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Diventare adulti in Italia

8 Giugno 2013
Stefano Laffi

Orfani

Essendo un “ricercatore sul campo” prendo il treno tre o quattro volte la settimana per raggiungere la mia meta, per andare in diverse città a svolgere ricerche sociologiche, fare interviste, studiare i dati, chiamato da assessori, da amministratori locali e funzionari, ovvero da qualcuno che deve risolvere i conflitti sociali sul territorio, gestire i rapporti con segmenti diversi di popolazione, scoprire bisogni e risorse di un quartiere. Ho però una visione che non è larga quanto l’Italia perché raramente riesco a scendere sotto Roma, è più difficile essere chiamati nel senso che c’è meno tradizione di ricerca e meno possibilità di lavoro, spesso anche meno risorse. Ho un punto di vista molto legato al Nord, ai temi che investono i giovani, i bambini, l’infanzia, la condizione dell’adolescenza.

Cosa emerge da questo spaccato, al di là delle tante cose che ovviamente capita di leggere sui giovani senza futuro? Incontrando spesso anche gruppi di ragazzi, insegnanti, associazioni di genitori e così via, ho la netta sensazione di una condizione generale che chiamerei di “orfanezza”: vedo ragazzi, bambini ma anche adulti letteralmente orfani in questo periodo, privi dei padri che valevano fino a ieri, degli adulti e genitori che avevano fino a ieri. A me sembra che la cosa più clamorosa avvenuta negli ultimi anni sia proprio la perdita di qualsiasi riferimento istituzionale: a Milano, dove vivo, ma anche in altre città del Nord la credibilità delle istituzioni è bassissima, la corruzione a Milano ha coinvolto tanto le giunte provinciali di centro sinistra quanto le giunte comunali di centro destra, e la crisi attuale della Lega nord ha finito per corrompere una forma possibile di cittadinanza – la protesta –, e per molti questo ha significato il tramonto del miraggio di portare il dissenso dentro le istituzioni, di andare al potere per scardinarne i meccanismi.

La questione oggi non è più chi andare a votare ma se andare a votare. Al Nord è letteralmente così, non perché si sia diffusa l’anarchia come forma di ribellione ma per la perdita radicale di riferimenti istituzionali credibili. Sicuramente si è orfani delle forme di rappresentanza e delle istituzioni, si è persa l’idea che il voto sia la scelta di chi si occuperà della “cosa pubblica”, perché nessun luogo più dell’istituzione in questi anni ha consentito di fare i propri affari e i propri interessi. Il paradosso che questa sfiducia, questo disincanto vale anche per chi ci vive nelle istituzioni, chi ci lavora e ne trae lo stipendio, dentro un’Asl o una sede comunale. In fondo sono orfani anche gli elettori del Movimento 5 Stelle, delusi dai partiti o nati già senza partiti, e sono orfani i giovani, degli adulti e dei loro padri in generale – perché hanno assistito negli ultimi anni alla caduta di qualunque esemplarità – come lo sono di prospettive di lavoro, di reddito e possibilità di cittadinanza, perché al di là di qualunque annuncio di ripresa nel tempo a venire oggi nessuno crede che la crisi sia temporanea. Pensiamoci: quando un ragazzo di 12-13 anni ha sentito negli ultimi tre anni parlare più di crisi che di qualunque cosa, ci è nato dentro, conosce a memoria il rammarico tardivo degli adulti sul fatto che il suo futuro sarà peggiore del presente.

