Dentro la storia e come raccontarla

Le considerazioni che seguono sono gran parte di quelle espresse da Svetlana Aleksievic a Torino in risposta alle sollecitazioni di Goffredo Fofi, nel quadro degli incontri che hanno preceduto il Salone internazionale del libro di Torino, il 28 aprile scorso, nella traduzione simultanea di Nicolette Malescu. La trascrizione per “Gli asini” è dovuta a Davide Minotti.
Cosa ho imparato nell’infanzia
Sono cresciuta in un villaggio dove ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza, i miei genitori erano insegnanti di campagna, e mi venivano dunque proposte due visioni del mondo: da una parte il mondo dell’intellighenzia e dall’altro il mondo dei contadini. Casa nostra era colma di libri e ho cominciato a leggere già all’età di quattro anni, ma a interessarmi di più era quanto accadeva nella strada. Il nostro era il tipico villaggio del dopoguerra, dunque vi si trovavano pochi uomini, durante la guerra era morto un uomo su quattro. Prevalevano le donne, ma era comunque un villaggio molto popolato. Dopo una giornata di lavoro, le donne erano solite riunirsi all’aperto e chiacchierare, ed è lì, ascoltando con interesse le conversazioni di queste donne, che ho imparato molto di più che sui libri che affollavano la nostra casa. Si trattava soprattutto di donne giovani, i cui mariti erano morti in guerra. Eppure, mentre altrove sentivamo parlare di carri armati e delle truppe che ci avevano invaso, queste donne parlavano anche d’altro. I loro racconti mi hanno profondamente colpito, al punto da ancorarsi profondamente nel mio animo. Capii il valore di queste donne, che parlavano della guerra ma era come se parlassero di amore, perché raccontavano il primo incontro con i loro mariti oppure l’ultima notte che avevano vissuto con loro prima che partissero per il fronte. Attraverso questi racconti ho intuito molto dell’animo femminile. I loro erano racconti di guerra, erano tremendi, ma erano anche molto intimi e segreti. A differenza delle insegnanti, che a scuola ci trasmettevano soltanto la paura che avevano per la guerra, le donne contadine dicevano cose terribili, ma con un senso di pienezza, con un sentimento di piena assimilazione del momento storico. L’ascolto di questi racconti io l’ho percepito come una sorta di iniezione d’amore, come un vaccino che queste donne mi hanno praticato e che mi ha poi salvato quando ho dovuto vivere o capire certi momenti in altre fasi della vita. Nei miei quarant’anni da scrittrice ho composto in cinque libri la storia di quello che chiamo “l’uomo rosso”. Sono vicende terribili, piene di tutti gli orrori che la guerra porta con sé. Scrivendo questi libri ho capito che, quando si parla della guerra, è necessario un certo tipo di comunicazione: ho capito che bisogna riuscire a trasmettere la sofferenza. Un’altra cosa stupefacente della mia vita è stato il rapporto che ho avuto con mia nonna, una donna ucraina. Era una delle mie più grande amiche e mi raccontava cose veramente atroci della guerra, ma con un tono inevitabilmente da nonna; intendo dire che, quando ne parlava, non imprecava contro la sorte né si alterava, sebbene la maggior parte della sua famiglia fosse morta in quel periodo. Al contrario, mi trasmetteva una forma di speranza. Per lo stesso motivo ho molto amato Dostoevskij, il mio autore preferito, proprio perché meglio di altri ha scritto dell’uomo come di un essere terribile ma che nel profondo dell’animo resta capace di protendersi verso la bellezza. Con i benefici di tutti questi vaccini accumulati nell’infanzia, ho affrontato le difficoltà della vita con uno sguardo diverso e ho accumulato un bagaglio di conoscenze che ha agevolato il mio modo di scrivere. Terminati i primi due libri ho capito che scrivere è un rischio, perché diventa presto un tormento, anche se contemporaneamente insegna cose fondamentali. Ad esempio, mi ha insegnato che quando una persona confida un segreto, non si può più far finta di non averlo sentito. Dopo il secondo libro, non potevo più tornare indietro.
