Figure dell’ansia e discorso pubblico
Come psicoterapeuta in questo tempo di emergenza sanitaria sto lavorando online con i miei pazienti, dando anche la disponibilità a due sportelli di emergenza per il sostegno psicologico a distanza, e come la quasi totalità dei miei colleghi mi sono trovata ad adattarmi al nuovo setting in video. L’impatto psichico e sociale di questa situazione è a oggi imperscrutabile, ci vorrà tempo, quelle che seguono sono solo alcune riflessioni a caldo a seguito del primo periodo di ascolto.
La relazione terapeutica a distanza
La relazione terapeutica a distanza non è meglio o peggio, è un’altra cosa.
Sicuramente necessita di maggiore concentrazione, estrema attenzione, mancando i corpi si ricevono meno informazioni quindi si sente una tensione nell’ascolto e nello sguardo che è difficile sperimentare altrimenti. La videocamera alla quale dovremmo essere estremamente abituati in questa dimensione di perenne selfie collettivo, è come se fosse uno sguardo terzo che entra, qualcosa la cui presenza non è possibile ignorare, che non abbandona mai nemmeno nei momenti di commozione, o sfogo emotivo dei pazienti, nemmeno tra le lacrime, le grida e i sussulti. Eppure questa semi assenza dei corpi a volte sembra addirittura liberatoria, e a tratti si ha l’impressione di un’inaspettata autenticità. È difficile definire le sensazioni di un incontro così intimo senza il contatto fisico, l’osservazione e il vibrare dei corpi hanno una parte così importante nelle atmosfere che si creano in una seduta. Quando si chiude una seduta Skype salutarsi è più difficile, la sensazione che sia mancato qualcosa è forte, o forse è solo la speciale dimensione di controtransfert di questi giorni, in cui ci si sente più vicini ai propri pazienti.
La solitudine è un tema ricorrente per tutti noi. C’è chi la desidera in modo spasmodico: alcune pazienti si collegano sedute sulla tazza del bagno e di là si sente la televisione con i notiziari, grida con i bambini, un rumore domestico che sembra non lasciare scampo. La tensione di convivenze al limite che arriva all’improvviso durante la seduta, con il frenetico bussare alla porta di qualcuno.
E poi chi la solitudine la sta vivendo dolorosamente, allontanato dai genitori anziani, dal proprio amore, dai propri punti di riferimento affettivi, sessuali. E ancor più difficile per chi non sapeva, non credeva di essere solo e ci si trova all’improvviso, con il proprio rapporto affettivo saltato e la propria rete dispersa. Essere soli di fronte alla morte, alla paura del domani, con il proprio corpo che è diventato oggetto di attenzione continua, più nel male che nel bene.
L’ansia che la connessione si disturbi porta a scegliere parole efficaci, sintetiche, chiare, semplici. Lavorare a togliere, non è detto che sia un male, anzi. Non c’è più spazio per il divagare e per la complessità. Si tende a intensificare l’intenzione verso l’altro, la concentrazione, l’efficacia comunicativa. Parole che buchino lo schermo si dice in gergo televisivo.
Ma in alcuni momenti invece la tentazione di distrarsi è fortissima, non si vedono che i visi, si potrebbe leggere un messaggio sul telefonino nel frattempo, o fare qualsiasi cosa con il resto del corpo, se se ne sentisse la voglia.
E poi c’è il tema della privacy, la fantasia che potrebbe esserci un terzo nella stanza in ascolto.
Eppure nonostante questo a volte tutto è incredibilmente fluido, autentico, intimo. Questo si nota soprattutto con le persone che chiamano nello sportello di emergenza e che in condizione normali, e con il setting abituale, ci avrebbero messo mesi a entrare nella stessa dimensione di intima confidenzialità.
La patologia collettiva che cura
Quando questa dimensione di isolamento sociale è cominciata la preoccupazione era per i pazienti più gravi: chi soffre di paranoia – gli ipocondriaci, i depressi – il timore che la situazione potesse scatenare un’amplificazione delle dimensioni patologiche.
E invece si osserva il contrario, queste persone sono estremamente più attrezzate a vivere le nuove circostanze. Anzi, è come se finalmente vedessero riconosciuto da altri il disagio che portano dentro, in solitudine, da un tempo che è parso loro interminabile.
