Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Furia norvegese

Illustrazione di David Marchetti
21 Luglio 2020
Daniele Rosa

L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del “ci sono”. L’anima andrebbe facilmente perduta se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza. (Ernesto de Martino)

Habet tenebras, sed lumen estis ipsi (Tertulliano)

Ha scritto qualcuno, non ricordo chi, ma doveva essere intelligente, che il rock’n’roll ha dato libertà di movimento al bacino e questo, non le chitarre elettriche, non la grande industria discografica, tantomeno il valore artistico o qualche canzone di protesta, è stato all’origine della rivoluzione. Una rivoluzione che è andata ben oltre l’ambito strettamente musicale, o meglio, che nel mercato fatto di dischi e riviste e poster e biglietti di concerti, riservato agli adolescenti o poco più, ha trovato il suo principale canale di propaganda (in quello strano modo in cui, dalla metà del Ventesimo secolo, protesta e marketing hanno coinciso); una rivoluzione, anche, che senza dubbio può dirsi finita in questa forma: non credo il rock’n’roll sia morto nel 1972, come avrebbero voluto gli Who, e nemmeno nel 1977, per mano dei punk inglesi e americani. Kurt Cobain, togliendosi la vita nel 1994, uccise forse l’ultima rockstar in senso tradizionale, ma il sistema che, pur detestando, lui stesso alimentava, gli sopravvisse per anni. Credo, in effetti, che il rock sia morto non con uno schianto, ma con un lamento, con i capisaldi della rivoluzione trasformatisi pian piano in tanti conformismi.

