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Da Moria, Lesbo, un monito per l’Europa

Illustrazione di Martina Sarritzu
22 Ottobre 2020
Anna Clementi

Fiamme indomabili che avanzano senza sosta spinte da un vento impetuoso a illuminare l’oscurità della notte, tende e baracche che sembrano evaporare davanti all’insostenibile potenza del fuoco, migliaia di persone, già sfollate, che scappano sparpagliate alla ricerca di una via d’uscita, con bambini in spalla o trascinati a forza per mano e carrozzine cariche di vestiti, documenti e beni di prima necessità afferrati alla rinfusa nella frenesia della fuga.

Le terribili immagini dell’incendio che nella notte tra l’8 e il 9 settembre 2020 ha completamente distrutto il campo di Moria sono l’ennesima prova del fallimento delle politiche europee basate sull’esternalizzazione e sul controllo dei confini. Il rogo è stato causato da alcuni abitanti del campo come estremo, disperato, tentativo politico di evadere dall’isola-prigione che da mesi, se non da anni, li teneva rinchiusi. Ma quando bruciare la propria casa, sia pur fatta di fango, plastica e materiali di recupero, rimane l’unica soluzione possibile per rivendicare il proprio diritto alla vita e alla libertà, è necessario fare un passo indietro e analizzare la vera natura di Moria e di tutti quei campi sorti come funghi in Grecia negli ultimi cinque anni.

Siamo a Lesbo, isola del Mar Egeo, confine tra due continenti, terra di contadini, pastori e pescatori, figli e nipoti di quei rifugiati fuggiti dall’Asia Minore a seguito dello scambio di popolazione dopo la Prima guerra mondiale, che al diritto internazionale hanno sempre anteposto la legge del mare. Siamo alle soglie d’Europa, punto di passaggio obbligato dagli anni Duemila per i tanti che fuggono da guerre, povertà, persecuzioni e sfruttamento in Afghanistan, Medio Oriente e Africa subsahariana, alla ricerca di un futuro per sé e la propria famiglia. Siamo in una delle cinque isole greche che una brutale politica europea basata sull’approccio hotspot, sull’accordo Ue-Turchia e sulla conseguente restrizione geografica, ha trasformato in un vero e proprio spazio di confinamento per chi intende chiedere protezione internazionale in suolo europeo, decretandola luogo di frontiera non solo con la Turchia, ma con la Grecia stessa.

Dopo la chiusura del corridoio legalizzato lungo la rotta balcanica, rimasto aperto da settembre 2015 a febbraio 2016 come risposta alla cosiddetta “crisi migratoria”, l’Unione Europea si è presto dimenticata dell’empatia e della solidarietà provata per Alan Kurdi, il bambino curdo siriano di tre anni, maglietta rossa e pantaloncini blu, immortalato senza vita su una spiaggia turca, diventato l’allegoria della condizione del rifugiato, e, col pretesto di dare supporto ai Paesi situati sulla frontiera esterna, ha rafforzato il proprio metodo di gestione della migrazione fatto di strutture detentive, di sistematica violazione dei diritti umani, di accordi con Paesi terzi e di meccanismi studiati ad hoc per identificare e selezionare i richiedenti asilo. In breve tempo i campi di transito di cinque isole greche del Mar Egeo – Lesbo, Samo, Chio, Kos e Leros – sono stati trasformati in hotspot, sotto la forma legale di centri d’accoglienza e d’identificazione, dove le persone vengono fatte attendere senza certezze né limiti di tempo in condizioni fisiche e mentali inimmaginabili fino a quando la propria domanda d’asilo non viene esaminata. Le isole stesse sono quindi diventate delle prigioni senza sbarre la cui unica via di salvezza è simboleggiata dalla nave che ogni giorno porta migliaia di turisti verso Atene.

