Gli alunni di “Class enemy”
Servendosi con intelligenza di elementi ben noti al cinema di ambientazione scolastica (una studentessa si uccide, la classe individua un capro espiatorio nel professore da poco subentrato) il regista sloveno ventottenne Rok Bicek costruisce un film (Class enemy, dal 9 ottobre al cinema) raro per la capacità di porre domande radicali e il tentativo di fare il punto di una situazione molto più ampia del perimetro della scuola in cui è ambientato. Con alcuni modelli dichiarati (Haneke, Mungiu, il Kieslowski del Decalogo) e sul filo di una scrittura calibratissima, la concatenazione delle scene prevede che tutti i personaggi vestano a turni il ruolo di vittima e quello di aggressore. Con precisione algebrica i torti e le ragioni sono distribuiti e di continuo rimessi in discussione, in un’architettura la cui irrisolta complessità vuol fare piazza pulita di ogni sentimentalismo, di ogni commozione di superficie, di ogni identificazione in una delle parti in causa: il punto non è solo raccontare una storia ma iniziare un discorso, mostrare una contraddizione lasciando l’onere di una (difficile) sintesi agli spettatori.
Zupan, il nuovo professore, vuole convincere i suoi alunni che la disciplina e il lavoro rigoroso siano condizione necessaria alla formazione di un essere umano. Gli alunni, dal canto loro, sembrano dare (erroneamente) per scontato di essere umani e considerano spropositate le pretese del professore, cresciuti come sono in una scuola protettiva, disposta alla comprensione e molto, molto prudente: “Benvenuto nel ventunesimo secolo, prima loro temevano noi, ora noi temiamo loro” dice la preside a Zupan. I ragazzi gli si ribellano convinti con ciò di ribellarsi al “sistema”; il professore ribatte colpo su colpo, non risparmia disprezzo, minacce, umiliazioni.
Ma è chiaro che entrambi puntano un falso bersaglio. L’autorità che l’uno vuole restaurare e gli altri vogliono demolire è fuggita da queste aule e non si sa più dove cercarla. Negli interni scolastici in cui il film è ostinatamente ambientato si sente la presenza di un fuori che ci è strettamente contemporaneo: questo ventunesimo secolo europeo a cui si contrappone l’arcigna volontà del professore è un luogo in cui le parole si svuotano, i concetti si appiattiscono all’insegna della pigrizia mentale, la mente è viziata dai fantasmi della storia e dell’informazione: la Grecia “è piena di lavativi”, la musica classica è musica “seria”, Zupan è “un nazista” perché parla tedesco ed è severo, e “un pedofilo” perché è stato visto da solo in aula con l’alunna suicida, con gli alunni “basta scherzarci un po’, gli dai i voti ed è fatta”. La ribellione non può che spegnersi in una girandola di egoismi e vanità, mentre il professore si arrocca sempre più in una ripicca contegnosa ugualmente infantile. La conclusione vede tutti, più che sconfitti, dispersi: Zupan in chissà quale altra scuola, i ragazzi su una nave in mezzo al mare verso la gita di fine anno, senza una terra all’orizzonte.
Ma poco prima di separarsi per sempre (quindi troppo tardi), la classe sta ad ascoltare il professore nel suo ultimo tentativo di dare senso a una parola abusata, suggerendo una direzione ad una rivolta necessaria, e non ancora pronta: “…avete voluto dimostrare che il sistema non funziona. No, il sistema funziona, ha sempre funzionato e sempre lo farà, perché il sistema è freddo, è inesorabile, matematico. Ma se dentro di voi siete sufficientemente forti, siete come una pietra nel fiume che non si cura dell’acqua impetuosa.”