Una storia ha più versioni
Quando si scrive, occorre capire cosa sia effettivamente il cosiddetto “documento”. Da un lato è come un essere vivo che si sviluppa assieme a noi. Dall’altro lato quest’oggetto non c’è: non esiste un documento finito, ultimato, uno stesso evento può essere raccontato da più testimoni in modi molto diversi. Perciò, quando si scrive, non si ha a che fare con il documento in quanto tale, ma con le sue varie versioni. Il mio punto di vista in quanto scrittrice? Mettiamo che mi trovi di fronte a una persona che comincia a raccontarmi della guerra. Se mi recassi da questa persona subito dopo il conflitto, mi darebbe una certa versione dei fatti. Ad esempio, quando sono andata a intervistare i soldati russi impegnati in Afghanistan, il loro racconto è stato profondo e sofferto: la realtà che hanno vissuto quei ragazzi li ha sconvolti molto in profondità, nel più intimo di sé. Se incontrassi lo stesso testimone quarant’anni dopo la guerra, il suo racconto sarebbe diverso, lo costruirebbe a suo piacimento, arricchito di quanto avrà letto e visto, di quanta felicità avrà provato nel frattempo. L’uomo tende a creare il suo racconto e a non ripeterlo mai allo stesso modo. Questo non vuol dire che egli voglia ingannarci. È naturale che si aggiungano dettagli quando si pensa costantemente a un evento. Dunque, se avessi incontrato una persona dopo diverso tempo dal conflitto, avrei dovuto espungere dal suo racconto tutta la banalità che il sistema totalitario sovietico vi aveva generato. Il mio compito era liberare le persone che avevo davanti dal peso del racconto, affinché potessero dire la verità. Il problema più grosso è liberarle dal peso di raccontarsi, quando vivono in un paese non libero. Non si è liberi di parlare se si è condizionati da quanto si è visto in televisione, sentito alla radio, letto sui giornali. I massmedia invischiano di banalità il nostro sistema di comunicazione, dunque occorreva liberare le persone dalla stretta dello Stato e far capire che esiste un’altra forma di libertà, quella di essere se stessi. Succede anche che parliamo con individui di cui ignoriamo il pensiero o le conoscenze. La situazione estrema è che tutte queste conoscenze ci perforano, ci entrano dentro. Bisognava non fermarsi all’identità di questi esseri umani, ma entrare nel profondo del loro animo. Questo è uno dei motivi per cui impiego molto tempo a scrivere un libro, impiego anche dieci anni.
Penso che tutti abbiano un segreto, che forse ricordano solo intimamente senza neanche capirlo del tutto. Non è affatto semplice tirar fuori queste cose dagli esseri umani, ma per per me è quasi una scommessa. Per alcuni l’intervista si traduceva in mezza pagina di scrittura, per altri invece ne servivano cinque, per altri ancora sono tornata più volte sulla vicenda perché, man mano che si ricordavano del passato, accumulavano materiale che avevo bisogno di tempo per gestire. Erano mille pagine di storie e da queste mille pagine dovevo riuscire a definire la struttura del romanzo, dovevo ricreare la configurazione del tempo del mio romanzo. Così come tutti i suoni esistono già in natura ma solo il compositore sa come creare la propria musica, così accadeva a me: le persone mi parlavano ed era come se io stessa avessi visto e sentito tutto quello che mi raccontavano. Vivevo in simbiosi con queste persone, gli uomini rossi, e li osservavo per capirli davvero; io stessa ero diventata un uomo rosso. La difficoltà era attenersi alla verità senza inventare alcunché, perché la vita ha un valore eccezionale e che occorre rispettare. Tutto può diventare molto più semplice: basta semplificare l’uomo – ma non mi piace l’espressione “un uomo semplice”, direi piuttosto soltanto “l’uomo” – basta cioè riconsiderare l’uomo come essere umano. È importante riuscire ad assimilare questo aspetto. Ad esempio, mi ricordo di una donna il cui marito era un vigile del fuoco che morì durante il suo primo servizio a Chernobyl, dopo la catastrofe. Era una donna semplice che lavorava come cuoca; non aveva mai letto Dostoevskij o Shakespeare. A un tratto mi parlò di un’altra storia, mi raccontò che alcuni vigili del fuoco avevano spento l’incendio di un reattore, ma in seguito a uno scoppio furono trasportati a Mosca. Le mogli non poterono vederli perché erano completamente contaminati. Noi sappiamo che, se irradiato, l’uomo può sopravvivere al massimo due settimane, eppure i medici dissero alle mogli che avrebbero visto i loro mariti, ma non avrebbero potuto avvicinarglisi, né baciarli, né toccarli. Quei corpi non erano più esseri umani, ma oggetti su cui sarebbero state condotte delle ricerche. Ecco che, oltre alla sua storia personale, questa donna mi aveva fornito una vicenda del tutto nuova. Tutte le cose che sentivo sono diventate per me nuove conoscenze, nuovi dati su cui scrivere. (Mi viene in mente un brutto film russo sulla figura di Cajkovskij. Il protagonista appare come un eroe, che corre impazzito da un luogo all’altro come se la corsa gli permetta di agguantare l’ispirazione: un processo che obiettivamente è impossibile da rappresentare. Era un film orrendo, sebbene parlasse di Cajkovskij).
