Gli studenti e i professori
“Tutti gabbati!” potrebbero cantare in coro alla fine i protagonisti del film di Rok Bicek, Class enemy. Sembra che il regista goda nel mettere in scena un vero e proprio gioco al massacro, perfino l’algido prof. Robert Zupan, vera nemesi del prof. Keating (il protagonista de L’attimo fuggente, 1989, film tra i più furbi e sopravvalutati sull’argomento scuola), sembra a un certo punto vacillare.
“Tutti gabbati”, dicevamo, ma nel film non c’è l’allegria della burla falstaffiana, tutt’altro: il suicidio di Sabina – le cui vere motivazioni non sapremo mai – avviene il giorno prima della festa studentesca di Carnevale, gettando la sua ombra cupa su tutto il film. Non si salva nessuno, nell’analisi di Bicek: non Zupan, la cui freddezza ai limiti dell’anaffettività impedisce qualsiasi forma di empatia con gli studenti, e non basta la sua serietà professionale – a cui il regista guarda con una certa compiacenza – per riscattarlo dalle sue responsabilità: non per il suicidio di Sabina, ma per non aver saputo ascoltare i suoi studenti (come gli viene rimproverato alla fine, quando, per la prima volta, dà finalmente voce ai ragazzi). Non si salva certo la giovane e accomodante professoressa titolare della cattedra, che torna, convinta di poter di sanare lo strappo grazie al suo materno appeal; patetica quando dice che la figlia appena nata si chiamerà Sabina, riceve l’accoglienza che si merita: glaciale. Anzi, deve anche subire il feroce sarcasmo dei suoi alunni – e qui Bicek ci mette tutta la sua cattiveria nel mostrarla, quando esce dalla classe, in campo lungo, terrea e malferma; sembra la marchesa di Merteuil dopo che le è crollato il mondo alla fine de Le relazioni pericolose di Frears. Non parliamo poi degli altri insegnanti, superficiali quando non frivoli, e sempre sulla difensiva, nostalgici di un tempo in cui erano loro a essere temuti: purtroppo molto realistici. Orrendi i genitori, mostri di egoismo e di presunzione, convinti che i loro pargoli siano sempre senza peccato, immaturi e irresponsabili più dei loro figli. Ma anche gli studenti non ne escono bene: Tadej, uno dei leader della protesta, di fatto è qualunquista con venature xenofobe, e quando capisce che il suicidio di Sabina avrebbe potuto essere motivato da una sua frase infelice, reagisce vomitando in bagno. Luka, dopo aver dato del nazista al professore, deve ringraziarlo perché questi si dimostra indulgente nei suoi confronti, comprendendo che il suo gesto violento (aveva dato una manata in faccia al professore che cercava di interrompere una colluttazione con Tadej) non era volontario, salvando così Luka da una sicura espulsione dalla scuola. Gli altri studenti mostrano tutto l’opportunismo e la viltà che abita all’interno di una classe di adolescenti. Solo una figura si salva, forse, la bellissima e dolce Mojca, che ha il coraggio di esternare in un tema tutto il suo disagio di fronte al suicidio della sua più cara amica, rifiutandosi di cedere al ricatto che tale gesto cela in sé, manifestando tra le lacrime tutta la sua rabbia giovane.
Il motore vero di tutto, mi sembra stia nella percezione del vuoto che i più sensibili tra i ragazzi avvertono attorno, e forse anche dentro loro. È l’assenza di Sabina a scatenare la rivolta – una rivolta, come dicevamo, non priva di ambiguità e contraddizioni – e a rivelare l’inanità del “sistema”, a rendere evidente la loro condizione di discenti passivi, a innescare la contestazione contro l’educazione ricevuta. Chi guida la ribellione, non a caso, è Luka, a cui è appena morta la madre: è lui che per primo, di fronte alla rigidità del professore, il quale vorrebbe usare la disgrazia come pretesto educativo, si alza e esce dalla classe. Il prof. Zupan diventa, suo malgrado, il simbolo di un sistema che poggia sul vuoto, meglio, per dirla con Goodman, sull’assurdo. Luka lotta contro questo sistema a testa bassa, con un rancore sordo, una ribellione destinata al fallimento perché “il sistema lavora e lavorerà sempre perché è freddo, inflessibile, matematico…”, come gli dice alla fine Zupan. Quest’ultimo è una figura emblematica e ha un pregio sicuro: non è una macchietta, come spesso capita di vedere nei film di ambientazione scolastica, con poche eccezioni recenti come L’onda di Gansel (2008) e La classe di Cantet (2008). Colleghi simili a Zupan ne ho avuti, e se devo essere sincero fino in fondo, per quanto in genere li rispetti, è difficile che mi piacciano: la loro mancanza di empatia, la loro algidità mi sono estranee: tutti concentrati sul dovere, troppo spesso dimenticano di avere a che fare con giovani in formazione. Ma forse un po’ vigliaccamente dico: sono necessari. Insegnano ai ragazzi a confrontarsi con le difficoltà, con le responsabilità – non che non lo faccia anch’io -, ma li costringono in più a fare i conti con la freddezza del mondo che fuori li aspetta. Servono, perché ciò che non ti uccide ti rende più forte. Sono loro a rivelare, al tempo stesso, più di quanto possano farlo altri, le debolezze, le fragilità di queste generazioni iper-protette, pronte a protestare per i propri diritti violati ma il più delle volte incapaci di fare i conti con le proprie responsabilità (e spesso anche incapaci di organizzarsi). Zupan, in realtà, seppur a suo modo, vuole aiutare i ragazzi senza compiacerli, mostrando loro una via di resistenza al sistema: diventare come la pietra che in mezzo al fiume resiste alle correnti. Ma che se ne fa un ragazzo di 17 anni di una stoica saggezza?