Il sintomo vissuto sempre come marcatore di differenza e distanza, portato con vergogna, ma intuito sempre come profetico nel profondo di se stessi, oggi è socialmente legittimato. La solitudine, l’isolamento è il problema più grande di chi soffre psichicamente, ma la solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno ma, come ci dice Jung in Ricordi, sogni, riflessioni (Bur 1998) “dall’incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili”. L’atteggiamento sociale mutuato dalla tendenza culturale della psichiatria più diffusa, che è somatologica, è di escludere la soggettività dai comportamenti e con essa la ricerca dei significati che li connotano, e di ricorrere ai farmaci per l’attenuazione dei sintomi. La solitudine sociale delle persone che soffrono psichicamente, spesso si consolida in un isolamento difficile da raggiungere.
Ma ecco che all’improvviso una patologia collettiva viene a ri-umanizzare il proprio vissuto, donando la possibilità di riconoscersi negli altri, finalmente tutti fragili, vulnerabili, perseguitati ed esposti. Per dirla con De Martino, la possibilità di sentirsi nuovamente presenza, nuovamente dotati di senso, in un contesto dotato di senso.
È il caso, ad esempio, di una paziente che soffre da anni di paranoia, che normalmente si sente controllata, spiata in qualsiasi cosa fa, minacciata e convinta che il male la insegua, sfida serenamente la polizia e con l’autocertificazione in tasca raggiunge lo studio della sua terapeuta, si abbandona sulla sedia, chiedendo il permesso di togliersi la mascherina.
Oppure il caso di un paziente con una depressione piuttosto grave, che spesso si rappresenta in scenari apocalittici globali, tali da mettere sotto scacco quasi ogni volontà individuale, e che ora che quegli scenari sembrano realizzarsi, non si sente più un profeta nel deserto, ma al contrario qualcuno che sa vivere il disagio della fine e può predisporsi verso il prossimo. Ora finalmente la catastrofe sempre sentita dentro di sé può essere esternalizzata, oggettivizzata e dunque forse divenire anche oggetto di cura.
Sintomi in quarantena
Ma se chi sapeva di stare male, sta meglio, chi non lo sapeva lo scopre all’improvviso.
Cos’è questa tirata dei nodi al pettine per cui saltano i rapporti di coppia, esplodono le convivenze forzate, si rompono amicizie storiche per diverbi sulla lettura del presente, si entra in crisi in rapporto a tutto, amore, studio, lavoro? Che succede?
Ha l’aria della pulizia che fa la morte, che è metamorfosi, che ci conduce rapidamente al netto della vita, la passa al setaccio, ci chiede con forza per cosa valga la pena vivere, quali sono gli affetti più autentici, i legami più veri, ci pone il problema del senso. Molti colloqui in questi giorni sono sulla qualità della vita, le repentine scelte da fare, le persone da lasciare e quelle da riavvicinare, i conti con la solitudine e con le fragilità personali.
Gli introversi sono avvantaggiati, ma molti sono addirittura sgomenti nel trovarsi all’improvviso in così intimo contatto con se stessi, qualcuno scivola lentamente in una depressione, da sempre compensata in una frenetica relazione con il mondo, ora interrotta, che lascia un vuoto pieno di domande inascoltate, disperazioni rimosse. Poi ci stanno le situazioni esasperate, l’esposizione continua alla violenza dentro le mura di casa che la quarantena richiede, senza più rete, senza più alleati, senza via d’uscita, di cui i bambini sono spesso le vittime finali, di rapporti coniugali avvitati in escalation invivibili, di tossicodipendenze forzatamente interrotte.
Figure dell’ansia e discorso pubblico
Senza addentrarsi in considerazioni sociologiche, lo spostamento del capro espiatorio da una tipologia di individui a un’altra è ormai evidente da anni nel nostro paese, costruito ad arte e voluto dalla scelleratezza di una classe politica nefasta, che da anni ormai costruisce il suo consenso sulla paura e anche in questa occasione, si vede. Il senso di comunità in Italia è ormai minato alle radici, e anche oggi al di là della retorica, dell’#andratuttobene, dei manifesti che recitano che siamo un grande paese, di pentole e bandiere fuori dai balconi densi di sentimento nazionalpopolare, i cittadini sono già dediti allo spionaggio, all’aggressione reciproca, allo scavalcamento e alla colpevole dimenticanza dei più fragili. Legittimati e aizzati uno contro l’altro perfino dalle istituzioni, oggi nel comune di Roma è nato il Sus, il Sistema Unico di Sorveglianza, un servizio del Comune attraverso il quale i cittadini si possono denunciare tra loro, per gli assembramenti che violano le norme previsti dai decreti del governo. Storditi da un discorso mediatico confuso, ma tesi ad ascoltare il resoconto del contagio minuto per minuto, pronti a urlare dalla finestra alla vecchietta che torna con la poca spesa che riesce a portare. Anche la paura sembra diventare, in un certo qual modo, una forma di intrattenimento, così come le supposizioni, le illazioni, l’accapigliarsi sui social diventano un disperato modo di sedare l’ansia dell’incertezza, la paura del domani, coltivare l’illusione del controllo.
