Fare politica ad Atene
Giorgio Agamben ha sostenuto che la vicenda greca testimonia irrevocabilmente l’esigenza di cambiare il modo in cui intendiamo la politica. L’impossibilità della politica come l’abbiamo sempre intesa si dà nel momento in cui la politica è gestita attraverso il paradigma della sicurezza e della “crisi”, come ricatto permanente. La crisi da momento decisivo è divenuta condizione permanente, catturando e sterilizzando tutte le possibili alternative allo stato di cose presenti. L’esito è l’espropriazione dei cittadini della possibilità di decidere di sé. La firma del memorandum nell’estate 2015 dopo la vittoria dell’Oxi nel referendum contro l’austerità descrive efficacemente questa dinamica. Potere e politica sono divaricati. La capacità di fare e la possibilità di scegliere cosa fare non coincidono più. L’Unione europea, il “federalismo esecutivo postdemocratico” di cui scrive Jurgen Habermas, incarna la forma istituzionale di questo modo di intendere potere e politica. Infatti le decisioni di rilievo sono prese dalla Commissione o dal Consiglio, a livello intergovernativo, dove si scontrano i diversi interessi nazionali, o dalla Banca centrale europea (Bce). L’unico spazio dove si potrebbe creare un chiaro confronto sui temi è il Parlamento europeo dove i rappresentanti politici agiscono nei partiti europei e non in base all’appartenenza nazionale. La razionalità economica che regge la Ue si finge tecnica e nasconde, con il suo discorso fatto di necessità e leggi di natura, il vero vulnus europeo: l’assenza di un’unione politica e la rigidità neoliberale imposta nei trattati. Con la crisi dei debiti sovrani, il dispositivo della crisi si è manifestata attraverso il ricatto del debito, cuore del capitalismo, che, come sottolineava Walter Benjamin, è l’unica religione che produce debito e colpa. Il laboratorio di questo “esperimento fatale” è stato la Grecia. La sconfitta di Syriza, se così può esser chiamata, è stata un monito ai paesi indebitati, i Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), e ha disciplinato le sinistre radicali di tutta Europa. I populismi, xenofobi o “di sinistra” che siano, hanno trovato linfa nello scacco portato alla Grecia. Dall’impossibilità di deviare il corso degli eventi, si è rafforzata l’opzione del nazionalismo e della xenofobia, come rassicurante alternativa alla miseria imposta dalle élite.
L’Eurogruppo del 20 Febbraio e il contesto economico politico
La revisione del Terzo Programma di Aiuti tra la Troika (Commissione europea, Bce e Fondo monetario internazionale) e il governo Tsipras, in carica dal 20 Gennaio 2015, ha avuto un punto di svolta il 20 Febbraio. l 20 Febbraio. Durante la riunione dell’Eurogruppo, il consesso dove si incontrano i ministri delle finanze dei paesi dell’Eurozona, dopo aver vagliato il progresso della Grecia nel rispettare le clausole dell’ultimo accordo, si è raggiunto un compromesso. Il presidente dell’Eurogruppo, il socialista olandese Dijsselbloem, si è detto felice dell’esito del negoziato, affermando che ci sarà un passaggio dall’austerità alle c.d. “riforme strutturali”. Secondo il portavoce del governo greco Dimitris Tzanakopoulos, le riforme richieste verranno introdotte solo dal 2018 in poi e saranno compensate da investimenti e aumenti della spesa sociale. Il Fondo monetario sostiene che il debito greco sia insostenibile e ha chiesto una sua riduzione, senza la quale non è disponibile a partecipare al programma di rifinanziamento. Ma l’Europa continua a rifiutare la proposta di una conferenza sul debito e finge che la Grecia possa rimborsare tutto. Pertanto Lagarde ha chiesto una ristrutturazione delle scadenze dei tassi di interesse, più che dell’esposizione totale e, per compensare l’assenza di misure più radicali nei confronti del debito greco, vuole ulteriori misure di austerità. La richiesta più controversa dei creditori è relativa al mantenimento per 10 anni di un bilancio dello Stato con un avanzo primario del 3,5% del pil, destinato a finanziare il pagamento degli interessi e il rimborso del debito estero. Un livello insopportabile per un paese in grave difficoltà. Inoltre i