Cos’è il chemsex

I can make you feel better, and you know you will
If that’s what you want boy
Then you know where to find me
(Sophie – Bipp)
Certi fenomeni, o le parole utilizzate per definirli, hanno di quando in quando la singolare qualità di cogliere lo zeitgeist di una generazione – di una comunità, di un momento – e al tempo stesso di contenere tutti gli elementi per fraintenderlo. Non avevo mai sentito parlare di chemsex – uno di questi fenomeni, una di queste parole – fino a pochi mesi fa, e nel momento stesso in cui ho cercato di capire ho sentito forte il rischio del pregiudizio, dell’appropriazione, di quelle cose, cioè, che del bisogno o del piacere di “capire” rappresentano il lato oscuro. Il chemsex, un neologismo coniato dal britannico David Stuart, il maggior esperto e attivista sul tema, è un fenomeno diffuso esclusivamente nella comunità degli uomini gay e riguarda l’uso di quelle droghe dette appunto “chems”, in particolare chrystal meth, mefedrone e GHB/GBL (la “droga dello stupro”) in associazione con altre sostanze come ketamina, cocaina, cocaina basata, popper, alcool e altre ancora, per facilitare, migliorare e prolungare l’esperienza sessuale. Si tratta di un fenomeno relativamente giovane, la cui emersione è dovuta verosimilmente, sempre secondo Stuart, all’avvento di Internet e dei primi siti di networking che contribuirono ad ampliare notevolmente la diffusione di un fenomeno già diffuso nell’ultimo decennio del Ventesimo secolo nei gay club del Regno Unito, ancora oggi il Paese dove il chemsex è più diffuso. Frequentate sia da coppie che da singoli, le sessioni di chemsex arrivano a durare alcuni giorni e sono raccontate, nelle loro più diverse implicazioni, da Ragazzi chimici. Confessioni di chemsex (Ensemble, 92 pagine, 12 euro), il primo libro in italiano che esplora l’argomento. E che, singolarmente, non è un saggio, ma una raccolta di racconti che, a ben vedere, sono più utili all’obiettivo che si sono prefissati gli autori di quanto non sarebbe un lavoro accademico o di nonfiction.
Prima di approfondire, facciamo un passo indietro, fino all’esperienza nella quale è radicata la nascita del progetto, quella di Angela Infante, dal 2010 counselor ed educatrice per persone sieropositive presso il Policlinico Tor Vergata di Roma, che proprio nelle esperienze delle persone che ha incontrato ha trovato il filo conduttore delle storie che ha raccolto e che lo scrittore Andrea Mauri ha narrato, con un’eccezione (l’ultimo dei dieci racconti, firmato dalla stessa Infante). Gli incontri hanno convinto Angela, e poi Andrea, di essere di fronte non a una moda, non all’ennesima controcultura come un po’ ingenuamente chiedo loro quando accettano di incontrarmi, e nemmeno alla forma depravata di divertimento alla quale sembrano alludere i pochi articoli rintracciabili in italiano sull’argomento, quasi tutti di taglio cronachistico e riconducibili in molti casi all’omicidio Varani, avvenuto nel marzo 2016 in circostanze che qualcuno ha collegato a un contesto di chemsex e tornato argomento di dibattito in questi mesi in quanto oggetto del bestseller La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi, 2020). (Ma l’uso delle sostanze di cui sopra è dirimente ai fini della definizione, e al momento, almeno a chi scrive, non risulta).
Osservare dal buco della serratura gli aspetti più scabrosi del tema analizzato non è tuttavia l’interesse di Infante e Mauri, che mi parlano invece di consapevolezza: raccontare il chemsex nelle voci di chi ha vissuto un’esperienza di questo tipo equivale infatti, per gli autori, a ragionare ancora una volta sul benessere e la libertà, sessuali ma non solo, della comunità Lgbtgi+.
Frequentate sia da coppie che da singoli, le sessioni di chemsex arrivano a durare alcuni giorni
Quarant’anni fa, l’inizio della tragedia dell’aids – che convenzionalmente si fa partire dalla comparsa, il 3 luglio del 1981, di un articolo che, sul New York Times, riportava di “una rara forma di cancro osservata in quarantuno omosessuali” – pose fine alla stagione di presa di coscienza delle persone gay iniziata poco più di un decennio prima con i moti di Stonewall e, con essa, a quello che Susan Sontag definì l’unico periodo di autentica libertà sessuale della storia umana. I rischi legati alla trasmissione dell’Hiv sono una delle ragioni per le quali Infante e Mauri hanno ritenuto importante inaugurare, anche nel nostro Paese, un discorso sull’argomento che assuma le forme della divulgazione e del coinvolgimento emotivo. Al secondo pensa soprattutto la forma narrativa, con il tentativo ben riuscito di far osservare al lettore l’esperienza direttamente dagli occhi (e “dall’interno” delle motivazioni) di quanti hanno preso o prendono parte alle sessioni di chemsex. Per il primo scopo, è di grande utilità la sintetica ma completa postfazione di Filippo Maria Nimbi, docente di Psicopatologia del comportamento sessuale alla Sapienza e ricercatore attivo a livello internazionale sul tema. Nimbi ha gentilmente accettato di spiegarmi gli aspetti meno semplici da comprendere sull’utilizzo delle varie sostanze e delle sue implicazioni: tra le ragioni più curiose (l’ironia, cosa che mi ha sorpreso inizialmente ma che ho trovato appropriata, non è assente dalle parole dei Ragazzi chimici) c’è il fatto, riportato da numerosi partecipanti, che la stessa appartenenza alla comunità gay in questo contesto rende molto facile, se non scontato, l’utilizzo di droghe e alcool.
