Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Elogio dell’età ingrata

8 Giugno 2013
Piergiorgio Giacchè

Tutte le età che si fuggon tuttavia…

A volte la cultura fa dei miracoli, al solito cambiando tutto senza che nessuno se ne accorga. Così è stato per la scansione e la valutazione delle varie età della vita. Mentre si rimane affezionati a vecchi luoghi comuni, nel comportamento reale e nell’opinione sostanziale cambiano molte cose e fin troppe idee, che si stratificano sopra i sedimenti e gli stereotipi che magari nessuno mette in discussione, ma che non descrivono più la vera situazione. “Eppur si muove”, se è vero che nei fatti e nei pensieri le classi d’età che ieri erano fortunate sono cadute in disgrazia, mentre quelle che “per natura” sono marginali godono di una protezione culturale che sta diventando addirittura cultuale.

Quanto era bella giovinezza e quanto oggi sia diventata l’angoscia di tutti è noto a tutti, anche se si continua a cantarne le lodi e prometterle una riscossa. Quanto poi appariva decisiva nel sociale e risolutiva nel privato l’età adulta o matura – quella dell’aver lavoro e del metter su famiglia – ancora oggi “pare”, eppure a esserci dentro ci si accorge che sta diventando l’età più incerta e più impotente: intanto perché – per molti – è sempre più rinviata di là da venire, quindi – per quegli attori sociali che allo stato adulto ci arrivano davvero – perché vissuta in precarietà e consumata in accelerazione. Si ha la sensazione cioè che tutte le età di mezzo si debbano attraversare e valutare tra parentesi, accerchiate come sono dalle due nuove stabilità dell’Infanzia e della Vecchiaia, a cui si rivolgono non poche cure della società dei servizi e molte offerte della cultura dei consumi.

Così, a dispetto dell’energia dirompente della giovinezza che si fugge tuttavia e della maturità che fugge dalle sue responsabilità (rinviando perfino i desideri all’età d’argento della pensione), i bambini e i vecchi passano da poli terminali a soggetti centrali dell’attenzione e della speranza. Fino al paradosso di sperare di “rimbambire” al più presto e il più a lungo possibile, dopo aver allungato la tratta del “bamboleggiare” infantile ben oltre l’età della ragione e al di là del ragionevole. In sintesi – in cultura e contro natura – l’Infanzia e la Vecchiaia diventano le piattaforme più estese mentre le altre età della vita accorciano il passo e riducono il loro valore. Se però tirare per le lunghe la vecchiaia si può comprendere, tirare il collo all’infanzia perché si allunghi a dismisura è un peccato culturale mortale.

Al solito sono i bambini a rimetterci di più e per sempre. Sono loro a essere mangiati dai consumisti, cioè da un abbraccio e uno sguardo adulto che li elegge a motivi e motori del loro mondo fatto Mercato, investendo e mentendo sulla loro innata creatività e genialità e perfino divinità. Una letterale pedofilia ha avvelenato ogni forma di nuova pedagogia: le incessanti riforme permissive e proiettive – benché smentite dai fatti e dai delitti ancora numerosi – colorano l’atteggiamento e l’opinione di tutti. Che “bambino è bello” è da sempre e pur sempre vero, ma che “bambino è tutto”, un essere di per sé completo e creativo, ricco di fantasia e geniale per intelligenza, più da liberare che da educare, incoraggiando più l’espressione che la riflessione… beh, è davvero un’esagerazione su cui è il caso appunto di riflettere. Una volta messo così “bene” non c’è verso di farlo cambiare in “meglio”. E il sospetto che gli si voglia bloccare la crescita in altezza a favore di una sua dilatazione in larghezza, fino all’obesità, sta diventando una certezza.

Il fatto è che il suo “esserino” è ahimè destinato a crescere, ed è proprio ogni sua trasformazione chiamata trauma, quello che la cultura e la società sta avversando con tutte le sue forze. Presto, troppo presto infatti, il bambino approda a quell’età ingrata in cui non è più carne né pesce, e dunque non lo si sa più come conservare e infine consumare. In fondo, anche la Società dei Consumi, con tutta la sua vastità e varietà e ambiguità – proprio come le antiquate e superate società tradizionali – rifiuta ogni cambiamento. Soltanto che preferisce rimuovere il problema anziché svolgere il tema: non adopera più riti di passaggio che riconoscono la mutazione individuale e la reintegrano nella stabilità sociale. Non saprebbe come ma nemmeno dove farli. Non c’è più fuori di sé una liminarità né sacra né profana, dato che il suo Mercato ha occupato tutto il tempo libero e lo spazio vuoto possibile: è lui semmai il rituale o meglio il carnevale incessante che si espande nell’infinito non-luogo e nell’indefinito fuori-tempo che lui stesso ha creato. Il suo “paesaggio” sostituisce e assorbe in sé ogni “passaggio”, ma certo non risolve la questione, malgrado la continua invenzione e apertura di nuovi reparti – davvero per tutte le età – nel suo sterminato paese dei balocchi. L’adolescente allora (ma anche il giovane, l’adulto, il vecchio e via viagrando) non può essere trattato che come un’altra forma di bambino, che continuerà a crescere in obesità fino al delirio, a immagine e somiglianza di quell’ipermercato dove viene ospitato per tutto il tempo che vuole. Per tutto il tempo che c’è.

