Costruire ponti, saltare steccati. La figura di Margherita Zoebeli a cento anni dalla nascita
Nella primavera dello scorso anno, il Ceis (Centro educativo italo svizzero) di Rimini ha organizzato, in occasione del centenario della nascita, una giornata seminariale in ricordo della figura, dell’azione e del pensiero di Margherita Zoebeli. L’educatrice e pedagogista svizzera ha dato vita a una delle esperienze più importanti nella storia dell’intervento sociale e pedagogico del nostro paese. Leggerne la storia, visitare “il villaggio” di legno, ancora funzionante e funzionale, che costruì nella Rimini rasa al suolo del dopoguerra permette di toccare con mano l’efficacia del suo progetto e la libertà del suo pensiero. Le baracche di legno sono ancora visitabili in via Vezia 2 a Rimini, la sua storia è ricostruita ora in un libro a più voci curato da Carlo De Maria e edito dalla Clueb di Bologna: Intervento sociale e azione educativa. Margherita Zoebeli nell’Italia del secondo dopoguerra, da cui pubblichiamo un estratto. (Gli Asini)
di Luigi Monti
Se Margherita Zoebeli seppe indicare, inascoltata, la direzione che avrebbe potuto e dovuto compiere la scuola per rispondere realmente alla propria missione di emancipazione e di liberazione fu grazie alla capacità che possedeva di travalicare categorie che impedivano di guardare alla scuola per quello che essa realmente era: pubblico-privato; socialismo-libertarismo; scuola speciale-scuola di tutti sono solo alcuni dei confini, spesso astratti e ideologici, con cui descriviamo i fatti educativi, che Margherita seppe attraversare e ridefinire con molta persuasione e altrettanta adesione alla realtà.
Prendiamo ad esempio il socialismo, tutto personale, di Margherita. Sebbene a lei non interessassero le etichette e le categorie con cui potremmo definire la sua ispirazione politica, le cui radici sono profondamente immerse nella tradizione del movimento operaio europeo, la sua impostazione politica, anche se lei probabilmente non l’avrebbe definita così, è molto più riconducibile al socialismo utopistico e al movimento cooperativistico ottocenteschi alla Landauer, alla Kropotkin, alla Buber. Un socialismo con venature libertarie, antidogmatico, vicino a un certo anarchismo anglosassone che del socialismo utopistico è stato forse la filiazione più coerente. Non è un caso che fra i tanti incontri e frequentatori del Ceis ci fossero intellettuali e attivisti del movimento anarchico: penso in particolare al dialogo a distanza con Giovanna Caleffi Berneri e al giro di Volontà, penso all’urbanista e architetto Carlo Doglio al medico Ugo Gobbi e soprattutto al ruolo che nel corso del tempo ha avuto Lamberto Borghi.
Colpisce forse, ma non deve stupire (anche per chi ha conosciuto Margherita solo attraverso quel poco di iconografia che ne ha trasmesso l’immagine, come alcuni bellissimi scatti di Werner Bischof che a Rimini passò alcune settimane nel ’47 innamorandosi e portando via con sé una delle maestre del Villaggio), l’accostamento fra la sua figura molto ordinata, austera, ottocentesca e le idee del pensiero e del movimento anarchico che lei non studiò sistematicamente, né probabilmente abbracciò ma che influenzarono la sua visione pedagogica e il modo di organizzare le comunità educative da lei dirette.
Probabilmente anche a causa della sua provenienza transfrontaliera, della natura del suo intervento iniziale, paragonabile a qualcosa di simile a ciò che oggi chiamiamo “cooperazione allo sviluppo” e infine soprattutto alla sua idiosincrasia per posizioni solo ideologicamente fondate, il Ceis seppe instaurare un rapporto, ancora tutto da studiare, nella relazione fra intervento privato e istituzioni pubbliche. Insomma, l’anomalia della sua figura, socialista e proveniente dall’organizzazione sindacale, ma dedita fin da giovanissima a iniziative sociali e pedagogiche transnazionali e per così dire “super statali”, le permise di scardinare, nonostante i sospetti che all’inizio le arrivarono sia dalla destra cattolica che dalla sinistra comunista, lo schema pubblico-privato (pubblico = stato = democrazia; privato = uguale interessi padronali o confessionali = classismo = autoritarismo oligarchico).