A marzo 2020 le già estreme condizioni di vita sono state ulteriormente esasperate dalla strumentalizzazione politica del Covid-19, soprattutto nel campo di Moria, a Lesbo, dove in un’area di meno di un chilometro quadrato, pensata per un massimo di 2.800 posti, vivevano ammassate oltre 15 mila persone, per la maggior parte bambini, in container sovraffollati, tende improvvisate e alloggi di fortuna. Mentre gruppi di estrema destra lasciati agire dal governo e dalla polizia avevano cominciato a prendere di mira volontari, operatori umanitari e rifugiati, Moria era stato posto in lockdown e l’ingresso e l’uscita dal campo estremamente limitati. A giugno, mentre la Grecia riapriva le scuole e i suoi confini di terra, acqua e aria per far entrare migliaia di turisti, le restrizioni di movimento per i residenti dell’hotspot erano state nuovamente prorogate fino alla fine di agosto. Il primo caso di coronavirus nel campo – riscontrato, con un tempismo perfetto, proprio allo scadere delle misure restrittive – è stato solo il pretesto finale per sigillare Moria in maniera definitiva annunciando che da inizio novembre sarebbe diventato un campo chiuso. Sei giorni dopo, è scoppiato l’incendio.

Moria, più volte descritto come il peggior campo profughi d’Europa, l’inferno dei rifugiati, il campo-prigione, non va letto come un’eccezione nel panorama europeo, anzi, è da considerarsi come la roccaforte dell’Unione Europea, un vero e proprio monito per i tanti che cercano di entrarvi.

La vita negli hotspot greci, apparentemente caotica e priva di regole, è in realtà scandita da una serie di scadenze amministrative e mentali volte in primis a reprimere ogni forma di manifestazione e rivendicazione politica e collettiva. In un contesto dove migliaia di persone vivono ammassate in condizioni disumane, costrette a fare code chilometriche per elemosinare una razione di cibo e una bottiglia d’acqua, scopo principale delle politiche europee è quello di far leva sulla psicologia della persone partendo dalla repressione immediata di ogni protesta e dalla pratica del divide et impera.

Intizar, intizar, sabr kardan, sono forse le prime parole che si sentono quando si cammina per il campo delle isole greche parlando con siriani e afghani. Attesa. Attesa. Un’attesa infinita, che potrebbe durare un mese come due anni, lasciata di proposito indeterminata fino all’ultimo giorno.

Negli hotspot greci la posta in gioco è estremamente alta. È facile vendere speranza, ricattare le persone, costringerle a sopportare condizioni inaccettabili promettendo loro il trasferimento nella Grecia continentale, nell’ennesimo campo: il timbro blu stampato sul proprio permesso di soggiorno è il simbolo di libertà, è l’unico sogno a cui ogni persona viene indirizzata dal momento in cui fa ingresso nell’isola. Ma la speranza, se non viene rinnovata, potrebbe affievolirsi e portare a fare fronte comune per combattere un sistema repressivo. Per questo ogni trenta giorni è necessario ammassarsi in coda dietro il filo spinato che protegge l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo per ricevere un nuovo timbro sul proprio permesso di soggiorno. Ogni mese un nuovo conto alla rovescia, in un intreccio di speranza e attesa a innalzare dei confini temporali che creano dei veri e propri meccanismi burocratici e psicologici di controllo e di gestione del tempo dei richiedenti asilo.

Un sistema strettamente legato al concetto di “vulnerabilità”, l’unica altra via di fuga per abbattere questi confini. Ma la vulnerabilità – che va a rafforzare l’idea per cui solo alcuni migranti prescelti dalle autorità meritino di arrivare nella Grecia continentale – significa nella realtà di hotspot come Moria un invito all’auto-vittimizzazione per dichiararsi il più fragili possibile.

La vulnerabilità è la storia di Morsal, afghana, che ha deciso di rimanere incinta per la sesta volta perché non aveva altre possibilità di uscire da Lesbo. È il tentato suicidio di Rashid, vittima di tortura in Siria, il quale non riusciva a procurarsi un certificato medico che lo accertasse. È lo sguardo fuggente di Kubra, somala, che ha preferito rimanere a Moria fino alla fine della gravidanza piuttosto che confessare davanti a una commissione di uomini di essere stata violentata dallo smuggler con cui era arrivata a Lesbo.

