David non ci vorrebbe Graeberiani
All’inizio di quest’anno, Goffredo Fofi mi chiese di intervistare David Graeber con l’idea di farne un libro-intervista. Estremamente onorato e al contempo nervoso, in cerca di qualche direzione, cominciai a chiedere a Goffredo che temi avremmo dovuto affrontare, e a David che disponibilità avesse e di cosa gli sarebbe piaciuto parlare. Il primo mi rispose che ero libero di fare quello che volevo, il secondo che certamente avremmo potuto fare l’intervista e parlare di qualsiasi cosa! Che potevo aspettarmi, incastrato tra due anarchici? Ricordo una meravigliosa conversazione con David nel suo studio, dove parlammo a lungo del libro e dei titoli che avremmo potuto dargli, finché David non cominciò a espormi la sua teoria delle libertà perdute, che aveva appena formulato per il suo prossimo libro (The Dawn of Everything: A New History of Humanity, 2021), un po’ come se io avessi dovuto offrire un commento critico (cosa che chiaramente non feci). Non perché io fossi speciale in alcun modo, ma perché, da anarchico e da antropologo, pensava e scriveva con gli altri. Infine parlammo d’attivismo, su cui mi diede alcuni consigli. Da allora cercammo di fissare delle date per l’intervista, ma la pandemia stava scoppiando, l’università stava chiudendo e David mi disse: “l’intervista la facciamo non appena finisce questo casino”. Fu l’ultima volta che lo vidi. Non avrei mai pensato che il casino gli sarebbe sopravvissuto.
Ho conosciuto David Graeber nel 2018, seguendo il suo corso di “Antropologia e Storia Globale” alla London School of Economics, all’inizio di un percorso che mi ha cambiato la vita. L’ho conosciuto per poco e tuttavia non poco, come tanti suoi studenti e compagni, per via della sua irriverente trasparenza e di una curiosità volutamente infantile verso l’altro. Nel corridoio del dipartimento dove l’antropologia sociale vide la luce, al principio del secolo scorso, con Malinowski, la porta del suo ufficio era sempre aperta. Quasi sempre si intratteneva con noi studenti ben oltre il quarto d’ora convenzionale, raccontandoci di tutto, dagli incontri fatti in Madagascar durante il suo primo lavoro sul campo, ai più recenti piani rivoluzionari “cospiratori” (così li chiamava), a cui si divertiva a dare acronimi geniali. Dopo un po’, ci invitava a proseguire la conversazione alla caffetteria chic dell’università, pensata più per lo staff che per gli studenti, fornita di ampie poltrone di pelle. Ci incoraggiava ad andarci più spesso, anche senza di lui. Era un invito alla simbolica contravvenzione della gerarchia universitaria attraverso una piccola occupazione quotidiana. Era con questa sbeffardaggine che David affrontava ogni tipo di norma.
In questa stessa caffetteria ricordo di aver parlato con lui, tra le tante cose, di vita, morte e rivoluzione. Ero andato a trovarlo (direttamente alla caffetteria, che fungeva da suo secondo ufficio) per presentargli la mia idea di tesi. Come sempre, prima di incontrarlo, ero piuttosto nervoso. Era comunque un personaggio bizzarro, imprevedibile. Riuscii a introdurre l’argomento: lo studio di FairCoop, una cooperativa che utilizzava una criptomoneta sociale. Lui, entusiasta, mi disse che con la gente di FairCoop era stato in Rojava, e cominciò a mostrare, a me e a chi sedeva con noi, tutte le foto del suo viaggio. David è stato uno dei più convinti sostenitori del Confederalismo Democratico nonché compagno e fratello del popolo curdo, e di quella rivoluzione in cui riconobbe l’enorme potenziale per un’umanità libera. Dalla Zad di Notre-Dame des Landes scrivono che, proprio in quel viaggio, è riuscito a portare in Rojava dei droni.
