Furia norvegese

L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del “ci sono”. L’anima andrebbe facilmente perduta se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza. (Ernesto de Martino)
Habet tenebras, sed lumen estis ipsi (Tertulliano)
Ha scritto qualcuno, non ricordo chi, ma doveva essere intelligente, che il rock’n’roll ha dato libertà di movimento al bacino e questo, non le chitarre elettriche, non la grande industria discografica, tantomeno il valore artistico o qualche canzone di protesta, è stato all’origine della rivoluzione. Una rivoluzione che è andata ben oltre l’ambito strettamente musicale, o meglio, che nel mercato fatto di dischi e riviste e poster e biglietti di concerti, riservato agli adolescenti o poco più, ha trovato il suo principale canale di propaganda (in quello strano modo in cui, dalla metà del Ventesimo secolo, protesta e marketing hanno coinciso); una rivoluzione, anche, che senza dubbio può dirsi finita in questa forma: non credo il rock’n’roll sia morto nel 1972, come avrebbero voluto gli Who, e nemmeno nel 1977, per mano dei punk inglesi e americani. Kurt Cobain, togliendosi la vita nel 1994, uccise forse l’ultima rockstar in senso tradizionale, ma il sistema che, pur detestando, lui stesso alimentava, gli sopravvisse per anni. Credo, in effetti, che il rock sia morto non con uno schianto, ma con un lamento, con i capisaldi della rivoluzione trasformatisi pian piano in tanti conformismi.
O
forse sono soltanto vecchio: ma la sregolatezza, l’incapacità o la
mancanza di volontà del contenersi mi sembrano armi tanto più
spuntate quanto più condivise dalla grande industria.
C’è
stato tuttavia un tempo, che sembra un po’ più lontano ogni
secondo che passa, nel quale dischi e canzoni sono stati utilizzati
come oggetti contundenti da scagliare contro le asfissianti
convinzioni della società; e in nessun luogo, in nessun momento
questo è accaduto come in Norvegia negli anni a cavallo tra gli
Ottanta e i Novanta del secolo scorso.
È
proprio all’inizio del decennio nel quale, oltreoceano, i Nirvana
di Cobain avrebbero dato il via all’ultima grande rivoluzione teen
del rock’n’roll per poi bruciare in una sola fiammata, che il
regno dell’anziano Olaf V, da un ventennio ormai nel pieno del boom
petrolifero che lo avrebbe portato a essere tra i più ricchi e
socialmente avanzati paesi del mondo, venne attraversato da un’ondata
di sconcerto, e poi di crescente terrore: terrore deliberatamente
seminato, insieme al più feroce stile prodotto nella storia della
musica che riconosce in Elvis il suo re, da un manipolo di teenager e
ventenni abituato a riunirsi attorno a un negozio di dischi di Oslo,
Helvete (“inferno”), e al suo proprietario, Øystein Aarseth.
Aarseth che aveva appena diciotto anni quando la band da lui guidata
con il nome d’arte di Euronymous, i Mayhem, produsse il primo
demotape, Pure
Fucking Armageddon
(1986),
e non sarebbe mai arrivato a compierne ventisei, fu il principale
ideologo della scena black metal norvegese, la second
wave
di questa estremizzazione dell’heavy metal che era nata in
Inghilterra pochi anni prima. Il black metal (il nome è lo stesso
dell’album pubblicato nel 1982
dai britannici Venom, creatori del sound deliberatamente cacofonico e
antitecnico che sarebbe stato di lì a breve canonizzato nel nuovo
genere) fu oggetto di una singolare appropriazione culturale nella
terra di Knut Hamsun, dove, per mano di Euronymous e dei suoi, venne
trasformato nel più radicale grido di rifiuto di un’intera civiltà
mai prodotto per mezzo di voce, chitarra, basso e batteria. Il
“peccato originale” della società norvegese venne individuato
nel cristianesimo, introdotto con la forza da Olaf Tryggvason, quasi
mille anni prima, e i simboli dell’odiata religione divennero i
primi obiettivi del movimento: i componenti del cosiddetto Svarte
Sirkel
