Come si vive in seminario

Il prossimo numero degli Asini (il 14 di febbraio-marzo) ospita un’interessante critica alla formazione dei giovani preti scritta da Laura Badaracchi già autrice di Fare il prete non è un mestiere (Edizioni dell’Asino 2009). In relazione all’articolo della Badaracchi e al dossier dedicato a “Educazione e religione”, abbiamo incontrato un giovane seminarista pugliese, Davide Russo, che ci ha raccontato le ragione della sua scelta, come si vive nel seminario di Molfetta (in provincia di Bari) e quali sono i campi d’intervento sociale degli studenti.
di Davide Russo
incontro con Nicola Villa
Mi chiamo Davide, ho 23 anni e provengo da Corsano, un paesino dell’estremo lembo della terra pugliese, nella diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca. Frequento il quarto anno del seminario regionale pugliese, che ha sede a Molfetta (BA). Oltre ad esso, in Italia esistono altri cinque seminari regionali, voluti da Pio X, all’incirca nel 1908. Essi raccolgono i seminaristi di teologia di tutta la regione, in questo caso la Puglia. Sicuramente fu una scelta vantaggiosa in quanto, accorpando gli alunni di varie diocesi, risultò da subito più semplice gestire la formazione, lo studio, gli ambienti. Tuttora tale scelta continua a portare numerosi benefici, primo tra tutti la possibilità di crescere in un ambiente che fa dialogare le diversità rispetto alla provenienza, alle tradizioni, ai modi di pensare, alla modalità di fare la pastorale, al territorio… Questo è dovuto al fatto che la Puglia è una regione molto estesa, ed accoglie in sé, sia da un punto di vista sociologico che religioso, tante Puglie diverse (croce e delizia del nostro popolo!). Si pensi per esempio che nel Salento, composto quasi esclusivamente da piccoli paesi, la parrocchia rappresenta ancora il centro della comunità, la fontana della piazza è il perno attorno a cui gira il paese. Nel barese, invece, caratterizzato da grandi agglomerati urbani, ci si trova di fronte ad un’altra situazione, e la modalità di pensare l’azione pastorale della parrocchia non può non adattarsi a questa conformazione del territorio. Il seminario di Molfetta ha dunque il merito di essere una piazza di incontro, una nuova forma della greca agorà, che rispecchia la vocazione della mia regione: ponte di incontro, luogo di passaggio, che da tutti può imparare, a ciascuno ha qualcosa da insegnare.
All’interno del seminario, noi ragazzi siamo suddivisi in cinque classi, da una quarantina di alunni ciascuna, che corrispondono ai cinque anni in cui si snoda la formazione. Facendo due calcoli, in tutto siamo circa duecento, e risediamo in seminario per periodi più o meno lunghi, tornando a casa almeno un fine settimana al mese. La formazione procede su due grandi binari: da una parte la facoltà si preoccupa di fornire i contenuti fondamentali delle discipline teologiche, dall’altra al seminario spetta l’educazione di noi giovani, in discernimento vocazionale e in formazione verso il presbiterato. Oltre al rettore, che coordina la vita nel seminario, svolgono un compito educativo gli educatori, uno per anno, e i padri spirituali, persone che hanno già una solida esperienza di vita presbiterale alle spalle e che ci sono messe accanto come consiglieri, come fratelli maggiori. Il seminario, infatti, non dovrebbe insegnare a fare il prete, ma a essere prete, a fare una scelta libera, grazie anche all’esempio di chi ne ha già fatto una simile. Grande compagna della giornata in seminario è la campana che scandisce i nostri ritmi: sveglia alle sei e mezza, alle sette inizia la preghiera, otto e mezza colazione, alle nove la scuola con quattro ore di lezione. Dopo il pranzo, nel pomeriggio c’è il tempo per lo studio personale, garantito almeno per tre ore. La serata solitamente è lasciata libera, altre volte è utilizzata per altri incontri formativi, per lo più organizzati da noi seminaristi, secondo le nostre competenze e inclinazioni.
