Da Milano al Salento, la scoperta di un’Italia diversa

Con un ricordo di Mirko Grasso
Il 21 gennaio è morta a Roma la documentarista e fotografa Cecilia Mangini. Ho avuto modo di ben conoscerla agli inizi del Duemila, quando conducevo una ricerca su Pasolini e il Sud Italia. Cecilia, prima della riscoperta della sua arte avvenuta in questi ultimi anni, allora subiva un quasi ventennale silenzio perché vittima – tra le tante – del degrado culturale e politico italiano. La cercai telefonicamente, ci incontrammo e da lì nacque una sincera amicizia e un’intensa collaborazione che in pochi anni ci portò a rimettere in circolazione alcuni suoi documentari. Cecilia era molto generosa: mi forniva materiali e documenti sui suoi lavori e mentre scrivevo i miei libri (che lei ha seguito in ogni fase) riprendeva fiducia verso ciò che aveva fatto. Riattivava contatti, recuperava relazioni, tornava a percorrere strade che avrebbero favorito la sua riscoperta degli ultimi: ciò le ha garantito un meritato ritorno sulla scena pubblica e, quel che ha contato più per lei, nel campo cinematografico. Si era allontanata dal cinema quando ancora si montava la pellicola, avrebbe poi ripreso l’attività con giovani registi approcciando le nuove tecniche (ad esempio nel 2018 con Paolo Pisanelli realizza un importante lavoro recuperando ampia documentazione sulla guerra del Vietnam custodita nel proprio archivio, con la molese Mariangela Barbanente nel 2013 gira un film sul suo ritorno in Puglia).
Nata a Mola di Bari nel 1927 e poi cresciuta a Firenze, inizia l’apprendistato cinematografico nel Dopoguerra frequentando i circoli del cinema e vivendo da protagonista le attività giornalistiche e culturali a essi collegate. I suoi primi documentari forniscono significative chiavi interpretative per comprendere tutta la sua ampia produzione, perché con profonda partecipazione Cecilia sceglie come proprio campo di analisi il mondo arcaico e dimenticato del sottoproletariato urbano o il residuale mondo contadino meridionale: Ignoti alla città (1958), La canta delle marane e Stendalì (1960), con immagini che si avvalgono dei testi di Pasolini, Firenze di Pratolini (del 1959, con testi del grande – e oggi forse in ombra – scrittore toscano), allora con convinzione pubblicati dalle nascenti Edizioni Kurumuny.
La canta e Ignoti ritraggono la vita di tutti i giorni dei ragazzi di borgata. In queste immagini appare tutto il mondo del proletariato e del sottoproletariato romano in cui si mescolano meridionali e vite fuggite dalle grandi città del Nord. Documentari che evidenziano una profonda scelta di campo che la regista attua nella conformista Italia degli anni cinquanta. Stendalì, invece, è un documentario che nasce sulla scia delle opere di Ernesto de Martino e riprende un antico rito dell’Italia meridionale: il canto e il lamento funebre praticato ancora in quegli anni nel Salento. Il testo di Pasolini è altamente poetico e rivela con le struggenti e bellissime scene la ricchezza della civiltà contadina: il film è un ultimo canto funebre di quel mondo. In Firenze di Pratolini il punto di vista della regista è dato dagli occhi dei giovani, dei vecchi, delle ragazze, degli straccioni che popolavano alcuni quartieri della Firenze di allora. Nei vicoli e nei rioni popolari Cecilia riesce a fermare quel sentimento comune e diffuso che popola i nostri anni cinquanta: la fiducia in un futuro migliore e la presenza di una forte memoria collettiva che vuole superare ma non dimenticare ciò che il fascismo è stato.
Il cinema di Cecilia si sovrappone e si unisce spesso a quello del marito Lino Del Fra, regista e grande documentarista. Così il primo filone aperto con Stendalì trova ulteriore espressione con la collaborazione ai documentari di Del Fra come L’inceppata e La passione del grano, mentre con i suoi Tommaso (1965), Essere donne (1964), Felice Natale (1965) e in Come meravigliosi fuochi di artificio (1967), questo in regia con Del Fra, la società omologante dei consumi viene analizzata da una acuta prospettiva anticonformista. Con Essere donne Cecilia apre il varco alla trattazione della situazione lavorativa femminile mettendo in luce prevaricazioni, ricatti, violenze a danno delle donne e componendo un quadro veramente desolante dei risvolti del boom economico (sulla scia di quanto aveva fatto la grande e immeritatamente dimenticata Anna Garofalo nel saggio laterziano L’Italiana in Italia del 1956). Uno sguardo sull’ormai evidente omologazione culturale caratterizza Felice Natale: Cecilia denuncia il capitalismo sfrenato, senza regole e umanità, in linea con Calvino, Pasolini e Bianciardi, che ordina con forza ai nuovi “felici” italiani come consumare, cosa e in quali tempi. Stessa critica sostiene Come meravigliosi fuochi d’artificio e il più noto La torta in cielo (di Del Fra): partendo da Rodari e sulla scia di Marcuse la coppia di registi legge le rivendicazioni giovanili di allora avvinghiate nelle maglie del conformismo; il disagio giovanile approfondito più avanti dalla Mangini in Spadino (1971) e Mi chiamo Claudio Rossi (1972).
