Dal profondo delle Marche

a cura di Nicola Villa
Come nei tuoi precedenti, questo tuo ultimo Al centro del mondo (Mondadori) sembra un romanzo di formazione: Damiano Bacciardi, il protagonista, vive con con i nonni e lo zio a Villa la Croce, sulle colline marchigiane, che nel paese vicino è stata ribattezzata “la Villa dei Matti”. È una storia di violenza e di provincia, dove c’è una forte dialettica tra modernità-tradizione, e resistenza alla prima. Dove è nata l’ispirazione per questo contesto?
La scelta non è stata una scelta, nel senso che mi sono lasciato guidare dall’istinto, o meglio, dall’attrazione e dal desiderio. Avevo voglia di scrivere una storia che sapesse anche di cielo e di terra, e volevo esserne accompagnato. Anche il teatro umano che si muove all’interno di questo contesto credo che abbia qualcosa di selvaggio. Sicuramente ce l’ha Damiano, che crede di comandare le api con i suoi gesti, che si ferma a scrutare le ombre e vede le facce nei tronchi degli alberi. E, come un selvaggio che veda il proprio mondo depredato e deportato, non può fare altro che ribellarsi. Come un selvaggio ha i propri talismani, una vecchia edizione da edicola di Billy Budd, la fede d’oro di sua nonna e poi anche l’accetta appartenuta a suo padre che da talismano assume sempre più i connotati di una vera arma. L’ispirazione è nata da qui, da un’immagine in cui si contrapponevano una grande quercia che dopo tanti anni rimetteva le foglie e un ragazzo, al tempo ancora senza nome, che la sfidava con un’accetta. Ora che il libro è stato scritto, questa prima immagine resta ancora per me la sintesi visiva di tutto il romanzo. L’unico contributo che ho dato nella scelta della copertina nasce da qui: quando mi è stato chiesto se ci fosse una qualche immagine a cui accostassi il romanzo, non ho avuto dubbi a proporre un albero.
Il miele dei Bacciardi, “la manna”, è considerato un afrodisiaco e aiuta le donne a rimanere incinta. È il simbolo della resistenza e del legame con la natura, ma c’è anche un elemento magico e di mistero. Mi ha ricordato Le meraviglie di Alice Rohrwacher, anche per quel clima da “dopo festa”. Il mondo del libro è già post-genocidio culturale e ecologico?
La Manna dei Bacciardi rimanda a un passato mitico. Le api sono legate alla nascita del Santuario di Villa la Croce, perché nel Quattrocento, secondo la diceria, avevano indicato con il loro volo il punto in cui costruirlo. Ma soprattutto le api portano con sé una parola da quei tempi lontani, ed è la parola “famiglia”. Le api vivono in famiglie e si perpetuano come tali. I Bacciardi le allevano, quasi le accudiscono. Damiano ci vive in simbiosi, e proprio a lui tocca fare l’esperienza di una famiglia che potrebbe sgretolarsi. È l’erede, ma potrebbe diventare anche l’ultimo dei Bacciardi. E come le api impazziscono a contatto con i nuovi diserbanti delle colture lontane, ma non così lontane, da Villa la Croce, anche lui impazzirebbe nel vedersi privato dell’habitat della sua pace. Il mondo esterno gli manda, uno dopo l’altro, degli emissari che vorrebbero impadronirsi di quelle arnie. Queste figure si presentano a Villa la croce e vorrebbero impossessarsi della manna per quanto in realtà non la conoscano davvero. La forza per respingerli Damiano la trova da qui, dalla consapevolezza di conoscere qualcosa come la può conoscere soltanto chi ne è parte.
Una domanda sui comprimari: Zio Vince, detto il Gorilla, è un cattivo post-moderno che sostiene Trump, personaggio tragico, ma che suscita alla lunga una certa pietà con il suo desiderio di emanciparsi vendendo Villa la Croce. Al contrario Theo Van Gogh, l’aiutante strambo, pittore, tossico, è il trickster grazie al quale la storia ha una svolta. Com’è nata l’idea per questi due personaggi?
