Disfare le confusioni al servizio dell’ordine dominante di

incontro con Joseph Confavreux traduzione di Andrea Inzerillo
I primi di dicembre la rivista francese “Mediapart” ha pubblicato questa intervista di Joseph Confavreux a Jacques Rancière, filosofo che da molti anni si occupa di interrogare le diverse configurazioni che gli esseri umani danno a pensieri, azioni e produzioni lavorando su ciò che chiamiamo semplicemente vita in comune. Arte e politica sono strettamente intrecciate nelle sue opere perché entrambe rimodellano il sensibile e modificano così concretamente la nostra percezione, il nostro pensiero e la nostra esperienza del mondo. In questa conversazione, tutta incentrata su eventi politici recenti, Rancière utilizza come sempre concetti e parole chiare che permettono di rileggere diversamente alcuni temi fondamentali dei nostri tempi come la crisi della democrazia, il diffondersi del populismo, la finanziarizzazione del mondo, le rivolte planetarie e la questione ecologica. Il motivo per cui ve la proponiamo è che la lucidità dei suoi ragionamenti merita una discussione anche al di qua delle Alpi, soprattutto per contrastare l’asservimento, l’assuefazione e le tentazioni che a destra e sinistra vorrebbero poteri ancora più accentrati, nonché allo scopo di rimettere in questione in tutta la sua radicalità un’istanza nient’affatto scontata: la democrazia è tutta da costruire, dice Rancière, perché l’uguaglianza è lungi dall’essere realizzata. E per farlo non bisogna attendere ricette dagli specialisti: bisogna agire, perché la politica è il potere di chiunque, ovvero di tutti e di ciascuno. (Andrea Inzerillo)
Mentre le rivolte si estendono in diversi paesi di tutti i continenti, nel momento in cui la Francia si prepara per un movimento sociale che contesta – oltre alla riforma delle pensioni – l’accentuazione delle riforme di ispirazione neoliberale e la politica tradizionale non sembra offrire altro che una falsa alternativa tra “progressismi” e “autoritarismi” il cui denominatore comune è la subordinazione agli interessi finanziari, il filosofo Jacques Rancière, intervistato da “Mediapart”, ritorna su queste oscillazioni politiche e intellettuali per tentare di “disfare le confusioni tradizionali al servizio dell’ordine dominante e della pigrizia dei suoi presunti critici”.
Quindici anni dopo la pubblicazione de L’odio per la democrazia (edizione italiana Cronopio), che svolta ha preso la mutazione ideologica che descriveva allora?
I temi del discorso intellettuale “repubblicano” che avevo analizzato in quel libro si sono diffusi ampiamente, e hanno alimentato in particolare l’aggiornamento dell’estrema destra che ha compreso bene l’interesse del riciclare i tradizionali argomenti razzisti a difesa degli ideali repubblicani e laici. Argomentazioni che sono servite anche a giustificare misure di restrizione della libertà come quelle che proibiscono un certo abbigliamento e ci chiedono di offrirci a volto scoperto allo sguardo del potere. Si può dire che questi temi hanno esteso la loro influenza e mostrato la loro obbedienza nei confronti dei poteri dominanti. L’odio intellettuale per la democrazia si mostra sempre più come il semplice accompagnamento ideologico dello sviluppo vertiginoso di ineguaglianze di ogni tipo e della crescita del potere poliziesco sugli individui.
Il termine di populismo, nel suo senso peggiorativo, costituisce il nuovo volto di questo odio per la democrazia che pretende di difendere il governo democratico a condizione di rendere più faticosa la civiltà democratica?
Populismo non è il nome di una forma politica. È il nome di un’interpretazione. L’uso di questo termine serve a far credere che le forme di rafforzamento e di personalizzazione del potere statale che si trovano un po’ dappertutto nel mondo sono l’espressione di un desiderio che proviene dal popolo, inteso come l’insieme delle classi meno agiate. È sempre lo stesso trucco che consiste nel dire che se i nostri Stati sono sempre più autoritari e le nostre società sempre più ineguali è colpa della pressione esercitata dai più poveri, che sono ovviamente i più ignoranti e che, da bravi primitivi, vogliono dei capi, autorità, esclusione ecc. Come se Trump, Salvini, Bolsonaro, Kaczyński, Orbán e i loro simili fossero l’emanazione di un popolino che soffre e si rivolta contro le élite. Mentre invece sono l’espressione diretta dell’oligarchia economica, della classe politica, delle forze sociali conservatrici e delle istituzioni autoritarie (esercito, polizia, chiese). Non c’è dubbio che questa oligarchia si appoggi d’altra parte su tutte le forme di superiorità che la nostra società permette a coloro che essa stessa rende inferiori (i lavoratori sui disoccupati, i bianchi su quelli di colore, gli uomini sulle donne, gli abitanti delle province profonde sulle menti più deboli delle metropoli, quelli “normali” su quelli che non lo sono, eccetera). Ma non è una ragione per capovolgere le cose: i poteri autoritari, corrotti e criminali che oggi dominano il mondo sono appoggiati innanzitutto dai ricchi e dai notabili, non dai diseredati.
