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Educazione e intervento sociale

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Come vide Napoli Thomas, giovane antropologo USA

Simone Massi
1 Febbraio 2022
Alessio Forgione

La fontana rotta, il saggio di Thomas Belmonte pubblicato per la prima volta nel 1997 con il sottotitolo di Vite napoletane: 1974, 1983, da Meltemi, e ora di nuovo in libreria, edito nel 2021 da Einaudi con la nuova e bella traduzione di Daniele Petruccioli, s’inserisce in questa scia di disgustata misericordia per Napoli, e lo fa con furiosa e scientifica curiosità quale cifra stilistica e attrezzo del mestiere.

Belmonte, antropologo americano, arriva ventottenne a Napoli, “in una società fortemente classista”. Precisamente, nel centro della città, esclusivamente nel centro storico, e vi cerca casa, una casa che funga anche da studio dal quale, Belmonte, scriverà degli indigeni. Trova alloggio a Fontana del re, un palazzo di via Sedile di Porto con un’antica fontana rotta, e questa gli sembra una metafora di Napoli, dello stato della città e del suo stare lì a studiarla, e di tutti quelli che ha conosciuto a Fontana del re, che “erano dei lottatori esistenziali”. “Spesso dovevano combattere fuori dalle regole e si facevano sempre male”; “cibo, soldi e affetti: a Fontana del re non potevi averceli tutti. Il cibo, ovviamente, era la prima erinni di fronte a cui ci si inginocchiava.” Eppure, a Belmonte si palesano i fragili equilibri con cui la vita si compie e procede e continua, indifferente anche a se stessa: “a Fontana del re i muri emanano un fetore vecchio di secoli. Hanno visto l’ascesa e il declino dei viceré spagnoli e dei Borboni, hanno assorbito i colpi di orde incalcolabili. Masaniello, il pescivendolo rivoluzionario destinato a una brutta fine, potrebbe essere passato di qui. Magari i reggimenti di Garibaldi ci hanno fatto sosta per un bicchiere di vino. Qui hanno marciato le truppe naziste, qui vicino sono cadute le bombe degli americani. Eppure i palazzi stanno ancora in piedi, involucri di pietra svuotati e cavernosi, pronti ad accogliere ancora un’altra generazione; monumenti silenziosi a un passato dominato da conquistatori stranieri, malfattori autoctoni e sognatori che si illudono i sogni bastino a raddrizzare il terribile squilibrio del mondo.”

Quindi, Belmonte prende casa: “ma quasi che non avevo finito di firmare che un ragazzo non ancora ventenne era già balzato in camera mia scavalcando con un salto la ringhiera del terrazzino, per scoprire chi ero e cosa andavo cercando. Mi ha scippato scherzosamente il portafogli e quando ha visto quanti pochi soldi avevo se ne è uscito sprezzante di star messo meglio di me, visto che il giorno prima gli erano andati bene tre scippi.” Poi, “dopo aver abitato per otto mesi a Fontana del re, la gente ha cominciato a smetterla di salutarmi educatamente e per la prima volta sono stato derubato. Non erano segnali di rigetto, anzi, rappresentavano il simbolo del mio inserimento nella corrente comune di interazioni ed eventi.”

Scopre, Belmonte, senza far nulla, solo abitando la sua casa, stando entro le mura del suo palazzo, che “c’era una violenza endemica in ogni esistenza con cui entravo in contatto a Fontana del re. I deboli soffrivano per mano dei più forti, solo per assumere il ruolo del forte con chi era più debole di loro.” E il palazzo, avvalorato dalle esplorazioni esterne, diventa esatta riproposizione della città, un plastico, un modello in scala. Nel palazzo gli equilibri sono gli stessi di quelli che Belmonte trova appena messo piede fuori dal portone, quindi nel vicolo, nella strada, poi nel quartiere e forse nell’intera Napoli; forse, perché solo di passaggio vengono affrontate le periferie, che, insulse, meritano poche righe sparse: “le squallide periferie cittadine – un’accozzaglia di discariche e pompe di benzina, magazzini e palazzoni vecchi e nuovi per famiglie.” Belmonte incontra, quindi, strati e strati di dolore e prepotenza e li attraversa tutti. Gira e rigira e tornato a casa, riattraversati tutti gli strati ancora una volta, scrive quello che ha osservato.