A Chernobyl
Sono convinta che l’amore riesce a sopravvivere. Questo amore può essere chiamato “padre nostro” o “dio”. Penso che l’uomo debba dire fino in fondo quello che vuole esprimere e che possa farlo solo se mosso da sincerità, invece che da ordini impartiti o desunti dagli organi di informazione. Ben oltre a quelli c’è la parola, che è essenziale perché permane nel tempo. Anzi, se mai siano vissute forme di vita sul pianeta Marte – cosa secondo me probabile, che si tratti di Marte o di un altro pianeta – sicuramente anche lì avranno parlato o si saranno espressi in qualche modo. Questo per dire che si tratta di un profondo lavoro dell’anima e non di una questione prettamente biologica. Non sono un’amante del terrore, ma una collezionista di animi umani. In epoca sovietica c’erano molti atei, ma dopo Chernobyl erano tutti così sconfortati da ritornare alla fede, tant’è che le chiese non erano mai state gremite come in quel periodo. Ricordo un episodio che mi stupì. Un giorno, entrando in una chiesa mentre si celebrava la messa, trovai il sacerdote in silenzio, muto. Da quanto ho capito, non trovava le parole da dire, così come il resto dei presenti in quella chiesa. Il sacerdote non poteva di certo parlare per sé solo, perché le parole che avrebbe pronunciato avrebbero avuto una forte risonanza per i suoi uditori. Rimasi profondamente colpita dalla folla che si era assiepata in chiesa, una cinquantina persone, tutte visibilmente disperate. Ma poi hanno cominciato a cantare i salmi. In quel momento ho pensato che ci fosse ancora qualcosa di cui parlare. Cantavano passi della Bibbia, è vero, ma se queste persone avevano cominciato a cantare voleva dire che c’era qualcosa che li guidava. Certamente non ho ragione, però dico che l’essere umano ha bisogno di tante cose, in particolare ha bisogno di bellezza e di amore; ha bisogno di trovare un amico o un compagno, una persona con la quale vivere e parlare. È di questo che bisogno. Ho visto molte persone in condizioni veramente estreme. E tutti questi nostri giochi letterari, come mi permetto di chiamarli, non doneranno loro pace!
Perché dunque ho impiegato tanto tempo a realizzare il libro su Chernobyl? Ci sono voluti undici anni per scriverlo, perché dopo Chernobyl le persone sono state cancellate e gli è stato portato via tutto. Quelle che incontravo erano d’accordo che nessuno avrebbe potuto mai raccontare Chernobyl. Nessun regista, nessuno scrittore avrebbe avuto la facoltà di parlarne. Per questo non volevo che il mio libro raccontasse un cumulo di macerie e di incubi, ma aprisse piuttosto una strada nuova, capace di portare un’aria di speranza. Questo ha reso il mio compito molto più complicato. Nel frattempo erano usciti parecchi libri che accusavano i russi e il comunismo, ma non era questo il problema. Io non potevo permettermi d’inventare alcunché. Avevo solo bisogno di tempo per trovare negli uomini, ma anche in me, quei dati che mi servivano per scrivere il libro: ma questi elementi avrebbero dovuto ispirarsi alla natura circostante, alle persone che la popolavano. Poi sono stata a Fukushima: e lì ho percepito quanto la tecnica sia assolutamente impotente in certe situazioni, perché non è capace di relazionarsi né con l’atomo né con la natura. La natura è sempre più forte, anche rispetto alla tecnologia più avanzata. Lì inoltre ho capito che avrei dovuto prendermi del tempo per scrivere la verità. Sono sempre molto felice quando i lettori che mi avvicinano dicono di aver riflettuto grazie al mio libro e dicono di aver pianto. Non bisogna vergognarsi di piangere; non bisogna dimenticare che il pianto è necessario, perché è in grado di spiegarci molte cose.