Molti sono inquieti rispetto alla fragilità delle istituzioni democratiche esistenti, e sono numerosi i libri che annunciano la fine o la morte delle democrazie. Che ne pensa?
Non leggo molto la letteratura catastrofista, e mi piace l’opinione di Spinoza secondo cui i profeti sono così bravi a prevedere le catastrofi da esserne essi stessi i responsabili. Quelli che ci avvisano della “fragilità delle istituzioni democratiche” partecipano deliberatamente alla confusione che indebolisce l’idea democratica. Le nostre istituzioni non sono democratiche. Sono rappresentative, e dunque oligarchiche. La teoria politica classica è chiara su questo aspetto, anche se chi ci governa e le loro ideologie hanno fatto di tutto per confondere le acque. Le istituzioni rappresentative sono instabili per definizione. Esse possono lasciare un certo spazio all’azione delle forze democratiche – come è stato il caso dei regimi parlamentari all’epoca del capitalismo industriale – o tendere verso un sistema monarchico. È chiaro che oggi è quest’ultima tendenza a dominare. È il caso della Francia, dove la Quinta Repubblica è stata concepita per mettere le istituzioni al servizio di un individuo e in cui la vita parlamentare è del tutto subordinata a un apparato di Stato interamente sottomesso a sua volta al potere del capitalismo nazionale e internazionale, salvo poi suscitare lo sviluppo di forze elettorali che pretendono di essere le “vere” rappresentanti del “vero” popolo. Parlare delle minacce che pesano sulle “nostre democrazie” ha allora un senso ben preciso: si tratta di far gravare sull’idea democratica la responsabilità dell’instabilità del sistema rappresentativo, dicendo che il sistema è minacciato perché è troppo democratico, troppo soggetto agli istinti incontrollati della massa ignorante. C’è tutta una letteratura che lavora per condurre alla commedia ben oliata dei secondi turni delle presidenziali, in cui la sinistra “lucida” si stringe attorno al candidato dell’oligarchia finanziaria, unico baluardo della democrazia “ragionevole” contro il candidato della “democrazia illiberale”.
Sono aumentate le critiche nei confronti dei desideri illimitati degli individui nella società di massa moderna. Perché? Come spiega che queste critiche si trovino da tutti i lati dello scacchiere politico? Si tratta della stessa critica in Marion Maréchal-Le Pen o in Jean-Claude Michéa?
C’è un nocciolo duro che non varia e che alimenta versioni più o meno di destra o di sinistra. Questo nocciolo duro è stato forgiato per la prima volta dai politici conservatori e dagli ideologi reazionari del XIX secolo, che hanno lanciato l’allarme contro i pericoli di una società in cui le capacità e gli appetiti di consumo dei poveri si sviluppavano pericolosamente e si sarebbero sversati come un torrente che avrebbe devastato l’ordine sociale. È la grande astuzia del discorso reazionario: mettere in allerta contro gli effetti di un fenomeno per imporre l’idea che quel fenomeno esiste: che i poveri, insomma, sono troppo ricchi. Questo nocciolo duro è stato di recente rielaborato “a sinistra” dalla cosiddetta ideologia repubblicana, forgiata da intellettuali rancorosi nei confronti di quella classe operaia nella quale avevano riposto tutte le loro speranze e che si stava dissolvendo. Il gran colpo di genio è stato quello di interpretare la distruzione delle forme collettive di lavoro realizzata dal capitale finanziario come l’espressione di un “individualismo democratico di massa” proveniente dal cuore stesso delle nostre società e portato avanti da quegli stessi individui le cui forme di lavoro e di vita erano distrutte.