Riguardo alla mia vocazione, c’è da dire che sono cresciuto in un ambiente cattolico: i miei genitori hanno avuto un’esperienza di fede molto forte, molto intensa e fin da piccolo mi hanno educato secondo quei valori che essi ritenevano fondamentali: mi sono reso conto che nella esperienza dei miei genitori, Dio è sempre stato una questione tutt’altro che marginale. Dopo la cresima, come tanti, ho lasciato la parrocchia perché non mi interessava più seguire quanto mi veniva offerto, non trovavo più corrispondenze tra la parrocchia e i miei bisogni di adolescente. Inoltre, avendo due genitori molto attivi nella vita parrocchiale, sentivo il bisogno di prenderne le distanze. Fu la musica ad accorciare le distanza tra me la chiesa! Dovendo infatti sostituire il mio maestro di musica, che si occupava del coro dei fanciulli, mi sono ritrovato di lì a poco a dirigere un coro di bambini. Mentre suonavo dal mio angolino in chiesa, vedevo la gente venire a messa con il sorriso sulle labbra, come se cercassero quell’appuntamento settimanale con grande desiderio. Sono molto contento che la mia vocazione abbia questa forte demarcazione comunitaria: è nata in una comunità di persone e grazie a queste persone. Dio mi aiuti sempre a vivere la vocazione tra la gente, spendendomi per la gente, rifuggendo ogni individualismo e particolarismo.
È molto importante fare memoria di questi avvenimenti, perché nei momenti di scoraggiamento o di incertezza gli eventi della propria storia si fanno attraversare dal dubbio di meno rispetto alle idee, per quanto entusiasmanti possano inizialmente sembrare. Sarebbe stato mio desiderio intraprendere la carriera forense, magari fare il pubblico ministero, e invece eccomi qui. Mi hanno sempre abitato un grande senso per la giustizia, per l’uguaglianza tra tutte le persone, per i diritti propri di ogni essere umano: tutte queste motivazioni personali, queste inclinazioni o aspirazioni entrano a pieno titolo nella mia scelta vocazionale: si chiamano carismi! Colui che chiama, Dio, è lo stesso che ci ha creato; e se ci ha creato in una determinata maniera, è perché vuole che portiamo a compimento nella nostra vita una missione affidataci per il bene del prossimo, sia quello a me vicino, sia quello distante. La vita è un dono fatto a noi è diventa ancora più bello quando viene messo a servizio degli altri.
Verso gli ultimi due anni delle scuole superiori, anni in cui ti chiedi cosa farai da grande, come vorrai vivere e realizzarti, ho iniziato un cammino di discernimento spirituale: la fede non mi ha tanto aiutato a darmi delle risposte, quanto a pormi con verità davanti a tante domande. Nutro una grande gratitudine per un sacerdote che mi ha guidato in questo cammino, è per me un punto di riferimento dal quale ho cercato sempre di prendere esempio. Per comprendere a pieno la propria vocazione, risulta necessaria la fede, nel senso che la consapevolezza della vocazione matura al maturare della fede, ovvero della relazione di amicizia con Dio. Non c’è nessuna apparizione, non ci si muove su un campo certo, semplicemente perché Dio non agisce nella certezza. Ma è altrettanto vero che la fede matura al maturare della nostra umanità. Si capisce pertanto che la scelta vocazionale è il frutto dell’incontro di una fede matura con una umanità matura. Altro che scissione o divisione: il cristiano autentico procede sicuro sulla via dell’integrazione tra queste due realtà. Oggi mi sento libero che se un domani, prima di scegliere definitivamente il sacerdozio, dovessi capire che la mia felicità passa da altro, potrei anche cambiare strada.
Questi anni di seminario per me sono stati una palestra di umanità che mi hanno aiutato a leggere con verità sia la mia storia che il mio mondo relazionale. Solo se si è liberi si può fare una scelta importante per la propria vita, anche dal punto di vista vocazionale. Qualora ci fossero forti condizionamenti, o timori, o paure, che potrebbero far intendere questa scelta più come una sistemazione o un’assicurazione che altro, sarebbe meglio fare altro nella propria vita: sarebbe altrimenti un fallimento preannunciato. E questo ha delle ricadute anche nella pastorale: una persona può fare del bene solo nel momento in cui è libera, poiché è riconoscente per quello che ha ricevuto e può donarsi totalmente, senza pretendere nulla in cambio, o senza presentare alla gente il conto per il bene seminato.
