Grazia Honegger Fresco, dalla parte dei bambini
Non è semplice scrivere in tutta fretta, prima della chiusura di questo numero degli Asini, un ricordo di Grazia Honegger Fresco, punto di riferimento pedagogico per molti dei gruppi di intervento sociale che gravitano intorno a questa rivista. Lo scorso 30 settembre, a 91 anni, Grazia è morta nella sua casa di Castellanza, vicino a Varese. E lo ha fatto “per bene”, come per bene sosteneva si dovesse lavorare sempre con i bambini, ovvero preparandosi e curando tutti i dettagli di contesto, almeno quelli che sono sotto il nostro controllo. Il resto, Grazia era convinta di questo, lo fanno le forze vitali della natura, tanto al momento della nascita, quanto in quello della morte.
Procedo in maniera confusa preferendo ai ricordi personali la ricostruzione, disordinata e incompleta, di alcuni degli snodi della vita e della formazione di Grazia, che ho avuto la fortuna di sentir raccontare direttamente dalla sua voce nelle giornate trascorse con lei a Castellanza, a Nervi o nelle iniziative pubbliche organizzate da Goffredo Fofi, quando il corpo ancora non la imprigionava in casa.
I ricordi personali li liquido in fretta, citando uno degli insegnamenti che ho ricevuto da lei: la complessità, nel pensare o nello scrivere, mi ha detto una volta, non è sempre indizio di profondità di intelletto o di persuasione morale, ma, più spesso, di confusione di idee. Sono le idee chiare quelle che si esprimono con più forza, chiarezza e immediatezza. Ecco, a parlare con Grazia di bambini, di scuola e di educazione si aveva sempre l’impressione che il suo argomentare procedesse non sulla base di costrutti teorici, che pure non le mancavano, ma avendo in mente, e per così dire davanti agli occhi, le centinaia, forse migliaia di bambini con cui aveva lavorato nella vita, che aveva visto crescere, che aveva osservato e da cui si è sempre lasciata ammaliare.
Se non fosse per la cattiva (e meritata) fama della pedagogia italiana, non avrei dubbi a pensare a Grazia come la più importante pedagogista dell’ultimo quarto del Novecento, come la persona che più di chiunque altro ha lavorato per dare fondamento pratico e teorico a una rinnovata “cultura dell’infanzia”, in particolare della prima infanzia, dalla gravidanza ai primi anni di vita del bambino. Lo ha fatto attraverso la sua esperienza diretta di assistente alla nascita, educatrice, direttrice di case dei bambini e scuole elementari e, fino a tre giorni prima della morte, attraverso la sua instancabile opera di formatrice, scrittrice, redattrice, polemista. Da quando ho conosciuto Grazia, all’inizio del 2004, ho l’impressione che non sia passato giorno che lei non abbia in gran parte dedicato alla riflessione, alla scrittura, all’organizzazione di corsi e formazioni, intorno al tema dell’infanzia.
La matrice “scientifica” per certi versi “positivista” della pedagogia di Grazia si calava in un orizzonte socialista, libertario, laico, intriso al contempo di una profonda spiritualità. Da dove le veniva questa prospettiva così personale, libera, ampia e per certi versi anomala all’interno del movimento montessoriano? Non soltanto da Maria Montessori, sebbene sia stata una delle sue ultime allieve dirette nonché sua più importante, instancabile e fedele divulgatrice.
Due sono gli aspetti che mi sembra importante sottolineare nella formazione di Grazia e di conseguenza nel suo approccio ai bambini e all’educazione: da una parte la dimensione sperimentale e dall’altra la varietà delle “scuole” che ha incontrato nella vita, da cui si è lasciata influenzare e che ha saputo miscelare, con grande libertà, alla sua vena ispiratrice fondamentale, quella montessoriana.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la dimensione sperimentale, insito se si vuole nel metodo stesso della Montessori (che, ricordiamo, era e medico e scienziato), è da rintracciare nell’impostazione delle scuole di pedagogia e scienze sociali più vive e attive che animarono il secondo dopoguerra italiano. Impostazione che si basava su una compenetrazione molto forte di teoria e pratica, oggi completamente abbandonata dalle moderne scienze sociali e della formazione.