L’altro pilastro su cui si fonda la gestione di un campo è la vittimizzazione di chi lo abita. Chi ha vissuto il terremoto dell’Aquila mi ha spesso raccontato come, una volta arrivato nella tendopoli, il primo desiderio sia stato quello di riappropriarsi della propria quotidianità, dal prepararsi il pranzo, all’andare a scuola, alla partita di calcio con gli amici e di quanto invece l’attuazione di misure emergenziali, spesso usate come giustificazione per la privazione dei più elementari diritti, li avesse fatti sentire come meri destinatari di aiuti umanitari non più in grado di gestire i propri spazi e tempi. Nei campi delle isole greche il giorno è cadenzato dalle infinite ore in coda per le tre distribuzioni di cibo, dalle risse scaturite dalla rabbia e dalla rassegnazione dell’attesa, dalla successiva repressione da parte delle forze di polizia, dalle ripetitive chiacchiere coi vicini e dai piccoli stratagemmi quotidiani, le risate, il sarcasmo, l’autoironia, per non perdere mai l’umanità e la dignità. Ma spesso a vincere sono la disperazione e la rabbia per un sistema che soffoca e non fornisce vie d’uscita. Non appena le organizzazioni finiscono il proprio turno di lavoro, i campi diventano terreno di smugglers, spacciatori e bande criminali, che adescano con fumo e droga a basso costo chi cerca di dimenticare la propria situazione. Tentati suicidi, anche tra bambini sotto i dieci anni, depressione, apatia, ansia, questi sono i sintomi di chi vive a Moria, più volte denunciati da varie ong, tra cui Medici senza frontiere. Oltre alle violenze domestiche, agli stupri, agli accoltellamenti e a tante altri violazioni dei diritti umani che non verranno mai a galla.

E se il sogno di chi è bloccato nelle isole greche è di imbarcarsi su una nave diretta ad Atene, chi viene trasferito nella Grecia continentale ha una sola, nuova speranza, quella di lasciare il Paese in maniera definitiva. Skaramagas, Diavata, Katsikas, Nea Kavala, Alexandria sono solo alcuni dei trenta campi profughi, sorti dal 2015 a oggi in vecchie caserme militari, aeroporti, edifici abbandonati e aree portuali. Sparpagliati dal nord al sud del Paese, spesso in contesti isolati, nelle periferie delle grandi città o in aree rurali lontane da ogni servizio, sono tutti accomunati dal sovraffollamento, dalla mancanza di diritti e prospettive e da infinite file di container, brulicanti di vita e potenzialità. In questi campi in cui le persone vivono ormai da anni, a regnare è la legge dell’emergenzialità che ha trasformato gli standard umanitari minimi in parametri massimi a cui ambire, considerati riferimenti anche dalle stesse organizzazioni non governative che ci lavorano, legittimando di fatto costanti violazioni dei diritti delle persone. Il destino rimane solo quello di passare il resto della propria esistenza in case di plastica di venticinque metri quadrati facendo turni anche per poter dormire, racimolando, con debiti e lavori sottopagati o illegali, il gruzzolo necessario per arricchire lo smuggler di turno che vende, a caro prezzo, una via per l’Europa.

Camminando per i geometrici filari di container con numerazione kafkiana e zig-zagando tra i minuscoli vicoli creati da tende di ogni forma e dimensione, ci si rende conto di quanto i campi brulichino di un’umanità taciuta e tacciata. La vivace e colorata via del mercato di Moria controllata dalla mafia afghana, il lungomare di Skaramagas illuminato a giorno con musica e prelibatezze curdo-siriane, gli innumerevoli barbieri incastonati nello stretto spazio tra due container, le altalene artigianali fatte di plastica e corda aggrovigliata, vanno letti come l’ultima forma di resilienza da parte della popolazione che ci abita, costretta, per sopravvivere ogni giorno, ad abbellire la stessa prigione da cui vorrebbe evadere.

C’è però da domandarsi quale sarà il futuro di questi campi, se saranno destinati a rimanere dei buchi neri di sfruttamento e criminalità, circondati da filo spinato e utilizzati dai politici per istigare paura e razzismo e per legittimare politiche migratorie repressive e contenitive, o se diventeranno un monumento per le future generazioni a memoria dei crimini commessi dall’Europa del xxi secolo.

Per ora, purtroppo, la strada intrapresa è anche troppo evidente e, ancora una volta, sono i luoghi di confine a rivelare in tutta la loro crudeltà la vera natura delle politiche europee. A meno di due settimane dall’incendio a Lesbo, è già stata costruita una nuova Moria, a pochi chilometri da quella andata in fumo, col totale sostegno dell’Unione Europea, e le oltre 12mila persone sono state rinchiuse nell’ennesima tendopoli nel limbo del confine. A regnare, ancora una volta, è la legge dell’emergenzialità, in cui tutto viene legittimato e permesso.

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