Il Rojava gli offrì l’occasione di parlare di rivoluzione, come amava fare spesso. Credo che questo sia uno dei suoi insegnamenti più importanti: non aver paura di immaginare (e di parlare, pensare e pianificare) la rivoluzione. Disse che, idealmente, la rivoluzione sarebbe dovuta accadere entro i prossimi 10 anni, così che avrebbe potuto partecipare a diversi anni di mondo libero e goderselo un po’. Naturalmente c’era dell’umorismo, ma c’era anche un concreto ottimismo della volontà, unito all’analisi di un capitalismo al collasso. Inoltre, per David, il confine tra il credere realmente in una rivoluzione imminente e l’esercizio soltanto immaginativo era estremamente sottile. Credeva infatti nella forza dell’immaginazione e del gioco come esercizi di libertà, in sé stessi rivoluzionari. Certo, ha scritto che la rivoluzione, secondo una prospettiva anarchica, non è quel repentino cambiamento à la presa della Bastiglia come spesso ce la si immagina, ma piuttosto la creazione di spazi di libertà – dal capitalismo, dal patriarcato e dallo stato – e modi di organizzarsi che rendano evidente la stupidità della forma corrente di organizzare le cose. Nonostante questo, immaginava il futuro (anche molto prossimo) con un prima e un dopo rispetto alla Rivoluzione con la R maiuscola, concetto che riteneva utile se non altro come “strumento del pensiero” (Frammenti di antropologia anarchica,2006).
Uno strumento del pensiero rivoluzionario perché ci permette di creare e mettere in pratica e sin da subito mondi rivoluzionari. Era questo che David faceva e costantemente ci invitava a fare, ed è questo che, forse più di ogni altra cosa, ha profondamente influenzato molti di noi. Era l’ostinato ottimismo secondo cui le cose si possono fare in modo completamente diverso, più sensato, piacevole e libero, e che non ci resta che cominciare a farlo: “Come se fossimo già liberi” era, non a caso, il titolo che non gli fu permesso di dare al suo libro su Occupy Wall Street (che fu poi chiamato Progetto democrazia. Un’idea, una crisi, un movimento, 2014). È in questa chiave, tra l’altro, che interpretò il significato dell’azione diretta, l’atto rivoluzionario del movimento alter-globalista (e poi di Occupy Wall Street) su cui elaborò un’intera etnografia. È nell’azione diretta stessa, fondamentalmente anarchica per via della necessaria congruenza tra processo e obiettivo, in cui creiamo il modello concreto di una società libera (Rivoluzione: istruzioni per l’uso, 2012).
Il filo che unisce atti e opere di David Graeber è la volontà di dimostrare – come ha scritto in Burocrazia (2016) – che “la verità ultima e nascosta del mondo è che è qualcosa che noi creiamo e che potremmo facilmente creare in modo diverso”. L’antropologia (al servizio della storia, e viceversa) è lo strumento per dimostrarlo. Innanzitutto, serve a distruggere certezze acquisite, che nessuno ha più il coraggio di mettere in dubbio, e che fungono da fondamenta della società contemporanea. Tra queste: “prima del denaro c’era il baratto”; “è giusto che un debitore ripaghi il debito” (Debito. I primi 5000 anni); “l’impresa privata e competitiva cerca l’efficienza”; “il lavoro nobilita la persona” (Bullshit Jobs); “la democrazia è nata in Grecia” (Critica della democrazia occidentale) etc. Poi, a dimostrare che esistono milioni di altre possibilità (come recita il titolo di una sua collezione di saggi non ancora tradotti in italiano). Possibilità esistenti, reali, tanto nel passato quanto nel presente – a partire da una società senza stato –, di cui l’antropologia non riconosce solo l’esistenza, ma l’abbondanza.
