Disegni come semi. I pensieri in immagini di reviati

Non so quanto sia importante che questa “filosofia del coccodè” sia stata elaborata durante la quarantena che abbiamo di recente condiviso. Certo ne conserva le tracce, anche se materiali che la compongono – disegni come pensieri – risalgono in gran parte a tempi precedenti. Sembra naturale, per un artista, chiamare a raccolta i disegni per popolare l’assenza, per ridare ordine al tempo, per aprire sentieri, per gioco.
La filosofia del coccodè (Davide Reviati, Else – Orecchio acerbo) ha l’aspetto di un bloc-notes, con la copertina stampata in serigrafia e oltre 150 disegni all’interno. Sono rapidi schizzi a penna, di quelli che si fanno parlando al telefono, e dunque tracciati sul confine dell’automatismo. Si potrebbe anche dire che sono disegni distratti, se nel disegno automatico si tratta appunto di distrarre certe funzioni, certe capacità, per attivarne altre. Sempre che siamo disposti a intendere per distrazione quella tattica diversiva di cui l’attenzione si serve per raggiungere, con l’incursione fulminea della matita sulla superficie bianca, una diversa conoscenza, una diversa qualità di precisione.
Ai disegni – figure a malapena compiute, frammenti di paesaggio, situazioni abbozzate – Reviati ha aggiunto delle brevi frasi in forma di schegge narrative, incipit in bilico sul vuoto, quasi aforismi o contrappunti ironici. Il pensiero verbale si appoggia così al disegno, lo segue, per dare vita a una filosofia giocosa ma per nulla pacificata.
A dominare ci sono gli animali: pesci, cavalli, felini d’ogni taglia… e poi il calcio, luogo d’elezione per l’autore, e i ritratti umani, essenziali quando non ridotti a pura linea, ma perfettamente compiuti nel gesto. Le parole, più che accostate, sembrano estratte dallo schizzo, tra le tante possibili che può contenere. La funzione segue la forma e, nel tempo distorto del lockdown, possiamo immaginare quale impegno abbia prodotto questo esercizio di selezione e attribuzione di senso, e come sia nato il progetto di un libro dove l’estemporaneo è sostenuto, sostituito – negato? – dalla cura.
Davide Reviati non pubblica molto, seguendo un imperativo di necessità tanto inappellabile quanto, nel profluvio della produzione libraria attuale, raro. Morti di sonno e Sputa tre volte, i suoi due romanzi grafici, sono opere capitali, Chickamauga, da Ambrose Bierce, una performance vertiginosa di appropriazione letteraria. Che questo libro leggero, ma denso di storie e pensieri allo stato di seme, sia anche una chiave per comprendere, e amare, meglio il mondo del suo autore, non è la cosa più importante. Ogni disegnino parlante la sua necessità la trova in sé, ma è vero che qui mi sembra che si possa capire meglio Reviati, nel segno, nella scrittura e nel fumetto.
Prima, com’è ovvio, viene il segno, che anche quando è pura, uniforme linea di contorno si trova ad avere corpo, a trattenere tanta parte della fisicità del gesto che l’ha tracciato. Non so spiegare come accada, ma di fronte a questa sequenza di figure incompiute mi pare evidente quanto il loro autore creda alla realtà dei corpi che disegna. Reviati, poi, fumettista per natura, porta con sé un’anima cartoonesca in quella tendenza al materico che mantiene nel disegno al tratto. La morbida plasticità del cartoon e la violenza trattenuta della materia, dunque, che trovano uno specifico, precario equilibrio nei bozzetti calcistici, distribuiti tra ragazzini e supposti campioni.
Il calcio per Reviati è uno spazio a sé, un’area a un tempo concreta e fantasmatica, dove il quotidiano e la memoria sono sempre sul punto di trasmutare, fosse anche per un attimo, in un altrove mitico, in un’epica dei gesti puri destinati a ricadere, quasi subito, sulla terra. Quei gesti sa come disegnarli, come tenderli di sforzo fisico e scioglierli di eleganza aerea, come portarli in una zona che è sempre più precisa della realtà, ma troppo concreta per essere fantasia.
Ai disegni – figure a malapena compiute, frammenti di paesaggio, situazioni abbozzate – Reviati ha aggiunto delle brevi frasi in forma di schegge narrative, incipit in bilico sul vuoto.
Poi viene la parola, in qualche occasione si direbbe il verso, che sempre sottintende un narrare. La scrittura di Reviati, che dal fumetto eredita una specifica preoccupazione per la disposizione nello spazio, è attenta agli a capo, alle assonanze, alle pause. I brevi interventi accanto alle immagini a volte sembrano titoli, altre racconti ellittici, o ancora motti venati di sarcasmo, sentenze. Ipotizzando che l’occhio che legge sia di poco più veloce della mano che ha tracciato il disegno, le pagine del blocco scorrono, cadono l’una sull’altra, confondendo l’umorismo con l’amarezza, invitando il lettore a soffermarsi, sfidandolo a completare. Se l’autore ci dà solo dei semi, come crescono dipende da noi.
Infine, viene quello che in mancanza di termini migliori chiamiamo fumetto, vale a dire quel groviglio di poteri narrativi che si sprigionano dal disegno e premono verso l’esterno. Nei fumetti non si tratta solo di immagini che raccontano, ma di un senso costante di “prima” e di “dopo”, e se come Reviati si è autori di fumetti questo sguardo entra in funzione anche quando la vignetta rimane singola, ed è sempre un guardare fuori.
Mi sembra che, in quanto autore di fumetti, a dispetto o in virtù delle sue ossessioni visive, Davide Reviati guardi fuori e che il suo guardare sia anche un dare. E così, anche in queste figurine all’origine disegnate per sé, anche in questo piccolo libro disseminato di asperità e di buche, più o meno taglienti o profonde, c’è un senso del dono, una volontà di dialogo, un invito al gioco.
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