Il suo è stato un cinema “politico” che tocca vette alte con All’armi, siam fascisti! (1961), Stalin (1963), Antonio Gramsci. I giorni del carcere (1977), film scritti e girati con il marito con il quale (su commissione della Rai di allora!) poi torna nel Mezzogiorno nel 1980 per rifare Comizi d’amore di Pasolini. Di estremo interesse, infine, è Fata Morgana (1961): il più importante documentario sull’emigrazione meridionale a Milano, girato con Del Fra. A questo proposito, la lettera che segue, una tra le tante inviatami mentre lavoravamo sui suoi documentari di quegli anni, è un prezioso documento sulla passione e la coscienza critica di una donna straordinaria che ha raccontato l’esistenza, il cambiamento e la scomparsa di quell’Italia e il degrado di quella che sarebbe poi venuta dopo. Spesso mentre lavoravamo Cecilia amava ricordare proprio alcuni versi di Pasolini: “…solo il popolo ha un sentimento/ vero: mai tolto al tempo, non l’abbaglia/ la modernità, benché sempre il più/ moderno sia esso, il popolo, spanto/ in borghi, in rioni, con gioventù/ sempre nuove – nuove al vecchio canto –/ e ripone ingenuo quello che fu…”.
Roma, 1 febbraio 2007
Caro Mirko,
parlare di Lino, ma fatalmente anche per Lino, non è facile, no che non lo è. Ma facile non era neanche dire no alla tua richiesta di parlarti di Fata Morgana, un documentario a cui Lino teneva particolarmente e non perché avesse vinto il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia: il dialogo critico con te comprende anche voler rompere la congiura del silenzio contro i registi che obbligavano a pensare.
È andata a finire che per giorni e giorni sono stata alle prese con l’assedio dei ricordi, nel senso che l’assediante ero io e i ricordi gli assediati, a vuoto per quel che riguarda i sopralluoghi del documentario, non un’immagine un incontro una località, tutto cancellato dalla mente e non so perché. Nitidissima è invece la sequenza dei sopralluoghi dell’altro documentario girato in parallelo sull’inaugurazione della stagione operistica alla Scala del 7 dicembre: l’incontro con il sovrintendente Ghiringhelli che ci dà tutti i permessi di ripresa, il colloquio con la grande grande grande giornalista milanese per saperne di più su quell’evento di mondanità trionfante, lei è una di sinistra, radical chic ma di sinistra, Lino si fida e le racconta il taglio critico che darà al documentario, merde!, quella non va da Ghiringhelli a spifferargli tutto? A stretto giro il sovrintendente si rimangia la parola data, solo il foyer è a disposizione, palcoscenico niet, platea niet, palchi niet, niet niet niet. Ti pareva che qualcuno non ci ragguagliasse sulla delazione? Mangio rabbia, mi sento depredata. Stupida che sono: sostituire velluti stucchi lampadari Do di petto con la processione di Rolls e fuoriserie, le livree che si precipitano ad aprire le portiere a martore diamanti zibellini, immergersi nell’esibizionismo e nello struscio del foyer, registrare quel frappé di pretenziosi nuovi ricchi baciati dal miracolo e appagati di essere pretenziosi nuovi ricchi e basta, ecco la capacità di Lino di rovesciare a suo favore situazioni perse. Spettacolo di gala si chiamava quel documentario, purtroppo oggi la pellicola è virata in arancione acceso per la Scala e in blu di Prussia per la notte dei bagarini: scafatissimi lombardi e terroni disastrati, in fila di fronte al botteghino dalla sera alle otto di mattina, stretti a mucchi nell’illusione di difendersi dal sottozero della notte, però in apartheid perfetta: mucchi di soli nati a nord del Po, mucchi di soli nati a sud del Garigliano.
I Danilo Dolci, i Rocco Scotellaro, i Tommaso Fiore eravamo una minoranza a dargli retta, Antonio Gramsci troppo spesso veniva saccheggiato per citazioni a scopo sentenzioso: i meridionali che fuggivano dal bracciantato e dall’arretratezza erano una notizia quasi senza eco, quei treni che a branchi li depositavano a Milano Centrale – Torino Porta Nuova – Genova Brignole sferragliavano nell’indifferenza, ma sì che si sapeva di quell’esodo inarrestabile di gente, anzi ci si indignava nobilmente per i cartelli “Non si affitta ai meridionali” che tappezzavano Torino, e tutto finiva lì. Di cosa li attendesse nelle grandi città del settentrione non ci si preoccupava più di tanto. Cosa significassero lo sradicamento, la perdita del parentado, la barriera del dialetto, fatti loro. A chi importava che anche i santi sugli altari delle chiese, Bernardo, Carlo, Ambrogio, fossero degli estranei: Vito, Rocco, Onofrio erano rimasti giù, non erano saliti in terza classe con gli ex-voto nelle valigie di cartone. “È una trasmigrazione di popolo, diceva Lino, e non ce ne vogliamo rendere conto”. Così l’unico regista a farsi carico di trascrivere in pellicola quella “chanson de geste” da tre soldi è stato lui. Quel documentario era fermamente deciso a realizzarlo e ha dovuto faticare con il produttore che era riluttante – tema sociale ad alto rischio?–, finché alla fine ci è riuscito proponendogli di girare Spettacolo di gala – la sontuosità della ricchezza è un amuleto?