Ne viene fuori una città malata. Bella e malata. Grigia. Forse bella oltre il bello proprio perché malata, e malattia suona come vita, come una persona che sa di dover morire a breve e ci tiene a dire, fare, esprimere tutto, tutto assieme, il tempo è poco, e quindi le parole vengono gettate in faccia a chi ascolta, senza troppa cura, con l’arroganza di chi sa di avere parole buone dalla sua, e chi ascolta è confuso, dall’isterismo della scenata, e stupito ed emozionato dalla bellezza delle parole.

“Napoli, la mia prigione, mi si affacciava ai margini della coscienza quasi fosse l’unica salvezza possibile”; “luogo di dolore e ultima speranza: ero obbligato a interpretare Napoli all’interno di queste polarità. Luogo di sangue e di ceneri, di vino e di fiori: una città che ti tende una mano mentre nell’altra nasconde il coltello, ecco la dolorosa dialettica della vita di questo popolo”; “è grazie alla loro attitudine a un tempo individualistica e comunitaria se la situazione dei napoletani finisce per risultare tragica e non semplicemente patetica”; “in quel teatro di crudeltà che sono i bassifondi, ciascuno recita il suo piccolo ruolo di canaglia”; “nei quartieri poveri di Napoli ciascuno si fa drammaturgo e attore nel tentativo di smascherare i trucchi troppo evidenti e le scenografie poco credibili del prossimo. Ecco il perché della brusca, disarmante franchezza del napoletano! Questo gioco fra critica e messa in scena sta alla base di cognizioni fondamentali. Persone tutt’altro che istruite si trasformano in raffinati psicologi. Si frequentano, addirittura si innamorano, ma sempre ben coscienti dei reciproci stratagemmi e manchevolezze”; “a Napoli […] la pace comune si ottiene sempre in modo temporaneo, ora sotto forma di tregua armata fra individui ostili, ora come manifestazione condivisa di mancanze e di empatie”; “arrivando a Napoli pensavo che la povertà fosse nobilitante, e che se ci si dava la pena di instaurare un qualche tipo di relazione empatica con gli ultimi si era nobilitati di rimando. Ma la realtà delle classi più infime di Napoli non è affatto nobilitante, né per chi la vive, né per chi la osserva.”

Ma per quanto possano risultare tristi i risultati delle sue osservazioni – non come un libro che leggi, ma come uno di quelli che ti legge lui a te – Napoli le estrae da Belmonte con la vivacità. Thomas diventa Tommaso ed è amico di tutti. Più che uno scienziato, sembra uno sbandato studente fuori sede. Casa sua, in un niente, diventa un covo di rapinatori; “mi sono ritrovato in diverse situazioni compromettenti.” Tommaso diventa amico di interi nuclei familiari, un amico con cui lamentarsi e da cui pretendere ascolto.

“Una sera mi stavo alzando da tavola del mio amico Stefano. Era tardi. Lui era stanco e io dovevo andare a incontrare certi amici studenti in un locale. Ma lui mi tratteneva insistente, mi prendeva a male parole in tono irritato, sebbene non amaro. L’ho sentito stanco e annoiato. Aveva bisogno di parlare, di rilassarsi con un amico. Abbiamo ripreso la nostra chiacchierata sui tempi buoni e su quelli meno buoni, poi Stefano, il robivecchi, ha cominciato a descrivermi la sua visione del mondo quanto all’amicizia: – Per noi, Tommaso, l’amicizia è un lusso, come andare a bere vino in un locale. Anche se a volte ci capita di mangiare cose raffinate, non le confondiamo mai con quelle che ci riempiono la pancia. Il popolino, Tomma’, non i gran signori, quelli hanno l’onore, ma il popolino di qua, o di posti come Forcella; lo sai come siamo? Oggi, stasera, ho qualche soldo, perciò t’invito a cena. Ma domani, se non tengo una lira e io e la mia famiglia dobbiamo mangiare, proverò a fregarti e a rubarti i soldi. Ti manderò una lettera fino in America con scritto che mio figlio sta morendo e ho troppo bisogno di soldi, e tu sicuramente mi risponderai da gran signore. Proverei a truffare e a rubare i soldi a mio fratello. Ma con un amico è più facile. Tanto la famiglia non ti aiuta mai lo stesso, e poi se a mio fratello gli presto centomila lira e non me le può ridare, che faccio? A un amico, gli puoi staccare la testa. A tuo fratello no. Con un amico ti puoi vendicare. Non ti fidare di nessuno, Tomma’, nemmeno di me!”

