Epidemiologia, epidemie e storia

“Ecco perché io credo che un altro modo di cogliere il senso del passaggio dalla medicina curativa a quella preventiva sia nel rendersi consapevoli che la diagnosi della malattia non ci basta più: ci occorre la diagnosi di salute”
G.A. Maccacaro – Napoli, 1968
L’epidemiologia – la più umanistica delle discipline mediche – è una scienza sottovalutata forse perché non è correlabile con attività produttive, anzi è ostativa di queste quando ne rivela le contraddizioni e gli impatti sulla salute e sull’ambiente. Poiché solitamente valuta a ritroso le conseguenze dei fenomeni socio-sanitari, viene considerata principalmente come una scienza difensiva della salute – che è la vera enorme merce di scambio sul mercato globale. Anche questa è una sottovalutazione perché se correttamente e liberamente applicata, l’epidemiologia come scienza predittiva e preventiva non avrebbe semplicemente impedito o almeno ridotto l’esito di tanti mali del progresso in materia di salute e sanità (l’amianto, il mercurio, il piombo, i depletori dell’ozono, le troppe sostanze cancerogene disperse nell’ambiente) ma avrebbe anche potuto – e ancora potrebbe – dare un contributo unico per alleviare scientificamente i mali sociali ed economici che sistematicamente accompagnano le disparità di salute su scala locale e globale.
Nel libro di Archibald Cochrane, L’inflazione medica (Feltrinelli, Milano 1973) la distinzione fra efficacia ed efficienza nella medicina, che è possibile facendo un buon uso dell’epidemiologia, mette a nudo tutte le contraddizioni del concetto moderno di salute e delle modalità con le quali si tende a trattare i problemi sanitari oggi: con ottica da un lato tecno-efficientista, dall’altro compassionevole. Cochrane, che aveva vissuto sul campo la drammaticità delle scelte sanitarie in condizioni estreme come medico delle brigate internazionali in Spagna 1936 e in un campo di prigionia a Malta durante la seconda guerra mondiale, esortava a portare la discussione sull’economia politica della salute abbandonando queste visioni, lontane dal bisogno e concentrate sui singoli casi. Occorre ridurre al minimo le soluzioni ipertecnologiche in medicina, costose e insostenibili, che facilitano sia chi sostiene i sistemi privati perché “non si può continuare a spendere tanto per la sanità pubblica”, sia coloro che da tutt’altra parte politica rivendicano la necessità di estendere a tutti quelle stesse cure perché erroneamente le considerano uniche risolutrici dei problemi di salute pubblica scordando i vantaggi economici e sociali delle politiche di prevenzione.
Prima di chiederci se sia giusto e sostenibile l’aumento illimitato delle spese sanitarie – suggeriva Cochrane – è necessario sapere a cosa queste possono davvero servire. Nel modello sanitario consumistico, si inganna la richiesta di efficacia con l’esibizione di efficienza abbinando alla cura costi elevati e spettacolarità tecnologica, due elementi di consolazione della modernità. Ma se non c’è efficacia, cioè se non cala la richiesta di cura ma addirittura la si persegue come occasione di profitto – vedasi il sistema sanitario privato, – nessun sistema sanitario è in grado di sostenere a lungo la situazione. Occorre perciò sempre un ragionamento anche sulle “cause delle malattie” per debellarle non solo con la cura quando si manifestano con tutta la loro potenza distruttiva ma alla loro origine quando ancora sono riducibili con la prevenzione – come accade con i vaccini, l’igiene, la profilassi alimentare. E se questo non bastasse, occorrerebbe allora un discorso ancor più approfondito sulle “cause delle cause delle malattie”, che è esattamente e urgentemente ciò che dovremo fare per la catastrofe del Coronavirus, collettivamente, appena dopo l’emergenza. È questo il vero campo di lavoro e di affermazione dell’epidemiologia come scienza al servizio dell’uomo. Si aggiungerebbe così alle caratteristiche del Servizio Sanitario – concludeva Cochrane – oltre all’aggettivo nazionale, preziosissimo per la collettività ma con efficacia da verificare, anche quello più qualificativo e indispensabile di razionale.
Anche la storia delle epidemie è una questione troppo sbrigativamente emarginata sia nella cultura scientifica occidentale sia in quella umanistica. Se si guarda alla storiografia andando oltre la visione tradizionale che la prefigura come sola analisi degli eventi geopolitici in un flusso ininterrotto di lotte per il potere e si allarga lo sguardo su intervalli storici che travalicano i singoli e gli interessi individuali, si possono vedere cambiamenti che si estendono attraverso i secoli e che integrano la storia delle popolazioni, dei gruppi sociali o dei cicli economici e istituzionali con le variazioni biologiche e ambientali.