“Che bel paese, che bel paese!”, diranno allora tutti i pinocchi del mondo, perché appunto la scuola in quel paese non c’è. Ed è invece proprio questa l’istituzione che dovrebbe svolgere diversamente il tema della vita, magari eleggendo a maestra la storia… anche se non certo la sua! La storia della scuola parla chiaro e netto: non ha più autorità da quando non ha più autonomia (o viceversa). Non importa analizzare le riforme che ha subito, il fatto che le abbia sempre subite e mai “promosse” parla da solo.

L’età difficile e dimenticata

Non sarebbe tanto facile cogliere bene la data di inizio e di scadenza di quella che si può chiamare “la prima adolescenza” se non ci fossero di mezzo le scuole, appunto medie e in tutti i sensi inferiori. Quel triennio corrisponde infatti al periodo cosiddetto difficile e così malfatto e maltrattato che gli insegnanti e i genitori e gli infermieri e i carabinieri… non sanno bene cosa dire e come intervenire e nemmeno con chi hanno a che fare. Fra il bambino piccolo e il bamboccio giovane si inserisce qualcuno che non ha stabilità e nemmeno un’identità: non un essere ma un divenire e, in quanto tale, non ha cittadinanza né riconoscimento perché “in-fermo” cioè non fermo. E infine – è bene che lo sappia anche lui – è un po’ malato.

Non è nulla, passerà presto, ma intanto la preoccupazione morale e medica e scolastica è il sentimento che lo incalza, mentre la malattia del divenire gli sta cambiando la voce e fa crescere il pelo e gonfiare il petto e accendere il sesso, per di più in modi e tempi diseguali, perfino talvolta personali. E sempre conflittuali con (tutti) quanti li guardano con diffidenza e insieme con supponenza.

Intanto, nessun adulto sembra volersi ricordare di quell’età, ma soltanto del prima e del dopo la transizione. La rimozione delle autentiche memorie della prima adolescenza è forse l’atteggiamento adulto più patetico e però più colpevole. E questa bugia dell’oblio ha le gambe lunghissime se è vero che tutti concorrono a ripetersela, sia pure aggiungendo un pizzico di benevola comprensione che suona così: “benedetti ragazzi!”

Già, perché in fondo si tratta di quei “ragazzi” di cui parlano tutti i romanzi e che ancora oggi sono il nome di tutti – quando siamo “fra noi” – in tutte le età seguenti fino ai novant’anni. Chissà perché poi c’è restata appiccicata addosso questa definizione, se poi si guarda ai ragazzi di oggi come una iattura! Forse perché – fino al nostro ieri – quell’età di mezzo era ancora la prateria verso cui si spingevano al pascolo i bambini il più presto possibile e dalla quale per ogni giovane adulto era difficile staccarsi. Forse perché la crescita, soprattutto nel suo momento di improvvisa e sconvolgente accelerazione, veniva incoraggiata e affrontata come il vero ingresso nella vita sociale. Per esempio – ancora una volta a scuola – c’erano “esami di ammissione”, c’erano ostacoli più alti e però ambìti, c’era un agognato cambio di vesti e di gesti, c’era la soddisfazione e la fatica peraltro collettiva di una nuova socialità e perfino di una incipiente responsabilità.

Non si sa allora perché mai gli adulti vogliano scordarsi quell’età che pure celebrano quando diventa un loro ricordo, quando è passata e non è più passante. A meno che non ci sia di mezzo la paura e non la prudenza: una paura che al solito si attribuisce ai tempi cambiati che renderebbero impossibile una diversa gestione e una più aperta attenzione ai “nostri” ragazzi. E questa paura, per quanto vile ed egoistica, è davvero fondata. La società gioca in difesa, in chiusura, in “paura” e non offre più un presente – altro che un futuro – ai “suoi” ragazzi. La scuola, quella Media e in ogni senso Inferiore, si accontenta di intrattenerli con riti di passeggio e non di passaggio, non vedendo l’ora di liberarsi di quei ragazzi non ancora giovani e non più bambini, che non si sa come classificare se non come discoli senza freno o bulli senza pupe.

La famiglia o in famiglia infine che si dice? A una certa età i ragazzi chi li capisce? Nemmeno loro stessi. E allora lasciamoli fare. Cresceranno.