La Scuola assistenti all’infanzia, che Grazia ha frequentato per due anni dopo il liceo, prevedeva intense lezioni d’aula, gestite tra gli altri da Adele Costa Gnocchi – figura fondamentale per la sua formazione e per tutto il movimento Montessori – ma anche lunghe osservazioni nei brefotrofi o nei reparti di ostetricia degli ospedali romani. I primi erano grandi e a volte terribili istituti di origine ottocentesca, “aperti” soltanto molti anni più tardi sulla spinta della riforma psichiatrica, dove venivano segregati bambini orfani, abbandonati, ma anche disabili (o che le condizioni materiali di vita dell’istituto rendevano tali). Grazia raccontava spesso come ancora in quegli anni fosse diffusa l’idea che quei bambini fossero il frutto della colpa e l’abbandono una sorta di espiazione. Da qui l’accettazione rassegnata per il destino di solitudine e dolore cui i bambini andavano incontro negli istituti. E invece la Costa Gnocchi spingeva Grazia e le giovani allieve della scuola a osservare le differenze tra i piccoli, a scoprirne i diversi comportamenti, a ricercarne le cause nell’ambiente e nelle relazioni che ognuno, in modo diverso, instaurava. Tutto questo veniva poi riportato “in aula”, insieme a lezioni più teoriche e frontali, e lì si discuteva di quanto visto e fatto “sul campo”, si progettavano nuovi interventi, si pensavano e costruivano materiali utili in quei contesti.
Le altre osservazioni avvenivano nella piccola scuola dei bambini che Costa Gnocchi aveva aperto a pochi passi da Piazza Navona (come la scuola-laboratorio che John Dewey fondò a Chicago, annessa alla sua cattedra universitaria di pedagogia: in quegli anni si faceva così) o nei turni di notte nei reparti di ostetricia ad accompagnare e ad assistere ai parti. Ricordo un racconto di Grazia su due simpatiche ostetriche del San Camillo che, nelle notti più tranquille, la portavano nei sotterranei dell’ospedale, dove c’erano degli enormi stanzoni pieni di vasche e dove facevano lunghi bagni caldi insieme. È durante quei bagni che Grazia diceva di aver intuito cosa significasse per i neonati passare da un elemento a un altro, dal freddo al caldo, e viceversa. Intuizioni che poi ritrovò anni dopo negli studi di Frédérick Leboyer o di Michel Odent.
Alcune delle pagine più intense del libro che Grazia ha scritto su Adele Costa Gnocchi (Radici nel futuro, La Meridiana, forse una delle sue opere più belle) sono proprio quelle che dedica al lavoro umile (e in alcuni casi probabilmente umiliante) che la sua maestra portò avanti con dedizione per cambiare gli atteggiamenti e le procedure di medici, pediatri e primari i quali guardavano lei e le sue giovani allieve come sprovvedute fanatiche, intente a invadere un campo, quello scientifico, intorno al quale avevano costruito la loro roccaforte.
La formazione di Grazia è stata indubbiamente e per così dire radicalmente montessoriana: a partire dalla scuola annessa (per i tirocini delle allieve) alla Regia Scuola di Metodo Montessori che lei stessa frequentò da bambina; alla Scuola per assistenti all’infanzia, di cui seguì i primi corsi, fondata dalla Costa Gnocchi per formare le educatrici che avrebbero accompagnato le madri durante il parto e le prime settimane di vita dei bambini; al Congresso internazionale di Sanremo, dove incontrò per la prima volta Maria Montessori; al diploma di maestra ottenuto, tra il ’50 e il ’51, in uno degli ultimi corsi tenuto dalla Montessori stessa; ai tre corsi nazionali in cui fu assistente di Giuliana Sorge; alla carica di presidente del Centro nascita Montessori di Roma che ha ricoperto per circa vent’anni. Ma al tempo stesso, credo che la libertà con cui Grazia guardava ai bambini e alla relazione educativa le veniva anche da un’altra “scuola” – antiautoritaria, decentrata, democratica e sperimentale – costituita dai movimenti e dai gruppi di intervento sociale che diceva di aver frequentato con altrettanto arricchimento, tra l’inizio degli anni Cinquanta e gli anni del boom, gruppi che seppero sfuggire alle maglie del potere culturale democristiano come a quello speculare del togliattismo: i centri sociali e di sviluppo di comunità animati da Danilo Dolci in Sicilia, il Movimento di collaborazione civica, i Cemea, la colonia anarchica di Giovanna Caleffi a Piano di Sorrento, l’Asilo italo-svizzero di Margherita Zoebeli a Rimini, per citare quelli che Grazia ricordava con più trasporto.
