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De Mauro e Don Milani

Nell’intervista con Francesco Erbani (La cultura degli italiani, Laterza 2004) così De Mauro considerava don Lorenzo Milani e la sua scuola.
15 Marzo 2017
Tullio De Mauro

Incontro con Francesco Erbani

Nell’intervista con Francesco Erbani (La cultura degli italiani, Laterza 2004) così De Mauro considerava don Lorenzo Milani e la sua scuola.

Se non sbaglio è proprio la Storia linguistica che le induce interesse per la scuola e i suoi ordinamenti: è lì che traggono origine una competenza e una passione che l’accompagneranno nei decenni. In fondo fu la scuola uno dei grandi agenti linguisticamente unificanti. Ma intanto le chiederei se nel contesto di quegli anni si inseriva anche la figura di don Lorenzo Milani.

Don Lorenzo l’ho conosciuto soltanto a metà di quel decennio, poco prima della sua morte. E non credo che abbia mai letto il mio libro, che uscì quando lui si occupava dell’obiezione di coscienza e cominciava a lavorare a Lettera a una professoressa. Lui era in contatto con Gianfranco Folena e non credo che nella Lettera abbia avuto presente il mio libro. Ma questo è veniale.

Invece io avverto una colpa di cui mi vergogno: buona parte del lavoro di ricostruzione dei livelli di scolarità in Italia e dei drammi che ha vissuto la società italiana perché questi livelli non crescevano, era stato già compiuto benissimo – anche se artigianalmente, non essendoci fonti specifiche – in Esperienze pastorali, che vide la luce nel 1958. Io ho conosciuto questo libro solo alla fine degli anni Sessanta: furono due giornalisti, Mario Cartoni e Giorgio Pecorini, a suggerirmelo. Ma concordo con quella parte minoritaria dei seguaci di don Lorenzo che lo considerano il suo volume più costruito, quello con maggiore densità religiosa, probabilmente, certamente sociale, linguistica e antropologica. È un libro bellissimo, al quale affiancherei un’intervista di Pasolini del 1955, recuperata tempo fa da Laura Betti, in cui il poeta friulano, come don Lorenzo, intravide molto lucidamente, con la vista lunga di cui era dotato, i drammi che il consumismo avrebbe potuto produrre. La parola consumismo non c’è in nessuno dei due testi, ma il senso è quello.

Pasolini era da pochi anni arrivato a Roma, don Lorenzo viveva a Barbiana: due esperienze radicalmente diverse.

Entrambi, come si dice, misero i piedi nel piatto. Molti hanno chiuso don Milani nella dimensione di Barbiana. È una scuola per montanari, hanno detto, è un altro mondo. La sua vicenda, il suo modello sono irripetibili. Ma in Esperienze pastorali don Lorenzo ha in mente la scuola di una tipica periferia urbana, quella di San Donato di Calenzano, alle porte di Firenze, dove è stato cappellano. Del resto anche nella Lettera una parte dei ragazzi di Barbiana sono quelli di San Donato che lì, sulle montagne del Mugello, vanno a recuperare gli anni scolastici persi. Don Lorenzo descrive i ragazzi di città che smarriscono religione, cultura e tempo giocando a flipper e finendo preda della droga. E in questo contesto studia i livelli di scolarizzazione: lo stesso procedimento che ho adottato io senza sapere che era già stato seguito.

Quindi sono due strade che viaggiano parallele, senza incrociarsi, quella sua e quella di don Milani?

Mi sembra di sì. Naturalmente sono anche altri, e molto rilevanti, i motivi che spiegano l’attenzione per la Lettera. Ma certo il discorso di don Lorenzo, condensato nella frase “è la lingua che ci fa eguali”, aveva dimostrato di poter catturare molte sensibilità e molta attenzione politico-culturale.

Lei ha mai frequentato la scuola di Barbiana?

No, purtroppo, almeno fino a quando don Lorenzo era vivo. L’ho visitata dopo la sua morte: ancora oggi mi emoziona il ricordo di quelle immagini, della povertà di quel luogo in cui don Lorenzo viveva un’esperienza di dedizione totale. (…)

Lei quali esperienze ha maturato con la conoscenza di don Lorenzo?