A partire da lì tutte le forme di vita imposte dal dominio capitalista erano re-interpretabili come effetti di un unico e identico male – l’individualismo – al quale si poteva, a seconda dell’umore, assegnare due sinonimi: lo si poteva chiamare “democrazia” e scagliarsi contro i disastri dell’egalitarismo; oppure lo si chiamava “neoliberalismo” per denunciare la mano del “capitale”. Ma si poteva anche fare in modo di equiparare i due e identificare così il capitalismo con lo scatenarsi degli appetiti di consumo della povera gente. È il vantaggio di aver dato il nome di “neoliberalismo” al capitalismo assolutizzato – e perfettamente autoritario – che ci governa: si possono identificare gli effetti di un sistema di dominio con le forme di vita degli individui. Si potrà dunque, a piacimento, allearsi con le forze religiose più reazionarie per attribuire la condizione delle nostre società alla libertà dei costumi incarnata dalla procreazione assistita e dal matrimonio omosessuale o rifarsi a un ideale rivoluzionario duro e puro per addossare all’individualismo piccolo-borghese la responsabilità della distruzione delle forme di azione collettive e degli ideali operai.
Che fare di fronte a una situazione in cui la denuncia di una democrazia di facciata – le cui leggi e le cui istituzioni non sono spesso che le apparenze sotto le quali si esercita il potere delle classi dominanti – e il disincanto nei confronti delle democrazie rappresentative che hanno rotto con qualsiasi idea di uguaglianza danno spazio a personaggi come Bolsonaro o Trump che accrescono ulteriormente le ineguaglianze, le gerarchie e gli autoritarismi?
Per prima cosa occorre disfare le confusioni tradizionali che sono al servizio dell’ordine dominante e della pigrizia dei suoi presunti critici. In particolare bisogna farla finita con questa doxa ereditata da Marx che con la scusa di denunciare le apparenze della democrazia “borghese” non fa che convalidare di fatto l’identificazione tra democrazia e sistema rappresentativo. Non c’è una democrazia di facciata dietro la cui maschera si eserciterebbe la realtà del potere delle classi dominanti. Ci sono istituzioni rappresentative che sono strumenti diretti di quel potere. Il caso della Commissione di Bruxelles e del suo ruolo nella “Costituzione” europea sarebbe dovuto bastare a chiarire le cose. È la definizione stessa di un’istituzione rappresentativa sovranazionale in cui la nozione di rappresentazione è totalmente dissociata da qualunque idea di suffragio popolare. Il trattato non dice nemmeno da chi quei rappresentanti debbano essere scelti. Certo, sappiamo che sono gli Stati a designarli, ma sappiamo anche che sono per la maggior parte vecchi o futuri rappresentanti delle banche d’affari che dominano il mondo. E un semplice sguardo sul perimetro delle sedi delle società i cui palazzi circondano le istituzioni di Bruxelles rende del tutto inutile la scienza di quelli che vogliono nascondere il dominio economico dietro le istituzioni rappresentative. Ancora una volta, difficilmente Trump potrebbe passare per un rappresentante dei poveracci dell’America profonda, e Bolsonaro è stato immediatamente investito dai rappresentanti degli ambienti finanziari. Il primo compito è quello di uscire dalla confusione tra democrazia e rappresentazione e da tutte le nozioni confuse che ne sono derivate – come quella di “democrazia rappresentativa”, “populismo”, “democrazia illiberale” eccetera. Non bisogna difendere le istituzioni democratiche dal pericolo “populista”. Bisogna crearle o ricrearle. Ed è chiaro che, nella situazione attuale, esse possono essere ricreate solo come contro-istituzioni, autonome rispetto alle istituzioni di governo.
È possibile confrontare l’odio per la democrazia quando assume la forma della nostalgia dittatoriale di un Bolsonaro o l’apparente candore di un Jean-Claude Juncker che spiega che non possono “esserci scelte democratiche contro i trattati europei”? Per dirla altrimenti, si devono e si possono gerarchizzare e distinguere le minacce che pesano sulla democrazia, oppure la differenza tra le estreme destre autoritarie e i tecnocrati capitalisti disposti a reprimere violentemente i loro popoli è una differenza di grado e non di natura?