creditori hanno chiesto una liberalizzazione dei licenziamenti collettivi, l’allargamento della no tax area e ulteriori tagli al sistema pensionistico, in difesa del quale è intervenuta sul “Financial Times” la Ministra del Lavoro Effie Achtsioglou. La ministra ha contestato i dati di cui parla il Fmi, anzitutto perché la comparazione tra la spesa pensionistica greca e quella europea è basata su dati non omogenei dal momento che i secondi riguardano il deficit mentre i primi sono riferiti alla spesa totale. Bisogna inoltre ricordare che, in seguito alle misure di austerità, il pil greco è diminuito e pertanto il rapporto tra spesa e pil, essendo quest’ultimo al denominatore, è cresciuto. Infine, Achtsioglou ricorda che la spesa sociale in salute, assistenza alle famiglie e per la casa è ampiamente sotto la media europea. E pertanto, in Grecia, la spesa per pensioni prova a compensare queste mancanze. Ma, in ogni modo, gli over 60 ricevono 9mila euro pro capite in confronto con i 20mila euro dell’Eurozona. II 43% dei pensionati riceve meno di 660 euro al mese. Achtisioglou conclude beffardamente ricordando come, a Davos, Lagarde abbia invitato i politici a fronteggiare la rabbia sociale derivante dall’aumento delle disuguaglianze. A ogni modo, secondo la Reuters, per sbloccare 7 miliardi di aiuti necessari a ripagare i debiti in scadenza a Luglio, nell’Eurogruppo del 7 Aprile ci potrebbe essere un accordo relativo alla riduzione dell’1% della spesa pensionistica dal 2019 e della soglia della no tax area. La liberalizzazione dei licenziamenti collettivi dovrebbe esser risparmiata dall’accordo e dovrebbero esserci margini per investimenti pubblici.
In più, Atene attende di rientrare nel programma del Quantitative easing della Bce – le misure di emissione di moneta in cambio di acquisto di titoli pubblici e privati che hanno facilitato la gestione del debito degli altri paesi europei – da cui è stata esclusa dal marzo 2015. iem 25, il movimento dell’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, ha lanciato una campagna sulle scelte della Bce in merito al congelamento della liquidità di emergenza (Ela) a disposizione degli istituti ellenici nell’estate 2015 affinché vengano resi pubblici gli atti legati a quella scelta. La denuncia è stata sostenuta anche dal candidato alle presidenziali francesi del Partito Socialista Benoit Hamon e dagli economisti statunitensi James Galbraith e Jeffrey Sachs. L’europarlamentare Fabio de Masi della Linke ha fatto una interrogazione ma Draghi ha rifiutato di dare spiegazioni.
Per quanto riguarda il quadro macroeconomico, secondo la Commissione europea, il pil greco nel 2016 è cresciuto dello 0,3%, mentre le stime del Fmi sono intorno allo 0,4. Entrambi per il 2017 prevedono una crescita del 2,7%. Il rapporto debito pubblico-pil resta a livelli record, al 179,7%. Il tasso di disoccupazione, secondo Eurostat, è sceso dal 24,5% del novembre 2015 al 23% nel novembre 2016, e resta il più alto dell’Unione Europea. Ancora record europei per la disoccupazione giovanile, al 44% e per le persone in condizione di grave povertà, il 22, 5% nel 2015.
Memorandum, austerità e sinistra
Per discutere della situazione greca, ad Atene incontriamo Andreas Karitzis, Olga Lafazani e Marika Frangakis. Karitzis è stato portavoce di Syriza dal 2007 al 2009 e membro del comitato centrale fino al 2015. Oggi la sua attività politica è in Komvos (che in greco significa nodo), una rete per l’economia sociale e l’innovazione che prova a mettere insieme diverse iniziative sociali e solidali. Vi lavora con Cristos Giovannopolous, fondatore di Solidarity4all, il coordinamento di iniziative sociali vicino a Syriza. Olga Lafazani, dottoranda in Geografia delle migrazioni dell’Università Herokopio di Atene, milita nella rete per i diritti sociali e politici diktio ed è un’attivista del City Plaza Hotel di Atene, albergo occupato che ospita circa 400 migranti in un quartiere conteso con i nazisti di Alba Dorata. Marika Frangakis invece è un’economista che fa parte del comitato centrale di Syriza e del Nikos Poulantzas Institut. È stata consigliera economica del vice presidente greco Drakagakis.