O forse sono soltanto vecchio: ma la sregolatezza, l’incapacità o la mancanza di volontà del contenersi mi sembrano armi tanto più spuntate quanto più condivise dalla grande industria.
C’è stato tuttavia un tempo, che sembra un po’ più lontano ogni secondo che passa, nel quale dischi e canzoni sono stati utilizzati come oggetti contundenti da scagliare contro le asfissianti convinzioni della società; e in nessun luogo, in nessun momento questo è accaduto come in Norvegia negli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso.
È proprio all’inizio del decennio nel quale, oltreoceano, i Nirvana di Cobain avrebbero dato il via all’ultima grande rivoluzione teen del rock’n’roll per poi bruciare in una sola fiammata, che il regno dell’anziano Olaf V, da un ventennio ormai nel pieno del boom petrolifero che lo avrebbe portato a essere tra i più ricchi e socialmente avanzati paesi del mondo, venne attraversato da un’ondata di sconcerto, e poi di crescente terrore: terrore deliberatamente seminato, insieme al più feroce stile prodotto nella storia della musica che riconosce in Elvis il suo re, da un manipolo di teenager e ventenni abituato a riunirsi attorno a un negozio di dischi di Oslo, Helvete (“inferno”), e al suo proprietario, Øystein Aarseth. Aarseth che aveva appena diciotto anni quando la band da lui guidata con il nome d’arte di Euronymous, i Mayhem, produsse il primo demotape, Pure Fucking Armageddon (1986), e non sarebbe mai arrivato a compierne ventisei, fu il principale ideologo della scena black metal norvegese, la second wave di questa estremizzazione dell’heavy metal che era nata in Inghilterra pochi anni prima. Il black metal (il nome è lo stesso dell’album pubblicato nel 1982 dai britannici Venom, creatori del sound deliberatamente cacofonico e antitecnico che sarebbe stato di lì a breve canonizzato nel nuovo genere) fu oggetto di una singolare appropriazione culturale nella terra di Knut Hamsun, dove, per mano di Euronymous e dei suoi, venne trasformato nel più radicale grido di rifiuto di un’intera civiltà mai prodotto per mezzo di voce, chitarra, basso e batteria. Il “peccato originale” della società norvegese venne individuato nel cristianesimo, introdotto con la forza da Olaf Tryggvason, quasi mille anni prima, e i simboli dell’odiata religione divennero i primi obiettivi del movimento: i componenti del cosiddetto Svarte Sirkel (“cerchio nero”), gli adepti della strana organizzazione non ufficiale che si riuniva presso Helvete, quasi tutti musicisti nelle prime, violentissime band spesso pubblicate dall’etichetta fondata dallo stesso Aarseth, la Deathlike Silence, si resero colpevoli (o più esattamente: orgogliosi artefici) del rogo di più di cinquanta chiese, tra le quali la stavkrike (chiesa medievale interamente costruita) di Fantoft, distrutta nel giugno del 1992, otto secoli e mezzo dopo la sua costruzione. L’immagine dell’antica chiesa divorata dalle fiamme rimane ancora oggi l’impressionante testimonianza della ferocia messa in campo dai componenti del cerchio: la si può osservare negli stessi fotogrammi che la televisione norvegese diffuse all’epoca gettando la nazione nello sconforto, oggi riprodotti in numerosi libri e documentari. I resti carbonizzati di Fantoft illustrano anche la copertina di Aske (“cenere”), il mini-album della one man band Burzum, che la Deathlike Silence pubblicò di lì a breve – e diffuse insieme a un accendino, provocatoria firma sul rogo. Burzum era Varg Vikernes, nato Kristian poco meno di vent’anni prima a Bergen, una città costiera dalla quale, nel XIV secolo, si era diffusa la grande peste nera che avrebbe ucciso, secondo certi storici, quasi la metà della popolazione norvegese. Adesso, e per mano di Varg – il nuovo nome significava “lupo” nell’antica lingua norrena – un’altra terribile malattia sembrava diffondersi in Norvegia, una malattia che agiva con il preciso scopo di diffondere quanta più disperazione fosse possibile.
Il black metal norvegese, che alle precedenti esperienze musicali estreme aveva tolto ogni sorriso, sostituendo la “banda di amici” (maschi) con la misantropia radicale, i riferimenti ludici all’occultismo con la gelida invocazione di forze negative (il satanismo, naturalmente, ma anche il paganesimo nordico e orientale in chiave anticristiana; stalinismo – è il caso dei Mayhem – e, più diffusamente, nazifascismo; un nazionalismo di stampo razzista e omofobo; inviti alla violenza d’ogni tipo, anche autolesionistica) aveva avuto il suo lugubre atto inaugurale, nell’aprile del 1991, con il suicidio di Pelle Ohlin, in arte Dead, primo vocalist dei Mayhem e compagno di band di Euronymous, con il quale condivideva anche l’appartamento. Adesso il “movimento” avrebbe visto il suo atto conclusivo, e proprio per mano di Vikernes, che nell’agosto 1993 pugnalò a morte Aarseth a seguito di una lite, forse per soldi come ha sostenuto l’assassino, forse per compiere un destino, vuole la leggenda, nerissima, seguita ai fatti qui riassunti. Che dicono solo una parte della storia: l’esasperata distorsione delle chitarre, le grida inintelligibili dei vocalist, la violenza delle percussioni e la bassa fedeltà delle incisioni suonano oggi, al sole di una terra e di un tempo molto differenti, come l’ultima, vera avanguardia che la musica rock (in senso lato) abbia espresso, producendo un’influenza enorme e fino ai giorni nostri non solo sulla musica estrema, ma anche sull’elettronica, sul rock indipendente, arrivando in ambiti molto diversi come gli studi letterari, filosofici e ambientali. Il true norwegian black metal è stato anche, al netto delle strumentalizzazioni e pure se in modi per molti versi inaccettabili, l’unica scena autenticamente radicale dell’ambito. Quando, nel 1995, la Century Media, una major discografica attratta dal clamore seguito, a livello internazionale, all’arresto e alla condanna di Vikernes, mise sotto contratto gli Ulver perché producessero, con il congruo anticipo, una versione ammorbidita del loro sound, la band – vuole una storia da loro negata, e naturalmente vera – consegnò otto pezzi deliberatamente non prodotti, e registrati su un 8-tracce all’aperto, in un bosco. Nattens Madrigal è ancora oggi un monumento musicale all’impossibilità di scendere a compromessi.

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