Sembriamo meno attenti invece a capire i numeri (purtroppo assolutamente inattendibili), le dinamiche internazionali (non trasparenti), le scelte del nostro governo, tutti rapiti dalla paura, al punto che Giuseppe Conte è diventato un sex symbol, l’uomo forte e capace che ci tirerà fuori da questo guaio, il politico sex symbol, come il capro espiatorio sociale ruota… Tutti dentro lo stesso mantra stiamo a casa, stiamo a casa, ma cos’è che ci spaventa? Davvero il collasso delle strutture ospedaliere, unico motivo per cui questo isolamento sociale è necessario e va osservato con impegno?
La figurazione del nemico invisibile, che non puoi controllare, che ti può attaccare, ma non sai come, dove, quanto e quando e che ti paralizza, come l’urlo terrificante del dio Pan che non sai da dove arriva e ti pietrifica, ricordandoti che sei vulnerabile, che ogni cosa è fragile e che tutto cambia. Il discorso pubblico alimenta l’idea di questo virus come un nemico, vinceremo questa battaglia, uniti lo sconfiggeremo, insomma siamo in guerra, non in un’emergenza sanitaria, tutta da capire e da gestire politicamente su cui il mondo scientifico dibatte.
Ma la guerra è un’altra cosa, lo spettro profondo dell’epidemia non è la guerra, ma l’estinzione del genere umano. Un’inquietudine davvero intensa, motivo di tanta letteratura e fantascienza, che ci fa sperare nei medici come in degli eroi, e non come onesti lavoratori messi in ginocchio da un sistema sanitario ancora estremamente fragile e depauperato da una classe dirigente da tempo non più all’altezza del governo del bene comune.
Sotto il cartello Coronavirus si affollano tutte le nostre paure, le nostre fragilità, le nostre vulnerabilità. Le persone che chiamano allo sportello di supporto psicologico di emergenza, perché si sentono in ansia, fino a vere crisi paniche, spesso iniziano elencando dei sintomi fisici: “ho la febbre a 37,5, a 38, ho la tosse, ho il mal di gola, senz’altro mi sono presa questa malattia, non dormo, non mangio” e in questi casi c’è un primo livello di intervento, che è capire con quale medico sono in contatto, se sono seguiti, consigliati. Ma spesso i medici di base, che stanno facendo un grande lavoro nel totale abbandono istituzionale, e seguendo direttive confuse e contraddittorie, consigliano semplicemente di prendere del paracetamolo e di aspettare. Un secondo livello di intervento è l’accettazione dei sintomi e la prospettiva di poterli superare stando a casa. Se si può ragionare con la paura non è negandola, ma provando a mettersi accanto per attraversarla. Mano a mano si entra nella vita quotidiana di ciascuno, nelle sue abitudini, nella possibilità di discipline di cura, alimentazione, ginnastica. Poi s’instaura il dialogo e si scopre che ciò che le persone chiamano virus, col virus c’entra poco, le ansie, le angosce e i fantasmi di ciascuno cominciano a riempire lo schermo del pc. E intanto, spesso, i sintomi regrediscono un po’, diventano più accettabili. La narrazione sociale di tipo bellico non aiuta, dobbiamo cautelarci certo, osservare le norme igieniche e di isolamento (queste ultime poi volenti o nolenti), ma questa rigida difensività ci ammala anch’essa, e non poco, concausa quanto meno del male, più di quanto non si creda, più di quanto non si abbia percezione.
Per chi può, c’è il vuoto che rigenera. In questo momento stare vicino alle persone più fragili significa aiutare il nostro sistema sanitario ad affrontare l’emergenza, speriamo che usciti da questa ci ricorderemo quanto vale la salute pubblica e in cosa si declina (che sono i reparti di terapia intensiva efficienti, ma non solo); oggi facciamo parte di una comunità stando a casa e cercando di ridurre i contatti il più possibile, e quando non è possibile, osservando le misure di sicurezza prescritte, dando vita ad altre prossemiche, ad altri modi.