Per questo, l’antropologia, seppur nata con e per progetti imperialisti e coloniali, era almeno in parte, per David, amica dell’anarchismo. L’anarchismo è libertà, immaginazione, gioco, anti-autoritarismo, amore e cura, nonché, come ha scritto in Frammenti, “un discorso etico riguardo alla pratica rivoluzionaria”. Non una categoria identitaria ed esclusiva, come invece spesso accade. Il mancato anarchismo altrui non era la sua linea di demarcazione. Al contrario, trovava e sottolineava l’anarchia che già esiste in ogni cosa e in ognuno di noi. Così come con il “comunismo di tutti i giorni”, che non faticava a vedere anche nei meccanismi delle peggiori multinazionali (Debito. I primi 5000 anni). In questo senso David è riuscito nell’ardua impresa di essere estremamente radicale senza essere estremamente divisivo. Al contrario, tanto nella teoria come nella pratica, non ha fatto altro che individuare e creare convergenze. Ed è rimasto amato, allo stesso tempo, dai lettori del New York Times come dai comunisti, dalle alte cariche del partito laburista inglese fino alle anarchiche e agli anarchici, dal Rojava al Cile, dagli Stati Uniti al Madagascar.
Nato e cresciuto tra la working class di New York, di famiglia ebrea, è diventato – come ha scritto Maurice Bloch – “l’antropologo più influente della sua generazione”, ed è considerato una delle menti più brillanti al mondo nell’analisi dei fenomeni politici e sociali contemporanei. Il tutto senza perdere un briciolo della sua radicalità, generosità e disponibilità. Ha dimostrato che si può pensare e scrivere per l’accademia senza perdere il contatto con le persone, i movimenti e la politica. Ma che anzi si può creare una relazione fruttuosa, lasciando che teoria e pratica interagiscano. Questo credo faccia parte dei più importanti insegnamenti di David: si possono accettare contraddizioni senza perdere i propri valori. Valori che, per Graeber, sono necessariamente al centro di ogni conflitto politico. La relazione tra valore (al singolare) e valori (al plurale) è al centro di quella che è per molti la sua opera più importante di teoria antropologica: Toward An Anthropological Theory of Value (2002), in cuicerca di sviluppare una sintesi tra Mauss (sua fondamentale e costante fonte d’ispirazione) e Marx, riflettendo allo stesso tempo su magia e religione, potere e relativismo, storia e struttura, desiderio e sogni. Qui e altrove, Graeber costruisce la sua critica al post-modernismo e al post-umanesimo, rivendicando con forza il ruolo centrale dell’azione umana. Quest’ultima, che comprende pensieri, intelligenze, affetti e relazioni, crea non solo valore e valori, ma mondi e universi.
È inevitabile, per Graeber, ricominciare a chiedersi le Grandi Domande che il consenso intellettuale sembra aver dimenticato. Nel libro a cui ha lavorato negli ultimi anni (The Dawn of Everything: A New History of Humanity, 2021) con l’archeologo David Wengrow, e che ha finito solo tre settimane prima di lasciarci, una di queste grandi domande è “qual è l’origine dell’ineguaglianza”. Graeber risponde problematizzando la domanda, perché tra teorie evoluzioniste e miti dell’innocenza perduta abbiamo finito per credere a una storia dell’umanità falsa, utile ad annullare qualsiasi possibilità alternativa. Così come ha fatto col debito, Graeber riscrive la storia alla luce degli studi più recenti. Non con l’obiettivo di giustificare il presente, ma con quello di aprire possibilità alternative. Dimostra infatti che nel corso della storia dell’umanità intere popolazioni hanno costantemente e coscientemente compiuto delle scelte riguardo alla forma organizzativa delle proprie società, una pratica che abbiamo dimenticato. Alle volte, per esempio, alternando uguaglianza e disuguaglianza a seconda delle necessità dovute alle stagioni. Per questo, uno dei primi titoli a cui aveva pensato, e su cui abbiamo spesso riso, era: “We have never been stupid” (“non siamo mai stati stupidi”).