La questione non riguardava (e non riguarda del tutto nemmeno oggi!) i privilegi assegnati all’istruzione di tipo confessionale o alle scuole private per i figli della classe dirigente. Anzi, una delle spinte maggiori di Margherita nasceva proprio dal desiderio di poter offrire un’alternativa (metodologica, più che ideologica) alle strutture assistenziali che erano per la maggior parte appaltate a organizzazioni di orientamento confessionale, nelle opere di ricostruzione, di mutualismo, di assistenza alle vittime di guerra e di educazione dei piccoli. Riguardava piuttosto la necessità di poter scegliere metodi insegnamento e filosofie dell’educazione che, come dimostrò proprio in quegli anni Lamberto Borghi, ribaltassero quell’autoritarismo adultocentrico di matrice idealista che trovò massima espressione nella scuola gentiliana ma che sopravvisse nella cultura e nelle pratiche educative dell’Italia Repubblicana proprio perché le origini erano da rintracciare ben prima della pedagogia fascista.
Non è esagerato sostenere che la parte di società civile che tradusse in maniera più consapevole e coerente l’eredità dell’antifascismo fu l’anima democratica, antiautoritaria, decentrata e sperimentale del movimento pedagogico che animò la vita culturale e sociale dalla fine della guerra fino all’inizio degli anni ’60. Pensiamo in particolare ad Aldo Capitini, alle cattedre illuminate dell’università di Firenze e al giro di Scuola e città (rivista e scuola), a Danilo Dolci, al Movimento di cooperazione educativa, al Giornale dei genitori di Ada Gobetti. Molti dei giovani maestri che diedero vita a questo movimento si erano formati alla “scuola” dell’opposizione al nazifascismo, cercando di prolungarne i principi nella ritrovata funzione democratica della scuola dell’obbligo. Intorno alla spinta della ricostruzione si coagulò allora un movimento critico paragonabile (più per le istanze che lo muovevano, che per la capacità di incidere sulle strutture e il funzionamento della scuola pubblica) a quello delle “scuole nuove” che tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 rinnovarono negli Stati Uniti e in molti paesi d’Europa il modo corrente di fare scuola.
La capacità di Margherita di aggirare con ferma noncuranza idee e visioni fossilizzate e di abbattere steccati ideologici in nome dell’interesse e della libertà dei bambini, nasce anche da qua e dalle caratteristiche principali che distinsero il Ceis dagli altri gruppi che animarono tale movimento: gli scambi internazionali e l’attività culturale e di ricerca pedagogica nella quale, per almeno un decennio, il Ceis divenne senz’ombra di dubbio il centro più importante. Oltre a Lamberto Borghi, passarono da lì e lo considerarono sede naturale del movimento di rinnovamento pedagogico che stava prendendo forma in quegli anni, Célestin Freinet, Aldo Pettini, Marcello Trentanove e i maestri dell’Mce, Giovanna Caleffi Berneri, Fabrizia Ramondino (in quegli anni maestra e attivista dell’Associazione risveglio Napoli), Carleton Washburn, Pierre Naville, Lucien Bovet, Maria Calogero e il Movimento di collaborazione civica, solo per citare i più conosciuti.
Potrebbe essere una forzatura cercare prove nella sua formazione, nelle sue frequentazioni, nelle sue letture (fra cui mi piace ricordare, oltre ai “maestri” Adler e Piaget, anche Bakunin, Jack London e Ivan Illich), che dimostrino una vicinanza al pensiero libertario, dovuta più “naturalmente” alla sua predisposizione ad aderire alla realtà dei “fatti educativi”, ma è innegabile la capacità che ebbe di tenere insieme istanze di liberazione e di giustizia affiancate al pragmatismo, allo sperimentalismo e allo spirito di ricerca senza i quali il pensiero libertario altro non è che un’ideologia astratta al pari delle altre. Ed è altrettanto indubbio che la forza attrattiva del Ceis nasceva dalla stessa anomala miscela di visioni e progetti culturali di provenienza così diversa, concentrati in una figura al tempo stesso modesta e radicale, consapevole, in questo caso sì, dell’apporto che le comunità educative come il Villaggio potevano avere nella ricostruzione, questa volta dal basso, dell’assetto democratico della civiltà europea sfibrata da quasi mezzo secolo di totalitarismi.