Syriza, secondo molti, non è riuscito né a garantire le promesse elettorali né a resistere con un’onorevole sconfitta. Di questo lo accusa ad esempio Andreas Karitzis, che, come molti altri, è uscito dopo la firma del terzo memorandum nell’estate 2015. Ma Karitzis, a differenza di larga parte dei suoi compagni, non si è unito all’ex ministro dell’Energia Panagiotis Lafazanis e all’ex Presidentessa della Camera Zoe Konstantopoulou a Unità Popolare (Laki Enotita), partito nato dall’opposizione interna di Syriza, Piattaforma sinistra. Perché “nel modo di organizzarsi, molti dei membri di Unità Popolare sono anche più tradizionalisti dei membri di Syriza”. E per Karitzis il problema è stato proprio qui, nell’incapacità di Syriza di pensare una strategia all’altezza del conflitto con i creditori. Secondo l’attivista, per affrontare i creditori, bisognava pensare un piano multidimensionale, con un elevato “livello di coordinamento tra i diversi interventi: dai quartieri, alle città, alle regioni e allo stato, nelle sue varie articolazioni”. Syriza non aveva “una metodologia di mobilitazione della popolazione. Pensava che con un governo di sinistra, automaticamente, i creditori avrebbero permesso un accordo migliore. Ma in realtà non sapevano rispondere agli attacchi alla società e all’economia sferrati dai creditori. Non aveva un piano per rimanere nell’Eurozona e non ne aveva una per uscirne”. Per Olga Lafazani, al tempo del referendum Syriza deteneva potere sociale. “Ma hanno feticizzato l’euro e l’Europa mentre avrebbero dovuto fare un passo indietro nelle trattative. La questione non è la valuta ma chi la controlla e che politiche economiche si fanno. Un governo di sinistra potrebbe supportare l’autorganizzazione, favorendo un’economia alternativa retta da cooperative e dove si minimizzino i profitti del grande capitale”. Ma lo stesso Tsipras non ha mai rivendicato il memorandum del 2015 come una vittoria. Nella conferenza che ha tenuto recentemente all’Università la Sapienza di Roma ha anzi esordito sostenendo di trovarsi in una situazione decisamente di compromesso. “Un governo di sinistra radicale che compie riforme strutturali è paradossale. Ma siamo stati costretti a fare un compromesso strategico per evitare una sconfitta non strategica”. Ciononostante, sostiene che il solo modo per difendere le classi subalterne sia quello di rimanere al governo e condurre la popolazione fuori dall’assistenza finanziaria nel 2018 cercando di resistere quanto più possibile alle richieste dei creditori.
Per Marika Frangakis, l’accordo tra governo greco ed Eurogruppo del 20 Febbraio ha segnato una svolta politica. “Moscovici, il Commissario per gli Affari Economici, ha riconosciuto per la prima volta che l’austerità è sbagliata e ha garantito che non ci sarà austerità addizionale. Il negoziato sarebbe potuto esser concluso molto prima, ma ha pesato il conflitto tra l’Eurozona e il Fmi. Ma con le elezioni nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania e i leader europei non vogliono avere la questione greca aperta. Gli europei, e in particolare la Germania, da che si erano sempre opposti, ora menzionano l’alleggerimento del debito come una misura necessaria”. Il significato sarà chiaro con le elezioni tedesche di settembre. “Se Spd, Linke, e forse persino Merkel, faranno un governo, la crisi greca potrebbe allentarsi”.
Ma sia per Karitzis che per Lafazani, quello del governo è solo marketing politico. “Nulla di quello che sta facendo Syriza potrebbe esser fatto da altri partiti al governo.” dice Karitzis. Altri governi avrebbero avuto un’opposizione sociale molto più dura. “Perseguire l’agenda neoliberale e aiutare la gente sono scelte tra loro incompatibili”. Frangakis invece rivendica la priorità accordata da Syriza alla crisi umanitaria, contro la quale avrebbe fornito il cibo ai più poveri, garantito l’accesso alla sanità ai disoccupati e a chi è sprovvisto di reddito. “Abbiamo promosso l’economia sociale e solidale per permettere alle persone di mettersi insieme e costruire imprese non profit”. Frangakis racconta anche i successi nella lotta all’evasione fiscale: “nel 2015, con il governo di Syriza, sono stati raccolti 175 milioni di euro dai grandi evasori, nel 2014, durante il governo di Nea Demokratia, erano stati raccolti solo 27 milioni di euro di tasse in più. Syriza inoltre sta provando a tassare i redditi prodotti dalle navi, nonostante il settore navale sia tutelato dalla costituzione”.