L’arte ha un lato oscuro, perché è materia sia della vittima sia del boia. Nella storia russa è molto complicato riassumere tutto questo. Già all’epoca di Stalin le vittime finivano spesso per diventare carnefici, è un dato di fatto. Ogni essere umano ha la possibilità di poter essere sia l’uno che l’altro. Spesso le persone che facevo parlare non sapevano di aver tradito o denunciato qualcuno, semplicemente non se ne rendevano conto e cominciavano a giustificarsi, dicendo: “Ma io ho salvato un bambino… io ho salvato i genitori…”. Noi, in quanto scrittori, dobbiamo essere in grado di affrontare tutto questo, ma spesso non ci riusciamo. Anche dopo il periodo sovietico il nostro Paese è rimasto un bagno di sangue a cui nessuno può sfuggire. Spesso sento dire che bisogna fare un grosso lavoro sull’anima dell’individuo. Oggi molte persone praticano la meditazione o altre forme di studio nel tentativo di scoprire la propria individualità. Nessuno tenta invece di praticare una vera meditazione sull’anima. Ho parlato con centinaia di russi che sono stati in Afghanistan e hanno ucciso migliaia di persone, ma non si sono resi conto di aver commesso tali omicidi. Si giustificavano dicendo: “Non sapevo… ma anch’io ho sofferto stando in Afghanistan, sono persino invalido…”. Sempre le solite giustificazioni a mascherare la paura di provare il proprio stato d’animo: questo potrebbe dirsi l’aspetto più difficile da capire e rendere in forma scritta. L’impressione è di parlare con delle persone che non hanno capito, che cioè non si sono rese conto di quanto hanno fatto, è molto diffusa anche tra i reduci dell’epoca stalinista. Gli ex-sorveglianti degli istituti di detenzione dicevano spesso: “Ho fatto quel che ho fatto perché ho ricevuto degli ordini”. Ricordo che rimasi molto scossa dal racconto di un responsabile che aveva il compito di programmare le fucilazioni dei prigionieri. Mi disse: “Quant’è pesante fucilare le persone, un vero lavoraccio!”. Mi confidò persino di aver chiesto l’intervento di un massaggiatore per il suo gruppo di fucilieri, affinché si prendesse cura delle loro dita: a quanto pare, a forza di schiacciare il grilletto i suoi uomini avevano bisogno di un massaggio per alleviare il fastidio e per uccidere meglio. È anche per questo che alcuni di noi si stupiscono della situazione russa e si chiedono: “Ma dov’è Putin in tutto questo?”. Allo stesso modo la gente in Europa mi chiede: “Dove sta Putin in tutto questo?”. Negli anni Novanta eravamo tutti dei romantici e pensavamo che la libertà stesse in Occidente; che grazie a quest’apertura avremmo subito ottenuto la nostra indipendenza. Il nostro ottimismo ci portava addirittura a pensare che i comunisti se ne sarebbero andati e che sarebbe iniziata per tutti una gran vita. Ha riassunto molto bene questa situazione un artista di nome Kabakov. Diceva che sotto il comunismo eravamo talmente impegnati a lottare contro il sistema che, dopo averlo sconfitto, ci siamo resi conto che ci sarebbe toccato di vivere in mezzo ai ratti. L’uomo aveva generato orrori tali da mettere a repentaglio la sua stessa libertà. E allora la domanda è: “Da dove viene Putin?”. Viene proprio da quegli uomini lì. È un peccato che ci siano voluti vent’anni per farci capire che la libertà è una strada molto lunga da percorrere.
Nei miei cinque libri ho tentato di comporre una sorta di enciclopedia del comunismo. È un tentativo di affermare che il comunismo non è morto né tanto meno morirà presto. Tra l’altro il nuovo populismo che si sta diffondendo è una sorta di sottoprodotto del comunismo, una sua ramificazione. È per questo che io mi rivolgo sempre a quel tipo di scrittori che considerano il loro lavoro come una missione, a quegli scrittori che si sono dati un obiettivo molto ingenuo: aiutare gli esseri umani.