Sottraiamoci, evitiamo il contagio, soprattutto quello psichico, che è pervasivo, cerchiamo di dare qualità ai contatti, alle relazioni.
Come quando ci bendano gli occhi o siamo al buio che il tatto diventa così intenso e sensibile, ora che è il tatto a essere impedito, apriamo gli occhi, apriamo il sentire, apriamo l’interno.
Questo non è un tempo per barricarsi, smettere di vivere, non è un’odiosa e pericolosa sospensione dalla nostra vita e certamente non è nemmeno una vacanza. Quando si affacciano il vuoto e l’incertezza, la paura del domani e l’angoscia possono prendere il sopravvento e il nostro spazio riempirsi di parole, congetture, supposizioni, discussioni, polarizzazioni di punti di vista, razionalizzazioni e progetti al solo scopo di temporeggiare e contenere l’ansia. Ma questo non è il tempo del controllo, né dei progetti e della volontà, è il tempo del vuoto. Il vuoto come siamo abituati a pensarlo noi, confluisce nel nichilismo, nell’abbandono, nella morte. Mentre dall’altra parte invece è la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose. Il vuoto in questo senso è il massimamente pieno. Siamo chiamati alla sottrazione dell’io, a togliere presenza, volontà, potenza, e a porci in una dimensione di ascolto di quell’alterità psichica che ci abita e di cui spesso nel nostro affannarci abbiamo sentito nostalgia. È il tempo dell’attesa, del lasciar emergere, del sovvertimento delle cose e forse di un nuovo ordine, ma non è un tempo passivo, al contrario, è il tempo del mestiere della vita, che sa contemplare anche la morte, che si apre alla trascendenza, all’onorare la presenza di chi non c’è più, all’accompagnare chi ci sta lasciando collettivamente, come comunità di destino.
Le parole di Jung sull’importanza della vita simbolica sono in questi giorni come un dono, e ci augurano anche un tempo di riavvicinamento ai bisogni dell’anima:
“L’uomo, vedete, ha disperatamente bisogno di una vita simbolica. Nella nostra vita incontriamo soltanto cose banali, comuni, razionali o irrazionali… e perfino queste ultime rientrano nell’ambito del razionalismo, altrimenti non potremmo definirle irrazionali. Ma non abbiamo una vita simbolica. Dove viviamo simbolicamente? In nessun luogo, se non quando partecipiamo al rituale della vita. Ma chi, nella gran massa della gente, partecipa veramente al rituale della vita? Pochissimi (…) C’è nella vostra casa un angolo riservato ai riti, come in India? Là anche nelle case più semplici c’è almeno un angolo riparato da una tenda dove i membri della famiglia possono condurre la loro vita simbolica, fare i loro voti e meditare. Noi non l’abbiamo; non abbiamo nessuno spazio del genere. Abbiamo ciascuno la nostra stanza, naturalmente… ma anche un telefono che può squillare in qualsiasi momento, e noi dobbiamo essere sempre pronti a rispondere. Non abbiamo né tempo, né spazio. Dove teniamo queste immagini dogmatiche o misteriose? Da nessuna parte! Abbiamo le gallerie d’arte, certo, dove uccidiamo migliaia di dèi. Abbiamo spogliato le chiese delle loro immagini misteriose, magiche, per confinarle nelle gallerie d’arte.
Dunque, non abbiamo una vita simbolica e ne abbiamo disperatamente bisogno. Solo la vita simbolica può esprimere i bisogni dell’anima, i bisogni che la nostra anima manifesta ogni giorno! E poiché non l’abbiamo, non possiamo mai liberarci da questa diabolica macina, questa vita spaventosa, opprimente, banale in cui non siamo che ‘nullità’. Nel rituale si è vicini a Dio, perfino divini (…) Tutto è insignificante, ‘nient’altro che’ ed è per questo che la gente diventa nevrotica. È semplicemente stufa di tutto, di questa vita banale, e perciò vuole qualcosa di sensazionale. Perfino una guerra: tutti vogliono una guerra. Sono felici quando c’è una guerra. Dicono: ‘Grazie al cielo, ora succederà qualcosa, qualcosa di più grande di noi!’
Queste cose hanno radici profonde, e non c’è da stupirsi se la gente diventa nevrotica. La vita è troppo razionale: manca un’esistenza simbolica in cui si possa essere qualcosa di diverso, in cui compio il mio ruolo, il mio ruolo come attore nel dramma divino della vita”.