Stupidi non siamo, ma siamo semmai resi stupidi dalla mancanza di libertà. Una di queste libertà è il tempo che avremmo guadagnato se all’aumento della produttività nel corso del secolo scorso avesse corrisposto una effettiva diminuzione dell’orario di lavoro: se il guadagno della produttività fosse stato dato, sotto forma di tempo, a chi lavora, e non, sotto forma di profitto, a chi possiede. Oggi, al contrario, lavoriamo e produciamo di più, siamo meno felici, ed estraiamo, inquiniamo e distruggiamo il pianeta. Per spiegare tutto ciò, Graeber prende un fenomeno particolarmente diffuso (la sensazione che il proprio lavoro sia utile o benefico per la società) e costruisce una teoria, esposta nel suo libro più recente, Bullshit Jobs (2018). In effetti, come possiamo aver creato una società in cui la metà della popolazione è obbligata a far lavori inutili o addirittura dannosi, che sono, tra l’altro, i più pagati? La risposta è da trovarsi nel libro, ma può riassumersi così: “La classe dominante ha capito che una popolazione felice e produttiva con tempo libero a disposizione è un pericolo mortale” (On the Phenomenon of Bullshit Jobs, 2013). Per questo, Graeber si spinge a sostenere pubblicamente un reddito di base universale incondizionato.
Il ragionamento gli dà occasione di avvicinarsi al concetto di cura, arrivando a suggerire una nuova configurazione delle classi sociali (perlomeno nel Nord Globale), con, da una parte, i bullshit jobs e, dall’altra, le caring classes (le classi che si prendono cura). Della cura, David dà una definizione “anarchica” in una conferenza del 2018 al College de France, definendola come “ogni azione volta a mantenere o aumentare le libertà altrui”. All’università, tra i corsi dati e le decine di studenti supervisionati, tra l’ufficio e la caffetteria, tra libri, saggi e articoli da scrivere, tra manifestazioni, presidi e riunioni a cui partecipava, aveva trovato il tempo di organizzare, insieme a noi, un gruppo di lettura sul tema della cura, in cui leggevamo letteratura femminista attraverso una lente antropologica. Come alcune mie compagne, anche io non ho dubbi che, nei prossimi anni, David avrebbe voluto dedicarsi a esplorare il tema della cura e delle caring classes come soggetto rivoluzionario, distruggendo e ricostruendo, immaginando possibilità.
Insomma, David Graeber ci ha insegnato a guardare al mondo come qualcosa che può costantemente cambiare attraverso la conquista della libertà di deciderne democraticamente. Non so come spiegare a che livello di profondità quest’idea abbia influenzato me, come le tante altre persone che hanno avuto la fortuna di passarci del tempo, anche solo leggendolo. Ci ha insegnato a essere liberi e irriverenti, ottimisti e giocosi, ma radicali e rivoluzionari. Ci ha insegnato che teoria e pratica non solo possono andare insieme, ma che non possono che andare insieme. Ha dimostrato che – seppur tra mille ostacoli – si può ancora partecipare a un mondo accademico e intellettuale sempre più autoreferenziale, ma per uscirne, intervenire e cambiare il mondo.
Il sentimento prevalente dalla mattina di sgomento in cui abbiamo scoperto che non avremmo rincontrato David è, per me, la gratitudine. David Graeber ci ha già fatto regali immensi, e di ogni tipo. All’umanità tutta ha regalato i suoi libri, articoli, saggi e discorsi. Credo che in tanti abbiamo riscontrato, in essi, una capacità magica e inedita di essere fonti di ispirazione e di libertà. Non solo, Graeber rivendicava l’atto politico di essere “gentile con i lettori”, per cui ha scritto quasi tutto affinché ognuno lo possa leggere, apprezzare, divertirsi e ispirarsi. Per questo, il regalo più grande che potremmo fargli è leggere, condividere e mettere in pratica le sue idee.
In quella stessa conversazione alla caffetteria chic David ci chiese, con la solita serietà scherzosa, di vigilare affinché nessuno definisca sé stesso o il suo pensiero “graeberiano”. Come ha scritto in Frammenti di Antropologia Anarchica, l’anarchismo ha a che fare con la pratica, che in quanto tale non ha mai formato aggettivi a partire dai cognomi, ma dalle azioni. Che fare, noi, comunità globale di lettrici e lettori, studentesse e studenti, compagne e compagni, che ci sentiamo graeberiani? Non essere graeberiani, ma rivoluzionari-e.