Dove vanno i Verdi tedeschi?
A metà dello scorso mese di luglio Annalena Baerbock, ministra tedesca degli Esteri, ha annunciato che non si ripresenterà come candidata cancelliera per i Verdi alle prossime elezioni federali, fissate tra poco più di un anno, a settembre del 2025.
In questo modo, qualora i Grünen dovessero decidere di proporre un loro candidato alla cancelleria, sembra spianata la strada all’attuale ministro dell’Economia (e per la tutela del clima), Robert Habeck. Per dovere di cronaca, va ricordato che nel 2021 fu proprio quest’ultimo a farsi da parte e lanciare la candidatura di Baerbock, con la quale allora condivideva la presidenza del partito.
Almeno per ora, l’annuncio non sembra aver ridato l’antico vigore ai Grünen (in tedesco il partito dei Verdi è appunto Die Grünen, mentre ver.di è la sigla che indica il sindacato dei servizi). Tuttavia, segna una cesura importante nella loro storia recente, perché coincide, per quanto la diretta interessata neghi, con il fallimento della politica estera femminista, con la quale Baerbock intendeva cambiare radicalmente il ministero degli Esteri e prepararsi a una nuova corsa per la cancelleria. Al di là delle velleità personali, dopo quattro anni di governo ad andare in crisi è stato il progetto complessivo, condiviso da Habeck, che Baerbock aveva in mente.
Molto probabilmente non potrà bastare un cambio al vertice per farlo rifiorire. Una nuova leadership potrebbe aiutare, perlomeno, ad affrontare un anno difficile in vista della prossima campagna elettorale per il Bundestag. Ma il partito non potrà limitarsi a cambi di facciata.
È indubbio che i Grünen abbiano contribuito a cambiare la storia della politica tedesca-occidentale.
Negli anni Ottanta, cavalcando il movimento pacifista e ambientalista, riuscirono a costruire un progetto capace di mettere in discussione il monopolio delle Volksparteien, di conservatori e socialdemocratici. Celebre l’immagine di Joshka Fischer, allora indiscusso leader del partito, che giura da ministro dell’Assia indossando scarpe da ginnastica.
Erano i tempi del “partito antisistema” – oggi qualcuno potrebbe definirlo, a torto, “partito populista” – che arrivò a mandare in pensione, nientemeno, il padre dell’unificazione tedesca, Helmut Kohl. Quasi un decennio dopo la caduta del Muro – era il 1998 – senza l’appoggio dei Verdi i socialdemocratici non sarebbero mai riusciti a portare un loro rappresentante, Gerhard Schröder, alla cancelleria. Fu sempre Fischer a voler imprimere al partito una svolta nell’approccio tradizionalmente pacifista, che condusse i Verdi a non respingere l’opzione militare per sostenere l’intervento nella ex Jugoslavia.
Fu coniato allora uno slogan, molto discusso per la verità: “mai più Auschwitz”, indicando proprio la necessità di intervenire in caso di sistematiche violazioni dei diritti umani. Anche di quella svolta resta celebre un’immagine: Fischer al congresso del partito, che continua a parlare nel tentativo di spiegare le proprie posizioni, nonostante il volto e i vestiti imbrattati dal colore lanciato da alcuni militanti che lo contestano.
Da allora il partito ha seguito un iter che alcuni hanno definito di “normalizzazione”, altri di “istituzionalizzazione”. Un processo che ha portato quel partito a diventare sempre più pragmatico, grazie a diverse e variabili alleanze, allo scopo di ricavarne risultati concreti.
Il governo, se davvero è uno strumento, non può conoscere limiti “ideologici”: il che significa che sulla carta vanno considerate alleanze di ogni genere.
Ci si allea con la socialdemocrazia (con la Spd) e con la sinistra (con la Linke); ma, se occorre, anche con i Liberali (Fdp) e i conservatori (Cdu/Csu).
I Verdi negli ultimi decenni hanno reso dinamico il sistema politico tedesco perché hanno accettato di condividere responsabilità di governo con tutti i partiti con i quali è stato possibile definire patti di coalizione; quindi, nei fatti, con tutti ad accezione degli estremisti di destra di Alternative für Deutschland (AfD). Giova ricordare che nel 2017 si erano detti disponibili a entrare in un governo guidato da Angela Merkel aperto anche ai Liberali: furono proprio questi ultimi a far naufragare quell’alleanza inedita, da cui invece la democrazia tedesca avrebbe potuto trarre beneficio.
