchiesta affidati a giornalisti di fama, lo accoglie nella collana narrazioni, anche se l’epitaffio della collana è una famosa frase di Hunter Stockton Thompson in cui si celebra la fiction come la forma più veritiera di giornalismo. Insomma è un romanzo, tutto è di fantasia, ma questa è la Torino dei giorni nostri, l’”indovina-indovinello” sulla gigantesca organizzazione di volontariato e servizi di welfare al centro della vicenda è fin troppo facile, e soprattutto su chi sia alla sua guida, un Don Silvano col maglione liso, che combatte contro le mafie, sotto scorta, che parla a occhi chiusi con uno stile da profeta, amico dei potenti, e così via. E molto altro di quel che si racconta si presta al gioco divertente di chi o cosa sia la fonte di ispirazione, diciamo così, ma Rastello parla di oggi e di noi, nessun dubbio.
Per rispetto del romanzo, appunto, della vicenda diciamo l’essenziale. La storia traccia un percorso che altrimenti raccontato si direbbe di salvezza, di chi vive i sotterranei di una città che si immagina Bucarest – popolata da bambini e ragazzi senza casa e senza famiglia, costretti ad un regime di violenza e lotta per la sopravvivenza nelle fogne e per strada, sotto l’effetto quasi costante dei fumi dell’Aurolac, il celebre solvente per vernici respirato da sacchetti di plastica – e approda ad una nostra città che si direbbe Torino, città dell’impegno civile, dell’antimafia, dell’aiuto ai tossicodipendenti e ai malati di aids. Misurato col metro delle categorie canoniche del bene e del male la parabola non lascerebbe dubbi: là stupro, strada, sopraffazione, annichilimento, conto alla rovescia per la propria morte e qui casa, volontariato, aiuto agli altri, militanza e sacrificio personale per le grandi battaglie civili. Ma Luca Rastello ci propone di guardare la vicenda attraverso la lente di Aza, una ragazza forte e dura che vive in quell’Underworld, perché è lei il personaggio principale, è lei che compie il viaggio inseguendo l’incanto dell’incontro avuto con Andrea e Mauro, due operatori umanitari impegnati in un progetto per aiutare i bambini che vivono nelle fogne. E Aza, appunto, arriva a Torino scappando dal suo destino già segnato, ritrova i due, e inizia una nuova stagione di vita, in cui trova una casa, l’amore di Andrea, il lavoro nella sua grande organizzazione di volontariato, i primi soldi guadagnati, attenzioni e cure mai ricevuti, una qualità della vita incomparabile. Di più, Aza è brava, apprende rapidamente, è notata e apprezzata, e farà carriera dentro l’organizzazione, con mansioni via via più importanti, fino a sedere nel consiglio di amministrazione. Ma la vicenda non si chiude così: cosa c’è che non va, perché la storia di Aza non è un “caso di successo”, come si dice nel marketing aziendale, perché il finale molto potente – che non sveliamo – non è quello zenith di salvezza che altrimenti si potrebbe vedere nella sua apparente integrazione nella onlus che la accoglie e le dà da vivere?