Strategie, nazionalismo e migranti
Nonostante le misure di cui parla Frangakis, secondo un sondaggio dell’Università della Macedonia del 13 marzo, Neo Demokratia è data al 38%, Alba Dorata al 9% e Syriza al 18%. Per Karitzis, un esito simile è dovuto alla recisione del legame con le proprie forze sociali. Syriza, colpendo poveri e classe media per rispettare gli accordi, ha portato la popolazione a convincersi dell’impossibilità di un’alternativa all’austerità neoliberale. In questo senso, Karitzis sostiene che la società non ha più i meccanismi di difesa “agli attacchi delle élite” che erano presenti fino al 2015. “Syriza è da biasimare per questa ragione”. Queste scelte hanno accresciuto l’impotenza di Syriza “perché se non sei radicato non puoi muovere le cose nella direzione che desideri. Bisognava lavorare nei quartieri, creando nuove forme di organizzazione, concentrandosi nel creare infrastrutture per i movimenti, sperimentando istituzioni che aiutassero le iniziative della gente ad acquisire potere. Se lo facessero ridefinirebbero il contesto politico e la distribuzione delle forze, e, anche se non fossero al governo, nel paese nulla potrebbe esser fatto senza Syriza”. Sostanzialmente, secondo Karitzis, il problema è la concezione del potere e le pratiche politiche che ne discendono. Il potere sociale prevale su quello politico e con il potere politico bisogna rafforzare quello sociale.
Lafazani, con l’autorganizzazione praticata al City Plaza sostiene qualcosa di simile: “Contro la vittimizzazione dei migranti un governo di sinistra avrebbe dovuto favorirne il coinvolgimento invece di separare e escludere le persone. Se si permettesse maggiormente ai migranti di organizzare la propria vita d’ogni giorno, si libererebbe un grande potenziale. Si favorirebbero le relazioni sociali e il clima quotidiano. Ad esempio, nei campi d’accoglienza statali, la razione di cibo giornaliera per una persona costa tra i 6 e gli 8 euro. E sono piccole porzioni dl cibo terribile e spesso immangiabile. Qui al City Plaza invece il costo al giorno per persona è inferiore a 1 euro e include tre pasti al giorno. Qui la gente cucina per sé, pulisce i piatti, custodisce il palazzo, fa piccole riparazioni, bada alla pulizia degli spazi comuni e delle stanze. Questo discorso riguarda l’economia del campo ma funziona anche per l’economia in generale”. Tsipras, secondo Lafazani, ha usato la questione dei profughi come arma nei negoziati con la Ue. Per l’attivista la questione non è di risorse ma di calcolo politico. Ciò non toglie che inizialmente la proposta di Syriza fosse piuttosto radicale. E fino all’estate 2015 Tsipras è stato di parola. Ha cancellato la terribile operazione di polizia Xenios Zeus volta al rastrellamento e all’espulsione dei migranti varata dal governo Samaras. Ha dato la cittadinanza ai figli degli immigrati contro il parere di Anel, l’alleato nazionalista di governo. Ha permesso ai migranti di andare in Europa. Ha istituito il campo aperto di Eleonas vicino al centro di Atene e ha liberato i migranti detenuti nel campo di Amygdaleza, più volte denunciato per violazione dei diritti umani, senza però rispettare la promessa di chiuderlo. Tsipras non ha cercato alleati negli altri stati europei per far aprire le frontiere della rotta balcanica. Ha lasciato che più di 60mila persone rimanessero intrappolate in Grecia in condizioni giudicate inammissibili da ong come Amnesty. E poi c’è stato lo scellerato accordo tra la Ue e la Turchia per sigillare i confini esterni della Ue. E ad Atene, dove ci sono moltissimi edifici occupati da collettivi anarchici o della sinistra radicale, nel mese di Marzo ci sono stati due sgomberi, come già accaduto a Salonicco nell’estate 2016. Intanto, il ministro degli interni di Syriza Nikolaos Toskas ha dichiarato che gli spazi privati occupati reclamati da parte dei proprietari saranno sgomberati. E dato che la proprietaria del City Plaza ha sporto denuncia lo stesso giorno dell’occupazione nell’aprile 2016, le 400 persone che vivono nell’hotel sono a rischio.
Secondo Frangakis nel 2015 sono arrivate circa 1 milione di persone ma in seguito all’accordo con la Turchia il flusso è diminuito. Frangakis non esita a sostenere che l’accordo con la Turchia non sia “la miglior soluzione possibile, ma la chiusura delle frontiere e il rifiuto di molti paesi Ue di accogliere anche piccole quantità di rifugiati crea difficoltà alla Grecia e ai rifugiati”. Frangakis, citando un documento scritto da Syriza per rispondere agli attacchi della stampa tedesca, la capacità d’accoglienza greca è di 71mila persone a fronte delle 62mila bloccate a seguito della chiusura delle frontiere di Fyrom (Former yugoslav republic of macedonia). Per Karitzis la situazione è tossica. I nazionalisti accusano Syriza di far entrare i migranti in Grecia in quanto poco patriottici e al contempo, con il sovraffollamento delle isole e le pessime condizioni dei campi, anche gli abitanti si trovano in difficoltà. Tutto questo mentre gli attivisti non trovano nel governo una sponda e sono attaccati dalle destre estreme. Solidarity4all, oltre a creare ambulatori sociali e fornire cibo, si occupava di accoglienza per i rifugiati ma dopo la firma del terzo memorandum d’intesa con i creditori nell’estate 2015 anche quella rete ne ha risentito. Ma secondo Karitzis, che è colui che fece impegnare Syriza in questa attività: “Non abbiamo investito abbastanza in Solidarity4All perché né per la maggioranza, né per le minoranza di Syriza era la priorità del partito”.