Quando le caravelle di Cristoforo Colombo attraversarono l’Atlantico, la densità di popolazione fra le diverse aree del mondo – più o meno civilizzato e conosciuto dall’Europa all’India, alla Persia, al Perù alla valle dello Yangzi in Cina – era in media sostanzialmente identica. La distribuzione degli esseri umani dipendeva per lo più dalla disponibilità di risorse e dal clima locale. Quando gli abitanti dei due mondi, il vecchio e il nuovo, vennero per la prima volta a contatto, gli occidentali avevano vantaggio non solo in termini di capacità culturali e tecnologiche come la polvere da sparo e l’acciaio, ma anche in termini biologici per le risorse disponibili grazie all’allevamento degli animali: carne, latte, fibre, cuoio e concimi per l’agricoltura. Anche gli amerindi avevano un vantaggio non secondario in termini evoluzionistici: fino al 1492 avevano sofferto molto meno degli euroasiatici e degli africani gli effetti delle malattie infettive da zoonosi, trasmesse all’uomo proprio per la convivenza con gli animali da allevamento.
L’invasione degli europei nelle Americhe, oltre che per la violenza direttamente esercitata con lame e schioppi, ebbe conseguenze devastanti per le popolazioni indigene anche a causa di virus e batteri di nuova importazione, paragonabili soltanto agli effetti della peste nera che colpì l’Europa e il Medio Oriente nel XIV secolo. Per converso, in Europa arrivò rapidamente la sifilide fino ad allora totalmente sconosciuta come le patate, il mais, i pomodori, il tabacco, il cacao e i tacchini. Colombo fece ritorno con due sole caravelle nel marzo 1493: la prima epidemia di sifilide si registrò nel vecchio mondo poco più di due anni più tardi, il 6 luglio 1495, diffusa dai soldati quando i resti dell’esercito di Carlo VIII si scontrarono nella Battaglia di Fornovo con le truppe spagnole e la lega degli Stati italiani.
Gli intrecci fra le storie della società e della natura sono anche più profondi e inattesi di quanto immaginiamo. L’occupazione delle Americhe da parte degli europei sarebbe stata economicamente improduttiva senza lavoratori da impiegare per il loro sfruttamento. Quando i primi conquistadores si accorsero che gli amerindi delle odierne Bahamas, del Nicaragua e della costa brasiliana venuti a contatto con l’uomo bianco erano falcidiati non solo da malattie a epidemia ciclica come il vaiolo, il colera e la peste, ma anche da patologie endemiche in Europa come il morbillo, la varicella, la scarlattina o semplici influenze, provarono a soggiogare popolazioni più a sud e più interne in Sudamerica, ma solo per osservare anche per queste il rapido sviluppo di pestilenze che cancellarono intere etnie. Soltanto la peste di Giustiniano nel VI secolo aveva creato nell’intero bacino del Mediterraneo una tale carenza di popolazioni da schiavizzare. I mercanti cristiani e musulmani dovettero spostare le razzie verso l’Europa nordoccidentale – verso le popolazione che chiamiamo slave usando un aggettivo che in inglese corrisponde al sostantivo schiavo – e verso l’Africa interna. Lo stesso accadde nel XVI secolo per l’impiego di manodopera schiavizzata nei territori del nuovo mondo. Cronologicamente, i primi commercianti di schiavi dall’Africa verso le Americhe con scalo a Capo Verde furono i portoghesi: si calcola che nel 1551 un decimo della popolazione di Lisbona fosse costituita da schiavi africani, nelle zone interne del Portogallo la loro percentuale era anche più elevata.
È evidente allora l’errore che si commette nel fare storiografia senza considerare oltre a quella culturale la storia della natura e dell’evoluzione biologica che nel nostro immaginario appare quasi immobile ma che ha invece condizionato e condiziona le nostre pretese di civiltà. Esiste, insomma, una sovrapposizione di prospettive da considerare ciascuna nel proprio livello di complessità per l’analisi delle vicende umane e naturali che più frequentemente di quanto non si pensi convergono e si manifestano come momenti di discontinuità che a noi appaiono come singolarità ma che rappresentano invece il punto di confluenza di un cambiamento multiforme. È un’ipotesi valida anche per la pandemia da coronavirus che stiamo vivendo in questi giorni: il primo caso nella storia umana di un’epidemia che si sviluppa e colpisce a distanza di poche settimane l’una dall’altra tutte le nazioni e le popolazioni del mondo. Un evento che non sarebbe stato possibile, perlomeno non con la velocità (altro totem della modernità) e l’inesorabilità che osserviamo adesso, fino a pochi decenni fa in un mondo non ancora globalizzato e antropizzato in modo ubiquitario.