Il problema è proprio la onlus, l’organizzazione senza scopo di lucro, il suo funzionamento, il suo leader, i suoi inconfessabili meccanismi interni. Insomma, il problema è proprio la fabbrica del bene, che Aza a poco a poco fiuta e riconosce come cinica, fasulla, ipocrita, violenta. Le pagine che svelano la sua natura sono ancora più belle di quelle sulla crudeltà dei bassifondi di Bucarest, le annotazioni sul linguaggio e i rituali non lasciano scampo e d’ora in poi chi legge il romanza farà fatica a credere a quanto vede in televisione o in piazza, se riconosce quei tic e quegli schemi in chi parla, in chi chiama all’impegno, in chi lancia enfaticamente una battaglia. La onlus del romanzo, dal fantastico nome “In punta di piedi”, è costruita infatti attorno ad un leader, anzi ad un guru diremmo noi o ad un santo si direbbe all’interno della sua organizzazione, che è don Silvano, prete dall’aspetto affranto, costantemente molto impegnato, immerso nel proprio personaggio di salvatore di anime, di soldato al fronte nelle mille battaglie per la legalità, amato dai potenti, orgogliosamente sotto scorta. Ma don Silvano è uno che si fa scrivere i discorsi per affilare la retorica, che studia il linguaggio per colpire la gente, che usa sempre nomi, numeri e morti per essere sicuro dell’impatto emotivo, che usa espressioni allusive e evocative, vaghe promesse e minacce per sfuggire al tangibile e verificabile. Don Silvano seduce le folle, seduce collaboratori e soprattutto collaboratrici rapiti dalle sue formule magiche, dalle parole incantatrici: “la strada”, “la frusta dell’oltre”, “metterci la faccia”, “sporcarsi le mani”, “senza se e senza ma”, “il primato della persona”, “la condivisione”, “costruire speranza”, “il passo lento del montanaro”, “le legalità”, “i muri che parlano e restituiscono memoria”, ecc. È così che si forma il ricatto, quella condizione di ostaggio in cui restano invischiati diversi personaggi del libro e che ben conoscono gli operatori del terzo settore, ovvero il lavoro senza diritti e senza orari, l’incertezza della retribuzione e del riconoscimento, il servilismo o l’adorazione per garantirsi un posto, la precarietà di ruoli e funzioni continuamente riconfigurati da leader e capi su criteri poco trasparenti, perché sotto l’insegna del bene passa tutto, e le “grandi cause” legittimano ogni meschinità dietro il sipario della retorica.
La onlus è di fatto un mostro del nostro tempo, una forma di gigantismo organizzativo cresciuta attorno al suo guru, che incamera beneficenza e beni confiscati senza poterli o saperli gestire, arreda sontuosamente nuovi spazi per monumentalismo del capo, inganna sistematicamente persone nell’illusione di un posto, fa proseliti fra i potenti per tappare crescenti buchi di bilancio. Ma è un mostro perché cade nelle peggiori degenerazioni aziendali: i finanziamenti illeciti, i licenziamenti improvvisi – e qui Rastello è sublime, perché don Silvano insiste sul fatto che “In punta di piedi” non lascia a casa, “accompagna” – la fascinazione per i manager tuttofare e tagliatori di teste, il marketing più bieco perché tutto votato al ricatto emotivo sul bene, il cinismo delle seconde file, ovvero quei “moschettieri” come nel libro si chiamano i capi e i coordinatori della rete della legalità, immersi nell’organizzazione delle grandi campagne mediatiche, ma di fatto loschi trafficanti di finanziamenti, carrieristi della politica e soprattutto sfruttatori delle ragazzine sparse per l’Italia arruolate alla causa, che si perdono nella fascinazione di questi piccoli leader e che loro sistematicamente seducono e abbandonano, pescate dal mucchio ad ogni “carovana” per questo o per quello.
I “buoni” sono pessimi, o meglio i buoni sono altri, come fa intendere il libro vanno cercati se proprio si vuole fra chi il male l’ha vissuto, fra chi non noteresti, soprattutto da chi non ne fa il proprio vessillo, e questo certamente – se lo si accogliesse come lezione – azzererebbe gran parte dei flussi di stima e denari (5*1000, campagne mediatiche, testimonial di grido, ecc.) che oggi governa la produzione organizzata e su scala industriale del bene. Ma Rastello ci dice anche altro, affida ad Andrea la spiegazione del mistero: don Silvano alla fine è un prodotto del nostro tempo, non è che un testimonial di una merce di massa, ovvero l’anestesia collettiva che ci consente di vivere con il male e di reggere la nostra impotenza. L’umanità, spiega Andrea, qui non ha la forza e il tempo per combattere, per assumersi l’impegno delle proprie battaglie, è vigliacca o sopraffatta, così non le resta che affidare ad altri quella missione e accecarsi di fronte alle conseguenze perverse che ne derivano. Nessuno metterà in discussione don Silvano perché è la nostra consolazione, ovvero la nostra sconfitta per non volere o non poter accettare di fare del bene un compito personale.