Ci sono tutte le sfumature che si vuole tra le sue diverse forme. L’odio per la democrazia può appoggiarsi sulle forze nostalgiche delle dittature di ieri, da Mussolini o Franco a Pinochet o Geisel. Esso può anche, come in alcuni paesi dell’Est, sommare le tradizioni delle dittature “comuniste” con quelle delle gerarchie ecclesiastiche. O può identificarsi più semplicemente con le insopprimibili necessità del rigore economico, incarnate dai tecnocrati di Bruxelles. Ma c’è sempre un nucleo comune. Juncker non è Pinochet. Ma di recente abbiamo avuto modo di ricordarci che le potenze “neoliberali” che governano in Cile lo fanno nell’ambito di una costituzione ereditata da Pinochet. La pressione esercitata dalla Commissione europea sul governo greco non è la stessa cosa della dittatura dei colonnelli. Ma è successo che il governo “populista di sinistra”, eletto apposta in Grecia per resistere a questa pressione, è stato incapace di farlo. In Grecia, in Cile, un po’ dappertutto nel mondo la resistenza alle oligarchie nasce solo da forze autonome rispetto al sistema rappresentativo e ai partiti cosiddetti di sinistra che vi sono integrati. Questi ragionano di fatto con la logica della scelta del male minore, subendo sfacelo dopo sfacelo. Ci sarebbe quasi la tentazione di rallegrarsene, se solo questa continua sconfitta non avesse l’effetto di aumentare il potere dell’oligarchia e di rendere più difficile l’azione di quelli che cercano veramente di opporvisi.
Come legge gli eventi planetari di questo autunno? Si possono ritrovare cause e motivi comuni nelle diverse rivolte che si producono nei vari continenti? Rispetto ai movimenti “delle piazze” che chiedevano una democrazia reale, queste rivolte partono da motivi più socioeconomici. Questo ci dice qualcosa di nuovo sullo stato del pianeta?
La rivendicazione democratica dei manifestanti di Hong Kong smentisce una tale evoluzione. A ogni modo, bisogna tirarsi fuori dalla contrapposizione tradizionale tra motivi socioeconomici (ritenuti solidi ma meschini) e aspirazioni alla democrazia reale (più nobili ma evanescenti). C’è un unico e identico sistema di dominio che viene esercitato dal potere finanziario e dal potere statale. E i movimenti delle piazze hanno tratto la loro forza proprio dall’indistinzione tra rivendicazioni limitate e affermazione democratica illimitata. È raro che un movimento prenda avvio da una rivendicazione di democrazia. Essi cominciano spesso da una rimostranza contro un aspetto o contro un effetto particolare di un sistema globale di dominio (un broglio elettorale, il suicidio di chi è vittima di un controllo poliziesco ossessivo, una legge sul lavoro, un aumento del costo dei trasporti pubblici o dei carburanti ma anche il progetto di sopprimere un giardino pubblico). Quando la protesta collettiva si sviluppa per strada e nei luoghi occupati essa non è più una semplice rivendicazione di democrazia nei confronti del potere che si contesta, ma un’affermazione di democrazia effettivamente messa in atto (democracia real ya). Questo vuol dire essenzialmente due cose: innanzitutto, che la politica prende sempre più il volto di un conflitto tra mondi – un mondo retto dalla legge inegualitaria contro un mondo costruito dall’azione egualitaria – in cui la distinzione stessa tra economia e politica tende a svanire; secondo, che i partiti e le organizzazioni un tempo interessate alla democrazia e all’uguaglianza hanno perso ogni iniziativa e ogni capacità di azione su questo terreno che è occupato soltanto da forze collettive generate dall’evento stesso. Si può continuare a ripetere che costoro mancano d’organizzazione. Ma cosa fanno, le famose organizzazioni?
Una certa forma di routinizzazione della rivolta su scala mondiale identifica forse un contro-movimento importante?
Non mi piace troppo il termine routinizzazione. Scendere in piazza a Teheran, Hong Kong o Giacarta di questi tempi non ha davvero niente di routinario. Si può dire soltanto che le forme di protesta tendono a somigliarsi contro sistemi di governo diversi ma convergenti nei loro sforzi di assicurare i profitti dei privilegiati a svantaggio di settori della popolazione sempre più impoveriti, disprezzati o repressi. Si può anche constatare che essi hanno ottenuto, soprattutto in Cile o a Hong Kong, dei successi di cui non si conosce l’avvenire, ma che mostrano come si tratti di qualcosa di ben diverso che semplici reazioni di disperazione nei confronti di un ordine delle cose inamovibile.