Figli unici

Come stanno gli italiani, allora? Qualcuno bene, per il semplice fatto che non è affatto orfano. Penso a quelli che hanno le loro rendite di posizione e di professione, devono amministrare beni, incassare affitti, manovrare capitali in borsa, ricchi e meno ricchi. Penso a tutti quelli che hanno i posti fissi e le rendite, penso ai tanti italiani pensionati pre-riforma che si sono comprati case e servitù in Kenya o Venezuela e si godono al sole i benefici del sistema retributivo sulla spalle dei ragazzi, penso a quelli che non si sono accorti di niente perché di fatto la loro vita è protetta, semmai hanno sviluppato un po’ di cinismo perché hanno a che fare con gente che ha più difficoltà a pagare. Ma nella sostanza c’è un mondo del tutto opaco a quello che è successo. Poi ci sono gli avvoltoi, gli speculatori che vedono la crisi come occasione per fare affari comprando a buon prezzo, prestando a tasso elevato, ma questa minoranza finanziaria e predatoria meriterebbe un sistema giudiziario in grado di perseguirla, non altro.

Stare male, stare meglio

Gli altri, i più, cioè gli orfani, stanno male, ma in un certo senso stanno anche meglio. In che senso? Si sta male perché sicuramente gli ultimi patiscono e questo è evidente, abbiamo vissuto anni in cui non solo la classe media ha esordito nelle categoria del precariato, dell’incertezza e del rosso in banca, ma anche di una povertà divenuta ancora più grave, di classi marginali ancora più escluse. Chi lavora coi margini ha visto allungarsi le code alla distribuzione viveri o abiti, ovvero i bisogni primari: in Italia non si muore di fame ma si sta in coda ore, si fanno chilometri per un pasto. In carcere si sta male, negli ospedali chi è malato sta peggio, nei servizi sociali si dispone di meno aiuto e meno risorse: tutto il welfare è sotto tensione, la parola d’ordine degli operatori è occuparsi solo dei casi più gravi, gestire le emergenze, trovare le risorse personali, familiari o di vicinato in chi chiede aiuto, perché altro non si può offrire. Ma stanno male anche quelli che prima se la cavavano, lo si capisce da un dato indiretto, ovvero la crescita delle forme di dipendenza, come a dire che gli italiani stanno consumando di tutto pur di curarsi da soli, di fronte a situazioni che non stanno più insieme. Il lavoro è iper-frustrante, oppure lo si perde o lo si cerca invano, le famiglie esplodono, la scuola vacilla…: la fatica a stare nei diversi contesti di vita comporta questo tipo di soluzione, l’autocura, con l’alcol, coi farmaci, con l’evasione mentale del gratta e vinci. Bar e tabaccherie sono pieni di gente che beve e che gioca, non per festeggiare ma perché tutto gira a vuoto.

A questa fatica esistenziale e morale corrisponde però anche il beneficio di un’inedita libertà. Senza soldi e senza vincoli istituzionali, senza quindi rispondere a criteri di redditività e a legami di potere, si inventano cose straordinarie, le fanno le associazioni di volontariato non cooptate da amministrazioni prive di soldi, le fanno i gruppi spontanei e i singoli che finalmente possono giocarsi le loro passioni… Tutti i ragazzi che io conosco non fanno un lavoro ma tre o quattro, sanno che questo è il loro destino, nessuno ha un padrone ma ne ha diversi, e si muovono in queste situazioni molto fluide, non hanno categorie rigide di appartenenza, sono pronti a partire e provare, non parlano il linguaggio dei diritti – questo può essere il problema – ma chiedono rispetto, che si faccia quel che si dice, che le cose succedano e non siano solo annunciate, che ci siano criteri trasparenti rispetto ai quali si è valutati, si è scelti.

In università, a Milano, in un gruppo di quaranta persone di 23 anni la metà lavora – al pub, al bar, come commessa, come hostess, come intervistatore – e si danno da fare, navigano senza scandalo fra opportunità deboli in queste situazioni complicate. Da orfani i giovani crescono soli, riorganizzano le loro vite come possono, costruiscono le loro esperienze, in modo molto orizzontale, molto tra pari, proprio perché non c’è la verticalità del riferimento adulto. L’autoimprenditoria è una necessità e non una scelta, perché non c’è più un ufficio dove andare, non ci sono posti vacanti né pare aver senso attendere.