I migliori anni della loro vita

È appunto questo della crescita il tema e non il problema: quell’età verso cui si è ingrati è l’unica in cui i ragazzi si vedono e si sentono crescere. Non per gradi ma verso i grandi, con la fretta di chi procede per salti e perfino per traumi. Inutile cercare di allungare sopra di loro la coperta del bambinismo infantile o peggio anticipare quella di un bamboccismo giovanile al fine di coprire ad ogni costo le pudenda di uno sviluppo che si impone come sconvolgimento del corpo e confusione della mente. Ma poi di quale sconvolgimento e confusione si tratta?

Il cambio della voce o l’arrivo del mestruo, la nascita del dubbio o la scoperta del rischio, in fondo sono soprese attese; molto più traumatica è stata da bambini la caduta dei denti da latte, ma su quella ci si ride sopra e si mettono le monetine sotto il bicchiere. Il fatto è che l’infanzia sembra uno scherzo mentre l’adolescenza entra in gioco, e questo agli adulti non piace gran che. Invece, se resuscitassero un ricordo personale onesto e si attivasse una giusta valutazione culturale, quegli “anni difficili” rivelerebbero i loro veri preziosi contenuti.

C’è in quella “età ingrata” uno stupore dovuto al senso panico e un’apertura al mondo reale che vale la scoperta della coscienza; c’è anche una energia potente che sfiora il suo delirio, una voglia che non è ancora volontà ferma ma nemmeno desiderio preciso. E infine una fede che non è ancora credenza, una speranza che è ottimismo naturale allo stato puro, una carità istintiva ancorché guidata dall’empatia e limitata da un senso di giustizia allo stato primitivo – che poi sarà la base solida di un’etica personale di là da venire, ma anche da sparire. Tutte le virtù teologali e cardinali si affacciano come comete nel cielo della mutazione adolescente, mentre da terra una potente antiaerea le prende di mira e spesso le abbatte.

I ragazzi di quell’età di mezzo stanno in cielo e in terra e in nessun luogo: non disdegnano il confronto con la società e la cultura, ma anzi sono nella posizione più aperta per prendere e perdere tutto – per “apprendere”, in una sola parola – viste le prove e le tentazioni, le sfide e le distrazioni che li attraggono e li impegnano. Ma infine, la stessa violenta “riduzione a ragione” di quel latente ma prepotente “entusiasmo” che li anima, la stessa presa d’atto della realtà – anche la più dura e incoerente con i loro sentimenti e valori – è vissuta dai ragazzi come un’avventura o dentro l’avventura.

Ad-ventura è appunto “esperienza dell’avvenire”, e la sete di esperienze e la disponibilità all’incontro, alla lotta, alla costruzione di sé e del proprio contesto è forte. Non sarà più così forte e così pura, almeno in potenza.

Così, che la società lo voglia o no e che la scuola lo sappia o meno, i ragazzi medi e inferiori vivono e gestiscono in proprio la loro iniziazione, dandosi contenuti (miti) e forme (riti) diversi dall’ordinario e aperti allo straordinario. Entrano in una loro liminalità dove non conta tanto l’istruzione per l’uso quanto la deviazione per uno scambio diverso dal quotidiano, che inaugura una possibilità di critica dentro la pratica della disobbedienza. Si può allora cogliere l’occasione di anteporre finalmente la riflessività alla creatività, passando dalla “originale” espressività bambina alla pensosa assimilazione “personale” della cultura. Si può infine partecipare alla dimensione di una comunità di coetanei diversa dalla sociabilità infantile: talvolta un gruppo che si muove come una squadra, ma talaltra una squadra che si struttura come un coro. In questo caso fortunato e virtuoso l’adolescente si rende disponibile all’incontro e al regalo: forse in nessuna altra età con lo stesso slancio verso l’alto, con la stessa generosità e fiducia verso l’altro.

Si dirà che queste occasioni e questi casi sono eccezioni, ma non è vero: vi sono percezioni intense e disponibilità frequenti in quell’età in cui si affacciano – per la prima ma può darsi anche per l’ultima volta – le domande ultime e le ricerche intime sul senso della vita.

È un passaggio, niente di più ma niente di meno. E quello che non si sa cogliere o difendere di questo “divenire” rapidamente muore, spesso soffocato con le proprie mani ma sempre su imitazione di un adulto o su istigazione di un mandante. Dunque, la società e la scuola e la famiglia hanno una responsabilità enorme, ed è per questo che si sono fatti un altro ritratto dell’età che si vuole ingrata mentre è “piena di s-grazia”. Sono appunto sgraziati i ragazzi nel periodo della loro emergenza, ma disgraziati divengono soltanto dopo la reazione o l’indifferenza del contesto sociale e famigliare. La scuola che si mette in mezzo proprio per aprire un testo diverso, non ha più nemmeno l’idea di quanto è grande la sua impotenza. Di quanto è diventata sempre più assente e demente e infine delinquente…

Ricordate il solito profeta Pasolini? La sua maledizione riguardava nello stesso tempo la televisione e la scuola media. Chissà perché tutti si ricordano della prima e del suo potere e dimenticano – forse perdonano – l’impotenza della seconda. Già, chissà perché.

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