Il suo è stato un cinema “politico” che tocca vette alte con All’armi, siam fascisti! (1961), Stalin (1963), Antonio Gramsci. I giorni del carcere (1977).
Per Fata Morgana, nell’incerta cintura periferica milanese dovunque arriviamo Lino attiva la magia del set, pochi minuti e con la gente che gli si accalca intorno il rapporto è di fiducia, di complicità: quel regista che è arrivato fin lì per incontrarli li consegnerà alla consapevolezza collettiva, loro e i problemi loro, la sofferenza, la fatica, l’ostilità del razzismo mica tanto occulto. Molte volte ci scambiano per la Rai, ma Rai o cinema che sia, il fatto è che si aspettano, e a ragione, che la tv pubblica e i cinegiornali vogliano finalmente raccontare agli italiani l’esodo della gente del Sud dimenticata dallo stato ma decisa a cambiare destino, il suo, e quello del Nord che la usa e non la accoglie. Né la Rai né i cinegiornali lo hanno fatto.
Al contrario del Nord che già vive la povertà come una colpa e chi ha solo stracci per coprirsi si sente un reo, i terroni non si danno pena a mostrarsi rattoppati come sono, perfino la donna che getta l’acqua sporca fuori dal suo rifugio, quel vagone ferroviario abbandonato in mezzo ai campi, non è stata a pensarci su. Nelle periferie dove li hanno obbligati a segregarsi non si sentono spaesati, le “coree” sono una rete di solidarietà toponomastica, una strada parla solo avellinese, un’altra brindisino, foggiano, cosentino, catanese… I bambini no, guaglioni o picciriddi, peccenéedde o carusieddu, hanno invertito le vocali strette con le larghe e le larghe con le strette, sembrano tutti nati a Porta Ticinese, perché meno ci metti a buttar via il dialetto, prima ce la fai a non essere un terrone marchiato di diversità. “È un meridionale, però è una gran brava persona, però niente da dire, però il suo mestiere ah come lo sa fare”, “Sono meridionali, però la famiglia è molto unita”, “Lei è una meridionale, però pulita, pulitissima”. Una litania lombarda di “però” ha punteggiato le riprese.
Spettacolo di gala e Fata Morgana possono sembrare due documentari opposti tra di loro che più opposti non si può. L’esibizione di ricchezza, affidata ai suoi status symbol conclamati, allora come oggi obbligo spavaldo del potere economico, che ha a che fare con la lotta per entrare di diritto nella contemporaneità? Tra quel potere, aggressivo nella sua espansione, capace di proiettare nel futuro le sue immutabili strutture fondanti, sotto sotto nostalgico del (prossimo venturo) capitalismo selvaggio del passato, e quell’essersi mossi a milioni non per guadagnarsi solo il pane e magari in prospettiva la Seicento, ma – e va bene, sì, confusamente – per il diritto di esercitare un’opzione sul futuro, Mirko, tu che dici?, statiche concrezioni di cultura contro dinamiche esigenze di cultura, la dialettica storica non era tutta lì? Al contrario di Fata Morgana, Spettacolo di gala è stato girato in attualità: cala il sipario, il foyer si svuota, diventa un guscio morto di mondanità volatilizzata. Un inserviente ammaina il tricolore, un lenzuolone quattro metri per sei appeso sopra l’accesso alla platea, e si allontana trascinandolo per terra su mozziconi, fazzoletti macchiati di rossetto, contromarche, fiori stazzonati.
Così finisce Spettacolo di gala.
Ma finisce veramente lì? Quella “bandiera dai tre colori che è sempre stata la più bella”, quel bianco rosso e verde che sulle note di Fratelli d’Italia invade il fotogramma via via coprendo la sporcizia, nascondendola, quasi proteggendola sotto di sé, non ha garantito che per anni le Fate Morgane scaricassero il loro carico di umanità sul mercato delle braccia?
Torniamo a quella “chanson de geste” da tre soldi di paga giornaliera, per cui i contadini del Sud abbandonavano la loro terra e i riti che per secoli li avevano protetti dalla precarietà dell’esistenza: contro l’insostenibilità del dolore della morte il pianto funebre in grìco salentino che ho ripreso in Stendalì; contro l’assedio della fame l’uccisione metaforica del capro espiatorio che Lino ha raccontato in La passione del grano. La diaspora ha risucchiato al Nord tre generazioni di meridionali, famiglie intere, nonni, genitori, ragazzini: non è stata una transizione, è stato uno strappo violento, una mutilazione che ha contribuito, e non di poco, alla scomparsa del mondo contadino e all’abrasione della sua civiltà imbevuta di magia. Di quella fine Fata Morgana è il Miserere.
Grazie per Lino, Cecilia.
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