Futuro senza uscita
Per Karitzis stanno emergendo nuovi fenomeni sociali ma la maggioranza della gente ormai vede che le politiche neoliberali stanno diventando la normalità, perché è mancata una rappresentanza politica che rifiutasse l’austerità. Lafazani sostiene praticamente la stessa cosa: “C’è una dimensione strutturale all’interno della quale possono esser compiuti piccoli cambiamenti. Ma il quadro rimane immutato. Facendo così, hanno legittimato quanto fatto dai governi precedenti. La società, ormai, pensa che sinistra, destra e centro facciano tutti la stessa cosa. E ha assolutamente ragione. Inoltre finché devi ripagare il debito non ci possono essere vere politiche sociali”. Ma Frangakis non ci sta a esser accusata di legittimare l’esistente. “Se non cambia la sua architettura, l’Eurozona e la moneta unica non sono sostenibili. Sono stati fatti troppi errori ed è difficile per la Grecia stare nell’euro per come è stato costruito. Quando la Grecia è entrata nell’euro, io ero parte di Synapsismos (poi confluita come maggioranza della coalizione in Syriza) ed eravamo contrari. La nostra tesi era che la Grecia non sarebbe stata favorita dall’adesione all’euro perché aveva un’economia debole, bassi livelli di produttività, commerciava molto con paesi esterni all’eurozona e aveva una limitata mobilità di capitali e persone verso l’Europa”. Ma per Lafazani, per come stanno le cose, non c’è speranza: “Tsipras ottiene prestiti per pagare il debito. Ma avrebbe dovuto rifiutare di pagarlo o quantomeno posporne la scadenza. E provare a regolare l’economia diversamente. A ora la situazione non è sostenibile”.
Nonostante riconosca la possibilità di uscire dall’euro, Frangakis continua a esser scettica in merito per i vari rischi e difficoltà legate alle pressioni dei mercati finanziari, dove la speculazione vende e compra valute per lucrare sulle aspettative di svalutazione. Ricorda inoltre che la Grexit non è più una minaccia utilizzabile da parte della Grecia, dato che è stata la Germania stessa a usarla nel 2015 quando Schauble disse la Grecia sarebbe stata aiutata se avesse lasciato l’euro. “Ma la Grecia avrebbe dovuto comunque pagare il debito e quel che sarebbe successo dopo non era definito. La Grexit ha senso se c’è allo stesso tempo il default – il rifiuto di pagare il debito, come sostiene Lapavitsas. Varoufakis sosteneva invece che fosse possibile l’uscita dall’euro senza l’insolvenza sul debito. Lasciando l’euro si entrerebbe in una grossa contesa con i creditori che farebbero di tutto per riavere parte di ciò che gli spetta. La Grecia è una piccola economia e anche durante la crisi l’import è stato maggiore dell’export: ci sarebbe bisogno di valuta estera per comprare le merci importate. Noi importiamo cibo, medicine e petrolio. Si potrebbe programmare una strategia di questo tipo, ma nessuno lo ha fatto”. Il presente è insostenibile e il futuro è carico di pericoli. Ma le strategie di resistenza divergono. Le destre radicali si rafforzano e le elité politiche europee continuano imperterrite con la retorica europeista senza dar segno di ravvedimento sulle politiche fin ora attuate. L’asse che ha retto l’Unione fino a ora scricchiola, qualcosa si muove, tra Amsterdam, Barcellona, Parigi e Atene, ma la forza sprigionata dai nazionalisti è soverchiante. E l’esito potrebbe esser un ritorno alla barbarie degli stati nazione. Come spezzare il circolo vizioso tra politiche neoliberali e crescita dell’estrema destra è la questione da affrontare politicamente. Quel che è certo è che dalla Grecia il punto di vista è particolarmente pessimista. Karitzis, ad esempio, per modificare lo status quo, pensa che gli shock delle destre xenofobe costringano i progressisti ad affrontare con maggior radicalità i problemi del proprio tempo.