Parole, parole, parole

Si stanno creando solchi profondi fra chi è dentro e chi è fuori, fra giovani e adulti, fra precari e garantiti, fra possidenti e nullatenenti… Come tenere insieme i pezzi? In passato sono state le parole a saldare le generazioni, sono state orazioni civili e grandi narrazioni a tenerci insieme, a legare nel patto sociale chi è distante nelle possibilità materiali. La sensazione è che questo oggi non basti, anzi. Il marketing e la pubblicità hanno corrotto la comunicazione, la ricerca spasmodica del consenso nella società della comunicazione ha portato a promettere tutto, a disegnare sogni con le parole, alla seduzione come logica di relazione: ora si è consumato il tempo in cui i frutti maturano, le promesse si avverano, il riscontro è possibile, e il bluff è palese. L’immigrazione si è fermata, qualcuno torna indietro, i canali Mediaset non funzionano più da sirena per i più giovani perché i format sono planetari, e qui tutto è saturo, in mano ad adulti e vecchi che non arretrano dalle loro posizioni di privilegio. Per questo i ragazzi popolano la notte e il web, gli unici spazi rimasti liberi, e diffidano delle parole, del verbale degli adulti, perché tutto è già stato smentito.

Anche un bambino sa che la pubblicità mente per sedurre – ma non sa che oggi preferisce costruire storie e personaggi per affiliare, per cooptare il suo immaginario – mentre dalla comunicazione istituzionale ci si attende altro, il resoconto della realtà. L’approfondimento, invece, o lo svelamento delle vicende più complesse, si avrebbe voglia di leggerlo sui giornali. Non è così: la realtà trapela da intercettazioni, disposte da magistrati e passate ai giornali, mentre le inchieste televisive sono fatte sulle libere denunce dei cittadini, ma se subisci un torto o qualcuno di caro scompare sono i carabinieri a suggerirti di “chiamare la tv”. Se siamo sempre noi cittadini a scoprire, denunciare, svelare… cosa servono le istituzioni?

Ma la forza delle parole è indebolita non solo dalla mancata corrispondenza col vero nel discorso pubblico – il vero malato di questi anni – ma anche per l’innocua ipertrofia del discorso privato. Paradossalmente credo che la libera circolazione dei saperi sul web abbia depotenziato le parole, perché una lavagna infinita dove scrivere quel che si vuole quando si vuole non produce sapere. Ora che tutti abbiamo un muro e una vernice spray nel pc portatile, che ne facciamo?

Chimica della trasformazione

Le parole su cui vale la pena concentrare gli sforzi sono forse quelle che hanno forza trasformativa. Per me la questione oggi è come innescare meccanismi di trasformazione della realtà. Per esempio, mi è chiaro che occorre rompere l’incantesimo dello scenario di crisi, che è ricattatorio quanto quello magico del paradiso in terra, professato fino a poco prima. Tutto oggi è ancora raccontato in modo incombente, secondo rapporti di scala che non lasciano margini per azioni possibili: le parole della crisi creano pubblico e non attori, costruiscono sceneggiature dove le parti a disposizione sono quelle di chi attende, teme, si lamenta, diffida. È chiaro che quelle parole ingessano e congelano, fanno il gioco di chi le diffonde: sono efficaci, ma nel senso che immobilizzano una reazione civile.

I ragazzi e non solo loro stanno scrivendo, tantissimo, solo che tutto questo avviene su display, quasi sempre senza la responsabilità di un discorso pubblico, ovvero senza assumersi la responsabilità delle parole, preferendo la confidenza, lo sfogo, l’evasione. Scrivere una lettera di protesta al sindaco, scrivere una “lettera alla professoressa”, redigere un manifesto di intenti, stendere lo statuto di un’associazione che combatte una causa, preparare un gruppo di ragazzi a sostenere un’intervista con un ministro…: sono esempi di pratiche di parole su cui vale la pena misurarsi, per cercare oggi dove avviene quella chimica della trasformazione. Se voglio consegnare il mio tesoro alla generazione che avviene, l’aiuto a dire con forza ed efficacia come le cose dovrebbero andare per dare a tutti cittadinanza.