L’equilibrio che la morte di Sabina aveva rotto, sembra alla fine ricomposto: i ragazzi dimenticano – la gita di classe, a cui non partecipa Zupan, li vede di nuovo sereni, mentre il fantasma di Sabina si muove silenzioso in mezzo a loro, forse a verificare il rientro nella norma, nell’attesa che essi diventino uguali ai loro genitori. Manca nei giovani del film, come nei giovani in generale, la capacità di andare oltre la giusta rabbia e la giusta ribellione: la rivolta si frantuma, gli egoismi, gli opportunismi hanno la meglio e il quadro si ricompone nascondendo il vuoto che per una volta si era spalancato. L’età adulta li attende e presto si infileranno tra le pieghe del sistema, senza accorgersi del freddo che fa.
Eppure. Eppure c’è qualcosa di commovente in questi ragazzi, anche nella loro immaturità (persino in Tadej, che ha un padre orribile, e che sappiamo che prima o poi diventerà orrendo come lui). Qualcuno una volta cantava che a vent’anni si è stupidi davvero. Può darsi, però la loro è una stupidità poetica (mi si passi il concetto) e in alcuni di quei volti brilla una speranza che è impossibile veder brillare in chi ha più di 35 anni, per parafrasare Jerry Rubin (e bisognerebbe abbassare la soglia). In fondo, se questi ragazzi, per quanto in modo confuso e velleitario, sono in grado di percepire il vuoto e l’assurdo a cui provano a ribellarsi, forse c’è ancora una possibilità.
Caro Nicola,
in questi giorni ho pensato molto al film che abbiamo visto e in realtà avevo anche provato a scrivere qualche riflessione che nella mia testa suonava obiettiva e valida ma quando mi sono trovata a metterla per iscritto tutto si deformava e il nome di *** usciva inevitabilmente dalla penna, quindi finivo sempre per stracciarla: è passato troppo poco tempo da quando si è ucciso. Mi sono resa conto che non riesco più a gestire alcune situazioni in modo distaccato e finisco inevitabilmente per percepirle come troppo personali e dolorose, ancora. Mi è piaciuto quello che hai scritto, più del film forse. Le uniche altre cose strettamente legate al film che mi erano venute in mente erano due: il professore sottolinea (a Sabina in particolare, ma mi pare lo ribadisca alla classe) l ‘importanza di riuscire a prendere “decisioni” e purtroppo l’unica che “sceglie” qualcosa sembra essere proprio Sabina. Il fatto di non riuscire a prendere decisioni la trovo una situazione molto attuale tra i giovani(io per prima in questo periodo). Non a caso siamo stati definiti la “generazione degli attacchi degli panico”. Disorientamento totale (che in fondo è legato a quello che hai scritto sulla mancanza di assumersi responsabilità). La seconda è il tedesco, penso sia poco onesto e anche un po’ vigliacco da parte del professore comunicare in una lingua che lui padroneggia molto meglio di loro e sia anche un modo per arginare le emozioni. Mi sarebbe piaciuto saperne di più su Mann. Perdona la forma e il ritardo ma il coraggio è passeggero e non ho voglio rileggere quello che ho scritto.
Comunque quel qualcuno che citi scrive anche che a vent’anni è tutto “ancora” intero. Forse ad un certo momento qualcosa si deve rompere, ma nessuno ci avvisa e non abbiamo gli strumenti per gestirlo e accettarlo (sarà l’iperprotettività, la mancanza di professori come Zupan o questo sistema che cerca di anestetizzarci ed evitarci qualsiasi forma di sofferenza con pillole e ritmi così stretti che non lasciano spazio a momenti di riflessione e dolore). A me fatalità si è rotto qualcosa proprio a vent’anni. Mentre ti scrivo mi ritorna in mente quella frase che mi avevate fatto recitare quando ero Margherita :”…e se nella nostra vita non ci fosse dolore non sarebbe meglio, sarebbe peggio, perché allora non ci sarebbe la felicità nella speranza”. Mi ricordo che Erio mi chiedeva insistentemente se veramente capivo quello che stavo dicendo e mi ricordo che la cosa mi infastidiva parecchio. Capisco solo ora che per me quelle parole allora avevano davvero poco senso. In ogni caso, anche se non ci sono riuscita come avrei voluto, sono contenta di essere riuscita a scrivere e cancellare alcuni miei pensieri. Spero di non sembrarti drammatica, perché al contrario ora, mentre ti scrivo, mi sento più serena.
Un abbraccio
Anna