Nel frattempo, in diversi Länder, i Grünen hanno sperimentato coalizioni di ogni colore: a Berlino per un lungo periodo con Spd e Linke, in Renania-Palatinato (Rheinland-Pfalz) condividendo (tuttora) il governo con Spd e Fdp, in Assia (Hessen) governando (sino al 2026, salvo sorprese) con i conservatori. Senza dimenticare il primo, e finora unico, loro presidente del governo di un Land, Winfried Kretschmann, classe 1948, che dal 2011 governa la regione di Stoccarda (il ricco Baden-Württemberg), prima con i socialdemocratici e poi, sino ad oggi, con i conservatori.
Questa disponibilità ad alleanze via via diverse a seconda delle condizioni politiche ha fatto sì che il partito e i suoi leader venissero a più riprese accusati di trasformismo. Una “adattabilità” sospetta agli occhi di molti, motivabile più che altro con la convenienza che deriva dall’essere al potere.
Tuttavia, in un sistema elettorale proporzionale come quello tedesco, la cultura politica che tiene aperte coalizioni altrove considerate impensabili, e che sarebbero interpretate come un vero e proprio tradimento di fronte all’elettorato, è fondamentale affinché la democrazia possa svilupparsi ed evolvere, piuttosto che correre il rischio di arroccarsi su alcune formule, come una coalizione tra conservatori e socialdemocratici presentata come “senza alternative”. È dunque possibile sostenere a ragion veduta che nel corso della loro storia i Verdi abbiano dato al sistema democratico della Repubblica federale, al suo miglioramento e alla sua messa in piano rispetto al mutare dei tempi, un contributo affatto trascurabile.
Questo lungo percorso all’interno delle istituzioni ne ha fatto un partito ibrido. Lontano dalle origini, ma pur sempre sufficientemente definito nei suoi caratteri di base per essere giudicato non di rado da chi valuta il mondo dei Grünen da fuori troppo radicale, soprattutto rispetto ai temi della transizione verde.
Questa residua fedeltà alle origini non è stata priva di conseguenze, soprattutto rispetto alla capacità di attrarre fasce di elettorato nuove, in particolare quelle tradizionalmente più vicine alla socialdemocrazia, che nei Verdi vedono in primo luogo un partito elitario, incapace di comprendere e considerare le esigenze del ceto medio impoverito.
È una dinamica nota anche in Italia, su cui i partiti un tempo considerati moderati e oggi via via sempre meno lontani dal conservatorismo di destra fanno leva.
Tipico il caso della mobilità elettrica, che spesso porta i suoi oppositori a citare il caso dei Gilets jaunes, il movimento dei gilet gialli francesi nato alla fine del 2018. Voi, è il ragionamento, vi riempite la bocca di transizione verde, immaginando un passaggio totale dal motore endotermico per il trasporto privato a quello elettrico, che andrebbe a sostituire per obbligo tutte le auto in circolazione, incluse quelle dotate di motorizzazione ibrida. Noi, che siamo dalla parte del popolo, sappiamo che il vostro è un atteggiamento snob, che non tiene conto delle reali capacità economica dei cittadini, a cominciare da chi usa l’auto per lavoro e non può scegliere di limitarne l’uso o non è in grado di rottamare la propria in cambio di una elettrica.
In questo modo, anche nel Paese di Volkswagen, Mercedes, Bmw e Audi, una delle accuse più comuni che vengono rivolte a chi sostiene invece una transizione all’elettrico – e, in parallelo, a chi propugna un massiccio investimento in energie rinnovabili – è quella di far pagare il prezzo della riconversione alle fasce deboli della società.
Ciò riguarda non solo la mobilità, ma anche l’adeguamento degli immobili, con l’obbligo di costose ristrutturazioni per adeguare le case a standard ecologici più stringenti. Le recenti vicende del Green Deal europeo e lo slittamento dei termini temporali ne sono una chiara dimostrazione.
Nel frattempo, la Germania, che ha messo al bando l’energia prodotta dal nucleare (gli ultimi reattori sono stati spenti lo scorso anno), ha sviluppato le proprie infrastrutture green, arrivando a produrre circa il 50% dell’energia da fonti rinnovabili.
Ci sono quindi ragioni concrete per motivare la crisi attraversata dal maggiore partito ecologista europeo, passato dal 20,5% raccolto alle elezioni europee del 2019 all’attuale 11,9%. Ragioni, tuttavia, non sufficienti. Stando a tutti i sondaggi più recenti, i Grünen alle prossime elezioni federali sono dati in calo. Così come alle prossime elezioni in tre Bundesländer orientali, dove, sempre secondo i sondaggi, i Verdi rischiano di perdere un po’ ovunque diversi punti percentuali.