Le sostanze e le bevande alcooliche, d’altra parte, possono aiutare lo stress associato a un fenomeno esploso con la diffusione di Internet e del dating online: il timore di incontrare sconosciuti, potenzialmente malintenzionati, può diventare più semplice da gestire, e la socializzazione può avvenire con meno difficoltà. Gli studiosi segnalano un meno indagato, ma significativo utilizzo esclusivamente o prevalentemente ricreativo del GHB/GBL e delle altre droghe, che vengono ricercate e consumate anche per la capacità di aumentare e protrarre il desiderio. Paragonate ad altre sostanze utilizzate anche nel contesto di rapporti sessuali tra gay, come ad esempio ecstasy o Mdma, le chems hanno la caratteristica di non rafforzare le sensazioni di empatia e comprensione, bensì gli effetti disinibenti. Molti hanno descritto l’assunzione di queste droghe come “l’apertura di un vaso di Pandora delle fantasie e dei desideri sessuali”, a volte difficili da conciliare con le convinzioni personali, religiose e morali delle stesse persone una volta tornate sobrie.
Il chemsex non sembra essere, in effetti, un tema esclusivamente problematico, o non nel senso che ci si attenderebbe. David Stuart ha osservato che, quando il chemsex è vissuto come un problema, spesso la droga – ossia, ciò che ci si attenderebbe come aspetto problematico – non è un problema, ma la soluzione. Non sono pochi quelli che, tra quanti dichiarano di praticare il chemsex, ad affermare di farlo a scopo ricreativo e in piena consapevolezza, senza che questo abbia impatti negativi sulla loro vita.
Il problema può semmai essere che gestire gli aspetti problematici del chemsex non è una banalità: varie strategie di riduzione del rischio, dalla maggiore conoscenza delle sostanze utilizzate e dei loro effetti al semplice prevedere che almeno uno dei partecipanti resti sobrio, possono essere messe in atto affinché il chemsex non si trasformi nel viaggio autodistruttivo descritto ad esempio nel paper The Problematic Chemsex Journey, firmato da un pool di ricercatori belgi e britannici apparso di recente su “Drugs and Alcohol Today” (2019/1). Nel paper si evidenzia come le condizioni di isolamento e scarso benessere mentale e emotivo con le quali crescono molte persone Lgbtgi+, spesso peggiorate dalla hook-up culture dei siti e delle app (spesso finalizzati all’incontro puramente sessuale e generatori di ansia in quanti hanno difficoltà ad avere successo in questo contesto) oltre alla tendenza di percepirsi come “colpevoli” o “sbagliati”, possano essere il primo passo per cercare connessioni affettive o anche solo sessuali in un contesto che, di fatto, sembra eliminare tutte le barriere che spesso si frappongono tra la persona e una vita sociale ed emotiva appagante.
Proprio Nimbi è tra gli studiosi che si stanno occupando del compito non semplice di descrivere la situazione relativa all’Italia e di tracciarne le specificità rispetto ad altri contesti.
Le conseguenze possono essere devastanti per la salute – gli effetti diretti delle droghe, in particolare la forte dipendenza, ma anche i rischi legati all’Hiv e agli altri virus trasmessi per via sessuale, un tema sul quale, mi racconta Infante, ancora l’informazione è carente a differenza di quanto accade ad esempio in Inghilterra, dove è diffusa la PrEP (profilassi pro-esposizione), e che può essere considerato comunque secondario rispetto alle forti sensazioni di piacere legate al chemsex.
Proprio Nimbi è tra gli studiosi che si stanno occupando del compito non semplice di descrivere la situazione relativa all’Italia e di tracciarne le specificità rispetto ad altri contesti. Come in altri Paesi, il chemsex è praticato in Italia da persone di estrazione diversa, che molto spesso lavorano o studiano e non sono collegate a situazioni che, comunemente, potrebbero essere definite di disagio. Da noi, le serate hanno carattere maggiormente “privato” che altrove, spesso chi pratica chemsex preferisce farlo in contesti distanti dalla propria area di residenza, anche all’estero, e anche da noi il web gioca un ruolo fondamentale nel mettere in contatto gli interessati. In Italia, come altrove, il chemsex è un fenomeno in crescita, benché silenzioso e poco noto, che semplicemente non possiamo semplicemente far finta di non vedere: Infante, Mauri e Nimbi, da storie e competenze diverse, insistono sullo stesso punto. Le insidie che attendono i frequentatori di incontri di questo tipo sono, a ben vedere, le stesse che potrebbero mettere a rischio chiunque di noi intraprendesse un percorso con simili caratteristiche, inclusi naturalmente gli eterosessuali. Le misure di riduzione del rischio sono ancora poco note agli stessi partecipanti, che spesso reagiscono favorevolmente quando messi a parte dei programmi di questo tipo.
Quale potrebbe essere l’utilità di un libro come Ragazzi chimici, da chi dovrebbe essere letto? “Da chiunque” è la risposta che nessun esperto di marketing vorrebbe sentire, tanto sfuggente e vago è un target con così poche specifiche: eppure questo è il senso profondo del libro, l’origine delle storie qui raccolte – drammatiche, tristi, ma anche buffe e semplicemente umane – è spesso di banale normalità, è solitudine, bisogno d’amore, voglia di divertirsi. Potrebbe riguardare chiunque: ecco perché questo piccolo libro può rappresentare un momento di svolta positivo perché consapevolezza e responsabilità siano il punto di partenza di una autentica libertà.
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