Dalle parole alle immagini

Prima di scrivere e fare ricerche organizzavo in modo volontario rassegne di film, a Milano: orfano a mia volta di cineclub che chiudevano, volevo regalare insieme ad amici e compagni di viaggio altrettanto ai più giovani, secondo un concetto di “militanza culturale” che è impossibile spiegare anche a un under 30. In circa quindici anni di attività, terminata verso l’anno 2000, abbiamo visto moltiplicarsi le tessere, a parità di spettatori per sera. Che cosa stava succedendo? Non c’era più il pubblico, c’erano i pubblici. Ogni rassegna, ogni film differenziava il proprio pubblico, ogni pubblico era diverso. Quello che era stato per noi – cresciuti al calduccio di un cineclub – un rapporto di fiducia e formazione in un luogo, era cambiato completamente: quello non era più un luogo di formazione, tu andavi a vedere solo ciò che conoscevi. Ho vissuto l’insorgere di una logica di consumo culturale, contro l’idea di un luogo di formazione, era l’esordio della segmentazione del target, oggi prevalente.

Ciascuna ha il suo oggetto, il suo film, il suo libro e così via. Questo comporta la possibilità di mostrare cose ricercate e sofisticate che appartengono a nicchie, in grado di disporre di canali propri per accedere al proprio filone di consumo. Ma contemporaneamente questo implica l’abdicazione della programmazione culturale alla logica del target. Nella vulgata commerciale e di senso comune disponiamo oggi del paradiso in terra – “a ciascuno il suo” – ma con un po’ di lucidità ci rendiamo conto che il profilare prodotti e programma per target è regressivo, impedisce alle persone di evolvere incontrando l’inatteso, ciò che spiazza anziché confermare. Ognuno cerca ciò che conosce e ha già sperimentato, ma senza esposizione ad altro le cerchie di preferenze si restringono, ognuno si riconferma e cerca la comunità di appartenenza, la cultura produce isole di fan e non spettatori curiosi o appassionati sperimentatori.

Self made

L’altro dato eclatante di questi anni è la mutazione del rapporto con le immagini. Lo slogan “a ciascuno il suo” si è spinto fino all’autoproduzione, alla stagione della creatività di massa. Oggi in prima media quasi tutti i ragazzi hanno in dotazione uno smartphone con cui possono girare film, montarli, inserire effetti speciali, dal telefono stesso, e proiettarlo nella più grande sala cinematografica del mondo, youtube.

Non sembra tanto la celebre “morte dell’autore” per estinzione dell’aura, ma un omicidio collettivo grazie all’autorialità di massa: il pubblico che si fa il suo cinema è qualcosa di potente dal punto di vista dell’immaginario, e forse non è che un’evoluzione della segmentazione per target, in cui ora l’aggettivo possessivo “mio” indica non tanto il film che vedi ma quello che fai.

Più che della creatività – e tanto meno dell’arte – questa è l’epoca dell’espressività, dell’autorappresentazione, il digitale ha dato in mano a tutti questa occasione. Si può essere molto perplessi sull’inflazione di immagini inutili, brutte e malfatte in circolazione sul web e messe sullo stesso piano delle altre – l’unico criterio di autorialità in internet è l’algoritmo di google, il palinsesto lo fa la prima pagina del motore di ricerca – ma dal punto di vista della ricerca questa è una novità potentissima, perché esiste una sorta di sequenza forte nella scelta di cosa metti in scena: prima te, poi i tuoi amici, le tue cose e poi – qui sta il passaggio forte, il salto – una storia. Ma prima ci sei tu e ci sono i tuoi amici, le tue cose, e la possibilità dell’autorappresentazione è stata una trappola formidabile per i narcisismi, le frustrazioni, gli esibizionismi, i protagonismi vari di cui siamo ampiamente malati, se solo ci si presenta l’occasione.