Non solo per me, ma per molti di noi è stato determinante il suo riferirsi alla lingua, all’educazione linguistica. Abbiamo recuperato attraverso don Lorenzo i vecchi programmi, le tesi di Ascoli e anche di Gramsci, e cioè che l’italiano si insegna a partire da quel che vive nel mondo circostante, i dialetti, i gerghi, la lingua di casa insomma.

Ritornava alla mente il Wittgenstein maestro di scuola, che, colto rampollo della grande borghesia viennese, quando per alcuni anni si dedica a fare il maestro di scuola in un paesino di montagna, incita i ragazzini che si bloccano e non trovano l’espressione giusta in Hochdeutsch, nella lingua colta, e gli dice: ma tu questo come lo diresti zu Haus, a casa, nella tua lingua. I ragazzi si sbloccavano, parlavano e poi imparavano l’Hochdeutsch. La scuola di Barbiana nacque, e questo è importante ripeterlo, a San Donato di Calenzano, nel suburbio fiorentino, a contatto con realtà precocemente in via di disfacimento, con drammi come l’abbandono scolastico, con i ragazzi che si perdevano e spesso finivano preda della criminalità. È lì che si nutrì la vocazione pedagogica di don Lorenzo, oltre che il rimprovero ai cattolici, ma anche ai comunisti, di una disattenzione verso la dimensione educativa. La scuoletta di campagna era un terreno sperimentale, che gli permise di elaborare tecniche di insegnamento, le quali contemplavano anche qualche raro schiaffone, e di assorbire le indicazioni che venivano dal Movimento di cooperazione educativa.

Che cos’è il Movimento di cooperazione educativa?

È un organismo condannato a essere elitario, non perché abbia questa vocazione, ma perché è molto difficile rendere popolari i suoi insegnamenti. Prende le mosse dalle indicazioni del grande pedagogista francese Célestin Freinet, e si diffonde in vari Paesi. È un movimento di maestri e di maestre che studiano le tecniche per agevolare l’apprendimento della lingua, delle lingue straniere, dei calcoli e quindi dell’orientamento nel mondo. In Italia si è sviluppato negli anni cinquanta, ed è stato molto importante, per esempio, nell’organizzazione che molti Comuni emiliani sono riusciti a dare, un po’ alla volta, alle scuole comunali dell’infanzia. Fra i protagonisti di questo movimento Loris Malaguzzi, che è stato l’artefice delle scuole di Reggio Emilia; Bruno Ciari, uno dei collaboratori della prima fase della rivista “Riforma della scuola”, una grande personalità, bravissimo insegnante e studioso di tecniche di un insegnamento liberatorio e che sollecitasse i ragazzi. E poi Mario Lodi. Mario Lodi nasce nel Movimento di cooperazione educativa, e questo si vede già nel suo primo diario quinquennale, che realizza una delle richieste del Movimento ai propri aderenti, e cioè autoanalizzarsi, stilare un registro continuo di ciò che accadeva realmente in classe e far confluire queste, che in inglese oggi chiameremmo the best practices, in un alveo comune, durante i convegni che annualmente si tenevano e si tengono. Oggi l’associazionismo degli insegnanti si è diffuso, ma negli anni Cinquanta si può dire che il Movimento di cooperazione educativa fosse il solo organismo presente. Mario Lodi entrò in contatto con don Milani e con lui ragionò, per esempio, sull’importanza educativa della scrittura collettiva dei testi, una tecnica alla quale ancora oggi si oppongono resistenze. Oppure sullo scambio di esperienze fra alunni di scuole diverse, appartenenti a paesi diversi, lo scriversi e il documentarsi reciprocamente. Oppure, ancora, sul bisogno di dare motivazioni alla scrittura, senza abbandonarla alla nebulosa del “tema libero”. La scuola di don Lorenzo era una scuola d’avanguardia, d’altissimo livello culturale. I ragazzi dovevano studiare musica, saper leggere uno spartito, una pratica tuttora molto diffusa all’estero, ma da noi bistrattata, basta contare quante poche persone in una sala di concerto in Italia se ne vengono con il loro spartito a seguire la musica. Questa era la scuola di don Milani, altro che scuoletta di campagna.

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