(“cerchio nero”), gli adepti della strana organizzazione non
ufficiale che si riuniva presso Helvete, quasi tutti musicisti nelle
prime, violentissime band spesso pubblicate dall’etichetta fondata
dallo stesso Aarseth, la Deathlike Silence, si resero colpevoli (o
più esattamente: orgogliosi artefici) del rogo di più di cinquanta
chiese, tra le quali la stavkrike
(chiesa medievale interamente costruita) di Fantoft, distrutta nel
giugno del 1992,
otto secoli e mezzo dopo la sua costruzione. L’immagine dell’antica
chiesa divorata dalle fiamme rimane ancora oggi l’impressionante
testimonianza della ferocia messa in campo dai componenti del
cerchio:
la si può osservare negli stessi fotogrammi che la televisione
norvegese diffuse all’epoca gettando la nazione nello sconforto,
oggi riprodotti in numerosi libri e documentari. I resti carbonizzati
di Fantoft illustrano anche la copertina di Aske
(“cenere”), il mini-album della one
man band
Burzum, che la Deathlike Silence pubblicò di lì a breve – e
diffuse insieme a un accendino, provocatoria firma sul rogo. Burzum
era Varg Vikernes, nato Kristian poco meno di vent’anni prima a
Bergen, una città costiera dalla quale, nel XIV secolo, si era
diffusa la grande peste nera che avrebbe ucciso, secondo certi
storici, quasi la metà della popolazione norvegese. Adesso, e per
mano di Varg – il nuovo nome significava “lupo” nell’antica
lingua norrena – un’altra terribile malattia sembrava diffondersi
in Norvegia, una malattia che agiva con il preciso scopo di
diffondere quanta più disperazione fosse possibile.
Il
black metal norvegese, che alle precedenti esperienze musicali
estreme aveva tolto ogni sorriso, sostituendo la “banda di amici”
(maschi) con la misantropia radicale, i riferimenti ludici
all’occultismo con la gelida invocazione di forze negative (il
satanismo, naturalmente, ma anche il paganesimo nordico e orientale
in chiave anticristiana; stalinismo – è il caso dei Mayhem – e,
più diffusamente, nazifascismo; un nazionalismo di stampo razzista e
omofobo; inviti alla violenza d’ogni tipo, anche autolesionistica)
aveva avuto il suo lugubre atto inaugurale, nell’aprile del 1991,
con il suicidio di Pelle Ohlin, in arte Dead, primo vocalist dei
Mayhem e compagno di band di Euronymous, con il quale condivideva
anche l’appartamento. Adesso il “movimento” avrebbe visto il
suo atto conclusivo, e proprio per mano di Vikernes, che nell’agosto
1993
pugnalò a morte Aarseth a seguito di una lite, forse per soldi come
ha sostenuto l’assassino, forse per compiere un destino, vuole la
leggenda, nerissima, seguita ai fatti qui riassunti. Che dicono solo
una parte della storia: l’esasperata distorsione delle chitarre, le
grida inintelligibili dei vocalist, la violenza delle percussioni e
la bassa fedeltà delle incisioni suonano oggi, al sole di una terra
e di un tempo molto differenti, come l’ultima, vera avanguardia che
la musica rock (in senso lato) abbia espresso, producendo
un’influenza enorme e fino ai giorni nostri non solo sulla musica
estrema, ma anche sull’elettronica, sul rock indipendente,
arrivando in ambiti molto diversi come gli studi letterari,
filosofici e ambientali. Il true
norwegian black metal
è stato anche, al netto delle strumentalizzazioni e pure se in modi
per molti versi inaccettabili, l’unica scena autenticamente
radicale dell’ambito. Quando, nel 1995,
la Century Media, una major discografica attratta dal clamore
seguito, a livello internazionale, all’arresto e alla condanna di
Vikernes, mise sotto contratto gli Ulver perché producessero, con il
congruo anticipo, una versione ammorbidita del loro sound, la band –
vuole una storia da loro negata, e naturalmente vera – consegnò
otto pezzi deliberatamente non prodotti, e registrati su un 8-tracce
all’aperto, in un bosco. Nattens
Madrigal è
ancora oggi un monumento musicale all’impossibilità di scendere a
compromessi.