Che fare

L’abbattimento di barriere all’acquisto e all’autoproduzione di immagini ha comportato l’appropriazione individuale e solitaria di un altro segmento prima condiviso, la formazione, divenuta sistematicamente fra i ragazzi autoformazione o sperimentazione fra pari: in questo mondo orfano di adulti, non solo non vai da qualcuno a chiedere una telecamera o una sala di montaggio, non senti il bisogno di cercare un interlocutore adulto o esperto per imparare, ma ti formi da solo provando a utilizzare quanto hai in mano e usando i canali educational e tutorial sul web per guardare pillole di istruzioni.

Come ogni novità anche questa ha risvolti ambigui, può generare straordinari autodidatti e può legittimare la nostra stupidità che non incontra più un filtro critico: i video più visti su youtube sono sconfortanti. Sul web si possono trovare interviste a Pasolini un tempo inaccessibili ma anche le peggiori nefandezze (in questo momento il video più cliccato risulta “scoregge della gente”): è uno straordinario archivio, ma come ogni campo libero si espone a quello che una volta era il cinema di Alvaro Vitali, semplicemente trapiantato lì e per di più senza nemmeno la fatica di una storia, con la sola “scena madre” che tutti cercano.

Per chi come me è cresciuto nei cineclub e ha provato a dare la stessa opportunità agli altri è un cambiamento epocale. Ma se provo a riprendere quella vis pedagogica, mi viene da notare due cose. Prima di tutto, chiedersi quando e come si passa dalle immagini di sé moltiplicate per quante ce ne stanno nella memoria del telefono, al desiderio di costruire una storia, cioè di raccontare. Se è legittimo e normale avere uno specchio, per me è più interessante esplorare quella soglia, capire cosa dà il clic. Secondo aspetto: più che i soldi o le tecnologie credo contino nell’epoca dell’espressività di massa le esperienze di vita. Alla fine quel mezzo in mano tua regala immagini preziose se hai una vita che ha senso, una vita che fa attrito col mondo, se hai un’urgenza di racconto. Come a dire che, se ci fosse una scuola di cinema sensata, ragionerebbe sulle vite dei ragazzi che ha di fronte, sul promuovere viaggi esperienziali e incontri significativi. Infine credo sia importante – se penso agli adulti – favorire i momenti riflessivi, in cui ragioni su quello che stai facendo, ed esporre a un’estetica, a un immaginario e a un cinema che si possa considerare tale. La democrazia delle immagini non è formativa, la lavagna di massa non porta a selezionare il messaggio; aiutare la formazione del gusto non per target di consumo è un contromovimento importante da agire. ta, l’inettitudine tecnologica e il silenzio sui contenuti non sono un bello spettacolo, se mostriamo soltanto affanno, frustrazione, crisi, stanchezza formiamo giocoforza il loro congedo da noi, il noto e mortificante “non voglio fare la vostra fine”.

  1. Fare per davvero. L’imperativo della comunicazione, l’ipertrofia progettuale e un uso compulsivo della “pedagogia del fare” hanno finito in questi ultimi anni per inflazionare le proposte laboratoriali, senza reale sbocco produttivo. Miriadi di corsi e concorsi, laboratori di alfabetizzazione a tutto senza professionalizzazione a niente hanno finito per logorare la motivazione a partecipare, di fronte alla perplessità inevitabile sull’utilità reale di queste palestre, oggi che l’utilità è presto verificabile. “Facciamo come se…” non regge più oltre una certa età ed una soglia di reddito, i ragazzi ti chiedono conto del perché tu poi hai o fai qualcosa mentre a loro la proponi in scala ridotta, soprattutto ora che il problema non è scoprire o apprendere l’uso, ma vederne l’impiego reale. Se si fa un giornale in classe, bisogna davvero provare a impaginarlo e stamparlo, è fondamentale andare a vedere come lavora una vera redazione, la sfida vera è provare a collaborare con uE

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