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Dall’analogico al digitale… all’egemonico

8 Giugno 2013
Jean Baudrillard

Il più bell’esempio della dissoluzione sistematica di una realtà di cui si assapora in qualche modo il crepuscolo: tale sarebbe il destino attuale dell’immagine, della sparizione dell’immagine nel passaggio inesorabile dall’analogico al digitale. E il destino dell’immagine è esemplare perché l’invenzione dell’immagine tecnica in tutte le sue forme è la nostra ultima grande scoperta nella ostinata ricerca di una realtà “oggettiva”, di una verità oggettiva, il cui specchio ci verrebbe offerto dalla tecnica… Sembrerebbe tuttavia che lo specchio si sia fatto prendere dal gioco e abbia trasformato tutto in una “realtà” virtuale, digitale, informatica, numerica, e il destino dell’immagine

non è che un infimo dettaglio di questa rivoluzione antropologica.

Non c’è analogia più bella per illustrare questa rivoluzione di quella della fotografia diventata digitale, liberata in un colpo solo del negativo e del mondo reale. E le conseguenze dell’uno come dell’altro sono incalcolabili – su scale diverse, naturalmente. Fine di una presenza singola dell’oggetto, dato che può essere costruito numericamente. Fine del singolo momento dell’atto fotografico, visto che l’immagine può essere immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza inconfutabile del negativo. Al tempo stesso scompaiono il differito e la distanza, quel vuoto tra l’oggetto e l’immagine che costituisce lo stadio del negativo. La fotografia analogica è un’immagine prodotta dal mondo per mezzo della pellicola, una dimensione della rappresentazione. L’immagine digitale, invece, è un’immagine uscita direttamente dallo schermo, che si immerge nella massa di tutte le altre immagini nate dallo schermo. Essa appartiene all’ordine del flusso, prigioniera del funzionamento automatico dell’apparecchio. Quando il calcolo, il digitale prevalgono sulla forma, quando il software prevale sullo sguardo, si può ancora parlare di fotografia?

Tutto questo non è una semplice peripezia tecnica: con il passaggio al digitale è tutta la fotografia analogica, tutta l’immagine concepita come la convergenza della luce proveniente dall’oggetto e di quella proveniente dallo sguardo ad essere sacrificata, definitivamente condannata. Col progressivo diffondersi della digitalizzazione presto non si troveranno più pellicole, superfici su cui le cose si iscrivevano negativamente. Non ci sarà altro che un software per le immagini, un effetto digitale al miliardesimo di pixel e, al tempo stesso, una facilità incredibile di scatto, ritorno-immagine e fotosintesi di qualsiasi cosa. Metaforicamente, è tutta la ricchezza del gioco della presenza e dell’assenza, del comparire e dello scomparire (l’atto fotografico fa svanire per un breve istante l’oggetto nella sua “realtà” – niente di ciò avviene con l’immagine virtuale né con l’acquisizione digitale – senza contare la magia del trasparire dell’immagine durante lo sviluppo), tutta la ricchezza del gesto fotografico che scompare con l’avvento del digitale.

Sono il mondo e la visione del mondo a venirne modificati.

Soprattutto in questi tempi di cambiamento tecnologico ultrarapido, è nata l’idea assurda di “liberare” la realtà attraverso l’immagine, e di “liberare” l’immagine attraverso il digitale. La “liberazione” della realtà e quella dell’immagine passerebbero per la profusione e la proliferazione. Vuol dire dimenticare la sfida, il rischio che costituisce il passaggio all’atto fotografico, la fragilità e l’ambivalenza del rapporto con l’oggetto – l'”insuccesso” dello sguardo, si potrebbe dire: tutto ciò è essenziale per la fotografia – ed è una cosa rara! Non si libera la fotografia!

Ancora una volta, questo non è che un esempio di quanto sta avvenendo massicciamente in tutti i campi. In particolare in quelli del pensiero, della concezione, del linguaggio e della rappresentazione. Lo stesso destino digitale minaccia l’universo mentale e tutta l’estensione del pensiero.

Un elemento dopo l’altro, si ripresenta lo stesso scenario: con la costruzione informatica dello 0/1, che è una sorta di calcolo integrale, è tutta l’articolazione simbolica del linguaggio e del pensiero che sparisce. Presto non vi saranno più superfici sensibili di confronto, né sospensione del pensiero tra illusione e realtà, né vuoto, né silenzio, né contraddizione, ma solo un flusso continuo, un solo circuito integrato. E l’intelligenza informatica si presta, o meglio ci costringe, come il digitale con l’immagine, alla stessa facilità, alla stessa versatilità di produzione e di accumulazione, di “fotosintesi” di tutta la realtà possibile. L’illusione – gigantesca – è quella di confondere il pensiero con una proliferazione del calcolo, o la fotografia con una proliferazione di immagini. E più procederemo in questa direzione più ci allontaneremo dal segreto e dal piacere dell’uno e dell’altra. Sintomatica è la preminenza esorbitante accordata al cervello, non solo nell’ambito delle neuroscienze, ma in tutti i campi. Senza parlare della recente proposta di Le Lay sulla gestione della disponibilità di tempo del cervello (per la pubblicità della Coca-Cola), superata ancora per il cinismo involontario e il ridicolo da quella di un responsabile della cultura del comune di Parigi: «Ciò che vogliamo è rendere il cervello umano disponibile, non per la pubblicità e il capitale ma per la Cultura e la Creatività!».

Sia come sia, il controsenso totale è quello di fare del cervello un ricettore, un terminale sinaptico, uno schermo per immagini cerebrali in tempo reale (e in questo senso, al limite, è meno assurdo mettere in correlazione un cervello “funzionale” e un marchio pubblicitario che non farne il supporto della “Creatività”!). In breve, secondo il presupposto aberrante di tutta la teoria della comunicazione («Noi siamo tutti dei ricettori ed emettitori che si ignorano») e dal momento in cui si fa del cervello un modello informatico, una super macchina a immagine di altre macchine digitali, cervello e realtà (virtuale) non fanno che funzionare in interfaccia, a ciclo continuo, in modo speculare, secondo lo stesso programma (ciò che nel complesso dà luogo a quella che chiamiamo l’Intelligenza Artificiale). In questo quadro, abbiamo privilegiato definitivamente cervello in quanto fonte strategica del pensiero, assicurandogli – a spese di qualsiasi altra forma d’intelligenza, in particolare quella del Male, relegata nella zona delle funzioni inutili – l’Egemonia, la potenza egemonica- a immagine, esattamente, di quella che regna nella sfera geopolitica. Stesso monopolio, stessa sintesi piramidale dei poteri.

Tutto ciò caratterizza un processo egemonico globale. La fotografia e il digitale fungono da micromodello per una analisi generalizzata. Poiché tale egemonia altro non è che il riassorbimento di tutta la negatività degli affari umani, la riduzione alla formula più semplice, unitaria, senza alternative, quella dello 0/l, pura differenza di potenziale in cui si vorrebbe veder svanire digitalmente ogni conflitto.

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