Si tratta, d’altronde, del seguito della batosta presa alle elezioni di inizio giugno per il rinnovo del Parlamento europeo, dove la Germania ha eletto 96 parlamentari, di cui soltanto 12 nei banchi dei Verdi (oltre ai 3 di Volt, che fanno parte dello stesso gruppo), rispetto ai precedenti 21, su un totale di 53 (erano 74) dell’attuale gruppo Greens/Efa: esito dei quasi quasi tre milioni di voti in meno ottenuti.
Il progressivo passaggio da partito movimento a partito di sistema, dunque, percepito come colluso in qualche modo con chi tiene in mano le leve del potere, non ha visto un cambio di prospettiva da parte dei vertici, come dimostra da ultimo il voto per la riconferma a capo della Commissione di Ursula von der Leyen, eletta proprio grazie ai voti del gruppo dei Greens, che si è lasciato convincere dalle promesse della presidente rispetto al Green Deal europeo.
I Verdi, certamente non solo quelli tedeschi, si trovano ora in una situazione particolarmente difficile e rischiano di deludere molte delle aspettative degli elettori e delle elettrici che li hanno sin qui sostenuti. Coerenti con la loro anima ecologista e pacifista, si trovano invece a dovere affrontare una vera e propria impasse sul fronte del sostegno all’Ucraina, di cui la Commissione von der Leyen è stata artefice importante nel mandato appena concluso e di cui si preannuncia, sin dalle dichiarazioni programmatiche, di continuare a essere nel mandato appena avviato.
Restando al caso tedesco, a Berlino le prospettive non sono buone per nessuno dei tre partiti della Ampelkoalition (la “coalizione semaforo”). Decisiva si è rivelata in questo senso la Zeitenwende, la svolta epocale, determinata dalla guerra russa in Ucraina, rispetto alla quale i Verdi hanno accettato la linea realista dell’aumento per le spese militari propugnata da Scholz, salvo poi non mostrarsi in grado di prospettare soluzioni nuove da affiancargli.
Nel suo ruolo di ministra degli Esteri, Baerbock non è riuscita ad andare oltre formule di principio più che altro descrittive del contesto ma del tutto evanescenti sotto il profilo normativo e progettuale.
Per quanto riguarda poi la guerra nella Striscia di Gaza l’immobilismo è stato per certi versi ancora maggiore, per quanto Habeck abbia provato, il che gli va riconosciuto, ad avviare una discussione pubblica sul problema dell’antisemitismo.
Siamo dunque lontanissimi dal tempo in cui Joschka Fischer immaginava soluzioni per l’Europa (Vom Staatenverbund zur Föderation – Da una confederazione di Stati a una federazione – è il titolo del discorso, poi divenuto celebre, che tenne il 12 maggio 2000 all’Università Humboldt di Berlino).
Nelle situazioni critiche, va ricordato, in Germania è la cancelleria ad avere l’ultima parola, ed è quindi stato Scholz che in più di un’occasione – su tutte l’Ucraina – ha preteso di guidare la propria, litigiosa, coalizione. Ma anche premesso ciò, dunque addossando innanzitutto al cancelliere la responsabilità delle scelte più rilevanti, il giudizio sull’operato della ministra degli Esteri difficilmente può essere positivo. Occorrevano azioni concrete e meno proclami: a mancare nelle buone intenzioni di Baerbock è stata quella visione che dovrebbe definire ogni progetto di politica estera, per quanto minimalista.
Non è un caso che siano state proprio le tensioni tra cancelleria e ministero ad affossare uno dei progetti che il governo avrebbe voluto portare a compimento, vale a dire la nascita di un consiglio di sicurezza nazionale.
Se da un lato la situazione dei Verdi tedeschi si trova segnata da quella natura ibrida di cui abbiamo detto e probabilmente potrà giovarsi della guida di Habeck, dall’altro il partito oggi deve fare i conti con una condizione generale della Germania e dello scenario internazionale tutt’altro che lineare, che nel complesso vede anche indebolito il ruolo politico dei partiti ecologisti in tutta Europa, seppure con alcuni segni di vitalità.
In un contesto particolarmente difficile e incerto, pure in chiave europea, saranno richiesti meno retorica e più pragmatismo. Il che non potrà che aumentare gli allarmi della sinistra interna a un partito che, in questo momento, non sembra davvero avere alternative.