Raccontava di aver deciso di scendere in Sicilia, da Dolci, dopo aver letto un suo opuscolo – Morrà di fame qualche altro bimbo quest’inverno? – in cui si raccontava appunto di come la miseria estrema, da baraccopoli del terzo mondo, avesse fatto morire di fame un bambino di Trappeto, il villaggio di pescatori a una quarantina di chilometri da Palermo dove Dolci lavorava. Lì ha vissuto per circa un anno insieme a Vincenzina, vedova di un “bandito”, che Dolci aveva deciso di sposare accogliendone in casa i cinque figli. Si occupava della corrispondenza e registrava interviste e storie di vita per le inchieste del gruppo. A Trappeto Grazia avrebbe voluto fondare una scuola montessoriana ma il progetto naufragò per mancanza di soldi, per il mancato appoggio dell’Opera Montessori che si rifiutò di inviarle il materiale e gli arredi, per la distanza che a un certo punto iniziò ad avvertire nei confronti della parte più narcisa e paternalista di Dolci e perché ricevette un “foglio di via” che la costrinse a lasciare Palermo.
A spingerla a partire e a rimettersi in ricerca fu anche Lamberto Borghi, filosofo e pedagogista libertario, che in quegli anni insegnava all’università di Palermo e che portava spesso i suoi allievi a Trappeto per studiare e sostenere le iniziative di Dolci. È lui che le consiglia di partecipare ai corsi del Movimento di collaborazione civica, animato da Augusto Frassineti, Guido e Maria Calogero, Cecrope Barilli ed Ebe Flamini, secondo Grazia, anima operativa del gruppo. Un gruppo animato dal proposito di formare giovani operatori intorno a progetti di rinnovamento culturale e di sviluppo di comunità. E da lì l’incontro con gli stage Cemea, Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, nati in Francia quando il Fronte popolare va al potere, per formare i futuri istitutori delle colonie estive per i figli degli operai. Una formazione intensiva, della durata di due settimane, a cui Grazia partecipò diverse volte e di cui divenne a sua volta formatrice, che consisteva nella condivisione di tutti i problemi di gestione della vita quotidiana, dalla pulizia, alla cucina, all’ordine delle camere, alla costruzione di materiali e proposte creative per i bambini con cui si sarebbe dovuto lavorare. Come dire, la sperimentazione sulla propria pelle delle dinamiche, dell’organizzazione, del clima e degli ambienti che i bambini avrebbero vissuto sotto la guida dei giovani educatori.
Quando Grazia si sposò, trasferendosi a Castellanza, dove lavorava il marito, dal momento che non c’erano scuole pubbliche ma solo asili gestiti da suore di cui non condivideva il metodo educativo, decise di fondare una scuoletta per i suoi figli e per i figli di alcuni amici. Una Casa dei bambini che quando lasciò, alla fine degli anni Ottanta, contava 200 bambini iscritti, di cui due terzi di scuola elementare. In Lombardia ha continuato a svolgere un’intensissima attività formativa, lavorando con decine di nidi e fondando “Percorsi per Crescere”, che tutt’ora gestisce la scuola Montessori di Varese, dal nido alla quinta elementare.
E poi i libri, gli interventi su riviste, i manuali di “puericultura” che divennero nel corso del tempo una “bibbia” per tantissime educatrici e tantissimi giovani genitori, “Il quaderno Montessori”, che ha diretto per 133 numeri e 33 anni, in cui si sforzava di trasmettere senso dell’autonomia e piacere della ricerca nella cura e nell’educazione dei piccoli e al contempo di mettere in discussione la dittatura degli esperti: siamo incapaci di stabilire i nostri bisogni e di intuire quelli dei bambini sulla base dell’esperienza nostra e loro, ho sentito dire spesso a Grazia, e lasciamo che tutte le età della vita, da quella embrionale alla morte, si organizzino intorno alle istituzioni e agli esperti che le governano.
La sua visione educativa procedeva per sottrazione – ogni intervento inutile è un ostacolo allo sviluppo, diceva Montessori – e in questo era “antipedagogica”, come solo può dirsi la pedagogia oggi: critica di se stessa e dei poteri di cui è al servizio. Una visione che nasceva in fondo da una profonda fiducia nella natura umana.
È pericoloso, lo abbiamo visto diverse volte nel corso del Novecento, pretendere di definire che cosa sia la natura umana. Ma non è necessario farlo per affermare con fermezza, come faceva Grazia, che una certa educazione le è profondamente contraria. Che cosa sia quell’attitudine vitale che si sprigiona nell’assecondare la natura di un bambino – diceva Paul Goodman – non è ben chiaro. Ma se a essa si fa ricorso al momento giusto – continuava in un bellissimo elenco che mi è capitato di citarle più di una volta perché mi sembrava tradurre molto bene la sua pratica educativa – essa dà un comportamento dotato di forza, discernimento, intelligenza, sensibilità e, appunto, grazia.
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