Se volessimo etichettare velocemente Zio Vince potremmo dire che è un Agamennone di provincia, uno che vorrebbe prendersi con la forza anche ciò che non gli appartiene. Con la stessa prepotenza tratta le cose che ha intorno, persino le vite degli altri, a cominciare da quella del nipote Damiano. Il cappellino di Trump che porta mentre lavora in quell’angolo di mondo incarna proprio questo desiderio di sopraffazione, come se fosse uno scettro simbolico più o meno inconsapevole. Teo Van Gog invece è il suo opposto. Teo è votato totalmente alla libertà, per sé e per gli altri. Non vuole possedere nulla, e infatti vive in quella che lui chiama “una tana”, che sarebbe una stanza di cemento grezzo in un palazzo in costruzione. Questo stesso principio lo applica sugli altri, persino nel pappagallo ara a cui vorrebbe restituire la libertà riportandolo nelle foreste di origine. Nel corso del romanzo il confitto tra i due si fa inevitabile. Damiano resta nel mezzo, tirato da un lato da Zio Vince che cerca di conservare sotto silenzio i traumi della famiglia, dall’altro da Teo che sprona invece Damiano a scavare in quel silenzio. Questi due personaggi mi sono chiariti mentre scrivevo e i loro caratteri si sono definiti quasi a ritroso. È stato il loro scontro a chiarirmi chi fossero. Poi mi si sono svelate anche le loro contraddizioni. Di tutto il male che potremmo vedere in Zio Vince, ad esempio, nessuno potrebbe non riconoscergli almeno la volontà di evolversi e soprattutto l’affetto animale che lo lega al nipote.
Parliamo dei modelli: Paolo Volponi (Il pianeta irritabile che è un’allegoria ecologica del dopo-bomba) all’America gotica del sud di Faulkner e anche Flannery O’Connor con questa presenza molto forte del diavolo. Ti ritrovi in questi esempi? Cosa ti hanno ispirato?
Quando parliamo di natura, credo che sia impossibile – almeno per me – non tirare in ballo alcuni nomi della letteratura nordamericana. Si tratta di romanzieri o scrittori di racconti che hanno reso la natura un personaggio a tutti gli effetti. Penso a Faulkner o a Jack London, tanto per fare due esempi importanti. Alcune descrizioni della natura in Luce d’agosto sono di una tale potenza e di una tale levigata complessità, che mi sono ritrovato a leggerle più e più volte chiedendomi non tanto come l’autore avesse fatto a scriverle, ma come avesse fatto a pensarle. Sempre di Faulkner c’è un racconto lungo, L’orso, che ogni tanto rileggo. Contiene una delle scene di più alta tensione che conosca, quando i cacciatori si accorgono della presenza dell’orso non perché lo abbiano visto, ma perché un picchio smette all’improvviso di becchettare sul tronco. Ma forse il racconto in cui in assoluto la natura è maggiormente protagonista l’ha scritto Jack London, Preparare un fuoco. Gli unici due personaggi sono un uomo e un cane. Sarebbe quasi impossibile pensare a un racconto con questi due soli elementi, ma c’è un terzo personaggio, la natura, che in quel caso è il fiume Yukon ghiacciato con i sessanta gradi sotto zero del Klondike. Dalla Morfologia della fiaba sappiamo che, se al posto del bosco di Faulkner sostituissimo l’Oceano e all’orso un capodoglio, ecco che avremmo Moby Dick. Questo per dire che ci troviamo spesso di fronte alla riproposizione della stessa storia di avvicinamento e poi di scontro con l’irrazionale. In questo senso la natura ci può offrire qualcosa di unico perché sappiamo bene quanto ci possa sovrastare e come da questo scontro usciamo sempre perdenti. Anche per quanto riguarda la nostra tradizione italiana, non manchiamo di punti fermi. Gli sguardi di certi personaggi di Volponi risentono spesso della natura e ne sono condizionati. Ci sono molte pagine di La strada per Roma dove squarci di paesaggio portano dentro Guido Corsalini la luce o la peste. Così in Corporale, soprattutto nella parte in cui Gerolamo Aspri si crea il suo folle rifugio tra le colline intorno Urbino. Poi sicuramente Tozzi del Podere, un autore su cui è calato un oblio per me – ammetto – incomprensible.
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