Da qui in poi, Tommaso Belmonte, ex-antropologo, comincia la sua stagione da romanziere. La realtà prende il sopravvento sulla scienza: Stefano, il robivecchi, il suo amico che di per sé è un romanzo, anch’egli abitante di Fontana del re, è il capobranco di una numerosa famiglia i cui singoli membri sono ulteriori romanzi. Tommaso Belmonte segue la corrente. Universi familiari è il titolo del capitolo. Parte con fare scientifico, le ultime forze, le ultime frustrazioni: “a Napoli la povertà schiaccia la famiglia, la comprime, ne sovraccarica e sovreccita i legami. I suoi membri vengono spinti uno verso l’altro dall’eccesso di bisogno. Fattori materiali e utilitaristici minacciano sempre di prevalere su quelli emotivi”; “la famiglia è l’elemento base della società napoletana”; “a Napoli la realtà quotidiana della famiglia è molto diversa dalla sua idealizzazione che si dà generalmente per scontata.” E quindici pagine dopo La fontana rotta è già tutto un altro tipo di libro.
Tommaso Belmonte è per l’ennesima volta a cena a casa di Stefano. L’altro ospite è Peppe, amico del primogenito Gennaro. Noi lettori siamo stati informati delle esistenze degli altri membri della famiglia e del peso di Elena, la madre, e che Pasquale è la pecora nera, vittima degli umori della casa.
“Stefano si rivolge a Peppe. – Senti, Peppe, tu lo sai quanto mi sta simpatico tuo padre e non te ne devi prendere a male, sono l’ultima persona capace di dire qualcosa di brutto su di lui, ma non sono stato un padre migliore? – Peppe, con la bocca stracolma di supplì, annuisce forte. Notoriamente, non va d’accordo con il padre.
Elena ordina a Pasquale di svolgere le sue solite mansioni. Lui raccoglie i piatti borbottando qualcosa. Ma quando viene a prendere il mio, si ferma per dirmi che negli ultimi tempi ha studiato tanto, tutte le materie. Scandisce a raffica le date di nascita di Cristoforo Colombo, Garibaldi e Vittorio Emanuele II, poi si mette a spiegare nel dettaglio la piccola circolazione. – È giusto o no, Tommaso?
Ma mentre io mostro impressionato le sue prodezze intellettuali, per Stefano è tutto il contrario: – Ma sentilo, il dottorino! Dottore un paio di palle! Vacci a fare il caffè, testa di cazzo. La voce del padre fa ripiombare Pasquale nella realtà; il ragazzo si rifugia in cucina imbronciato. Quando torna con il caffè indossa un grembiule e Nina comincia a ridacchiare. Ciro coglie al volo e tutti e due prendono a provocarlo: – Ricchione, ricchione –. Gennaro e Peppe si uniscono subito al coro con urla stridule e voci in falsetto. Stefano non riesce a trattenere il riso. Nina è implacabile nella sua nenia a scorno. Perfino Robertino si unisce alla farsa, appostandosi per alzare il grembiule a Pasquale come se fosse una gonna. L’ilarità è generale. Pasquale diventa viola, poi grigio. Gli occhi gli si riempiono di lacrime. Si rivolge a Elena perché lo liberi, ma lei si gira coprendosi la bocca in un futile tentativo di nascondere le risate. Quando Ciro si alza per fare una sfilata davanti a lui, Pasquale non si tiene più e parte con gli insulti e le botte. Dà un cazzotto in faccia a Ciro e una sberla a Nina. Gennaro scatta dalla sedia per difendere la sorella. Stefano si alza e si slaccia la cintura.
Pasquale implora pietà. Ma Stefano non si lascia commuovere e gli ordina di andare nell’altra stanza. Si sfila la cinta mentre segue il ragazzino in camera da letto. Gli altri stanno zitti. Robertino ridacchia a disagio. Un’immobilità premonitrice cala sulla stanza come nebbia avvelenata, mentre ciascuno di noi tiene il conto delle atroci grida di Pasquale.”
Dunque, La fontana rotta, pur conservando intatta la tentazione della ricerca antropologica, pur trascinandosela sulle spalle, diventa soprattutto romanzo.