Quindici anni fa la prospettiva della catastrofe ecologica era meno pregnante. Questa nuova questione ecologica trasforma la questione democratica, come sostenuto da coloro che affermano che la salvaguardia del pianeta non potrà farsi all’interno di una cornice deliberativa?
Già da qualche tempo i nostri governi funzionano con l’alibi della crisi imminente che impedisce di affidare gli affari del mondo ai suoi abitanti ordinari e obbliga a lasciarli alle cure degli specialisti della gestione delle crisi: ovvero di fatto alle potenze finanziarie e statali che ne sono responsabili o complici. È evidente che la prospettiva della catastrofe ecologica corrobora i loro argomenti. Ma è chiaro anche che la pretesa dei nostri Stati di essere i soli capaci di affrontare le questioni globali è smentita dalla loro incapacità, individuale e collettiva, di prendere delle decisioni che siano all’altezza della posta in gioco. La rivendicazione globalista serve dunque essenzialmente a dirci che si tratta di una questione politica troppo complessa per noi, o che è una questione che rende inefficace l’azione politica tradizionale. Così intesa, la questione climatica porge il destro all’assorbimento della politica nella polizia. Di fronte c’è l’azione di coloro che affermano che, dal momento che la questione riguarda ciascuno di noi, chiunque ha la possibilità di occuparsene. È quel che hanno fatto movimenti come quello del comune di Notre-Dame-des-Landes che si occupano di un caso ben preciso per identificare il raggiungimento di un determinato obiettivo concreto con l’affermazione del potere di chiunque. L’annullamento del progetto di un aeroporto non risolve evidentemente la questione del riscaldamento globale, ma mostra a ogni modo l’impossibilità di separare le questioni ecologiche dalla questione democratica intesa come esercizio di un potere di uguaglianza effettivo.
Nel suo ultimo libro, Frédéric Lordon si smarca da quella che definisce “un’antipolitica” nella quale annovera in particolare quella “politica che si limita alle intermittenze” che egli identifica con la “ripartizione del sensibile”. Cosa ne pensa di questa critica nei confronti di alcuni dei modi in cui lei definisce la politica?
Non mi interessa avventurarmi in polemiche personali; mi limiterò dunque a sottolineare alcuni punti di quel che ho scritto che forse non sono chiari a tutti. Non ho detto che la politica esiste solo per intermittenze: ho detto che non è un dato costitutivo e permanente della vita delle società, perché la politica non è soltanto il potere, ma l’idea e la pratica di un potere di chiunque. Questo potere specifico esiste solo come supplemento e in opposizione alle forme normali di esercizio del potere. Questo non significa che la politica esista solo nei momenti straordinari di festa collettiva, che non bisogna far nulla nel frattempo e che non servano organizzazioni o istituzioni. Di organizzazioni e di istituzioni ce ne sono sempre state e ce ne saranno sempre. La questione è sapere che cosa esse organizzano e che cosa istituiscono, qual è il potere che esse mettono in campo, se quello dell’uguaglianza o quello dell’ineguaglianza. Le organizzazioni e le istituzioni egualitarie sono quelle che sviluppano questo potere comune a tutti che, di fatto, solo raramente si manifesta allo stato puro. Nello stato attuale delle nostre società è chiaro che non possono che essere delle contro-istituzioni e delle organizzazioni autonome rispetto a un sistema rappresentativo che non è altro che uno strumento del potere statale. Si può constatare facilmente come negli ultimi due decenni, in tutto il mondo, le uniche mobilitazioni contro le avanzate del potere finanziario e del potere statale siano stati questi movimenti che vengono definiti “spontaneisti” anche se hanno mostrato capacità di organizzazione concreta molto superiori a quelle delle “organizzazioni” di sinistra riconosciute (non dimentichiamo, d’altronde, che molti di quelli e di quelle che vi hanno svolto un ruolo erano militanti già formati da pratiche di lotte nelle piazze). È vero che è difficile mantenere per molto tempo questo potere comune. Occorre creare un altro tempo, un tempo che sia fatto di progetti e di azioni autonome, che non sia più ritmato dal calendario della macchina statale. Ma si può sviluppare solo ciò che esiste. Non si può costruire su tempi lunghi se non a partire da azioni che hanno effettivamente cambiato, anche se per poco tempo, il campo del possibile.