Un romanzo il cui protagonista-narratore, un antropologo americano, isolato in una nuova società, si ritrova immerso in tanti cerchi concentrici che sono le relazioni sociali che attraversa. Tutte sono costituite da sopraffazione e violenza. A guardar meglio, si vede che qualsiasi cosa è generata o interpretata dalla violenza. Qualsiasi scambio sociale è una ristrutturazione identitaria quasi sempre riduzionista; chi s’incontra viene riscritto dall’altro, dalla propria somiglianza con la condizione dell’altro. L’altro porta in dote, dunque, una privazione; o forse, semplicemente, l’idea che per nessuna storia o persona sia previsto un lieto fine. E a ulteriore prova del romanzo che scavalca l’analisi scientifica, e dell’intenzione di Tommaso Belmonte di non abbandonare le persone e i personaggi ritratti, a fronte di una prima sezione dell’indagine, svoltasi nel 1973, e del ritorno dello stesso Tommaso Belmonte in America, dove dal 1978 fino al momento della morte, nel 1995, insegnerà alla Hofstra Univerity, Belmonte va via da Napoli per tornarci nel 1984, e qui non riprende con l’analisi, ma con il romanzo; “non ero tornato a Napoli nelle vesti dello studente idealista, convinto (come dieci anni prima) che il mio lavoro sarebbe stato valutato dai miei oggetti di studio secondo gli stessi parametri di colleghi e lettori.”
Torna e tutti i ragazzi napoletani, rapinatori e sfaccendati, che Belmonte ha incontrato nel corso del suo primo soggiorno a Napoli o non si rivedono o hanno fatto una brutta fine. La famiglia di Stefano ed Elena, e i loro figli, per esempio, ora hanno dei colori smorti, e tutto in generale ha una diversa tonalità rispetto a quella degli anni Settanta, una fotografia diversa, non dai colori accesi, ma scura, con i blu in risalto. Alla povertà, nei quartieri popolari di Napoli, s’è aggiunto il fardello dell’eroina, e dove c’era un disperato vitalismo ora c’è silenzio. Peppe, il figlio maltrattato di Stefano ed Elena, ci casca, sta molto male, e Belmonte non sa che fare con lui, se prestargli o meno dei soldi. Con il ritorno a Napoli, Belmonte capisce l’enormità della sua pretesa scientifica, quella di descrivere i comportamenti di un popolo che solo raramente accetta per sé un’unica definizione, di un popolo disgregato e poco popolo eppure così popolo da essere un’entità anarchica e che quindi non sa che farsene delle definizioni, specie se altrui. Napoli mette Belmonte davanti alla realtà: è solo Tommaso Belmonte: un qualsiasi antropologo americano: al massimo può permettersi di dipingere Napoli per come la vede, non azzardarne una definizione. Napoli, in sostanza, fornendo allo scienziato una seconda e peggiore versione di se stessa, appare a Belmonte come appare a tutti i napoletani, sempre, in ogni istante: irreparabile! Assediata da problemi di così lungo corso che oramai sono atavici e non è possibile scorgerne né l’inizio né la fine.
Napoli, dunque, spiega chiaro e tondo a Tommaso Belmonte che se vuole può permettersi di scrivere un romanzo napoletano, l’ennesimo, ma nient’altro. Perché, a ben vedere, l’analisi scientifica lascia il tempo che trova: Thomas Belmonte parla dei rioni popolari del centro storico, e cioè di, a oggi, meno del 20% della città, e non sa nulla di nulla dellOttanta% di Napoli, e se si considera anche la provincia, uscendo dai confini delle municipalità, provincia napoletana che non è davvero o soltanto provincia perché in giornata va e viene dalla città e la provincia napoletana è assolutamente parte del tessuto cittadino, l’analisi scientifica di Belmonte appare irrilevante perché coinvolge il 5% della cittadinanza napoletana e Napoli, in definitiva, tralasciando quello che ne pensano i turisti o il palinsesto Rai, non è il centro storico; e non è che perché i turisti conoscono soltanto il centro storico che Napoli diventerà il centro storico. Inoltre, oggi la logica del vicolo è molto mutata, e oltre che irrilevante, quindi, l’indagine scientifica diventa pure forviante. In più, non si sta parlando di aborigeni ma di iper-barocchi, cittadini di una città che proviene dal mondo antico, strati e strati e strati per ogni aspetto dell’esistenza.

La fontana rotta, di Tommaso Belmonte, per me, è un romanzo discreto e niente di più. Però se l’argomento interessa, Napoli, il vitalismo del sottoproletariato, i rioni popolari del centro, gli anni Settanta, siete fortunati perché esiste un romanzo straordinario e non semplicemente discreto. S’intitola Scende giù per Toledo, di Giuseppe Patroni Griffi. Quello ve lo consiglio.

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