L’aspetto comunitario della nostra vita in seminario costituisce un altro pilastro della formazione. Non esiste un cristianesimo dove l’altro non sia contemplato, in qualche modo l’altro c’entra sempre. Anche nella vita monacale o eremitica l’altro esiste sempre. L’amore verso il prossimo infatti è ciò che ci permette di verificare l’amore che abbiamo nei confronti di Dio. «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20). Non esiste cristianesimo che scinda questi due aspetti. La fede porta necessariamente all’incontro con un’altra persona. Nemmeno gli errori della gente ci possono distogliere dalla verità di questo versetto biblico: dobbiamo riconoscere infatti che ogni persona, anche la più crudele, possiede quella bontà, seppur soffocata da un mare di male, con cui Dio l’ha pensata nel suo progetto. Quest’ottica permette di guardare a tutti con occhi di misericordia, a cominciare dalle proprie miserie: proprio perché riconosco di essere stato graziato, amato proprio in virtù delle mie piccolezze, non posso che dire che nelle deficienze di ciascuno scorre un fiume di grazia, che è immenso. In teologia studiamo che, per quanto l’abitudine al peccato possa oscurare la coscienza, uno spiraglio di bene rimane sempre aperto nel cuore dell’uomo. Quando Dio ci viene incontro, specialmente nel Battesimo, anche all’uomo più cattivo al mondo è concessa sempre la possibilità di riscattarsi.
L’aspetto comunitario della formazione ci spinge ad allargare i nostri orizzonti aldilà del cancello del seminario, alla ricerca del volto di ogni “altro” che abita questa faccia della terra: ecco perché sono diversi i campi di intervento in cui cerchiamo di esercitare la nostra missione di annuncio evangelico, di promozione umana, di liberazione dalle schiavitù. Abbiamo intrapreso un rapporto di confidenza e di amicizia, con alcuni ragazzi rom che vengono spesso a Molfetta a chiedere l’elemosina. Il dialogo è solo il primo passo, perché quando si vuole fare il bene della persona, ci si rende conto che le proprie forze da sole non bastano: ecco il motivo per cui cerchiamo sempre di appoggiarci a delle reti di istituzioni, associazioni, volontari, che si adoperano per venire incontro alle varie situazioni di fragilità. Per quanto riguarda il vestiario, in seminario facciamo un bacino di raccolta. Periodicamente portiamo il tutto ad un’associazione di Bari, nata tra l’altro grazie al Progetto Policoro – progetto della Chiesa italiana per contrastare il fenomeno della disoccupazione giovanile – che gestisce un mercatino nel quale, in cambio di una cifra irrisoria, 20-30 centesimi, è possibile acquistare maglioni, pantaloni e altro. Ancora. Ogni domenica sera andiamo a fare volontariato in una tendopoli a Bari, gestita dalla Croce Rossa che ospita 80 senza fissa dimora: la popolazione è formata da molti immigrati dell’Africa, dell’Est Europa e del Medio Oriente. Sono presenti anche tanti italiani. La maggior parte di loro è musulmana: non c’è sera che, in qualche modo, i nostri discorsi non tocchino anche la questione religiosa, in uno stile di grande dialogo, apertura, desiderosi di conoscere ciascuno il pensiero dell’altro. I preti più anziani ci raccontano che dopo i primi sbarchi in Puglia dall’Albania, dopo il crollo del regime comunista, si contavano più di ventimila rifugiati. Una rete spontanea di accoglienza si attivò nelle case, negli episcopi, nelle parrocchie: anche il nostro seminario ospitò famiglie di immigrati. Purtroppo questi slanci di generosità e accoglienza oggi sono più rari. L’egoismo, frutto della paura, prende spesso il sopravvento. Si preferisce rimandare a casa queste persone, anche a motivo di alcune leggi molto discutibili, se non proprio ingiuste. Se questi fratelli e sorelle muoiono per mare o durante il viaggio di emigrazione poco ci interessa; continuiamo a dormire sonni tranquilli, assecondando stili di vita che ingenerano le ingiustizie che causano i fenomeni migratori. L’ospitalità, invece, dovrebbe trovare terreno fertile nel cuore della gente: la Chiesa dovrebbe gridarlo a squarciagola, adoperandosi sempre più efficacemente in questa direzione.
Un’altra collaborazione che abbiamo avviato in questi anni è con l’associazione la Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. Tutti i mercoledì ci rechiamo dalle sisters, quelle ragazze vittime del dramma della prostituzione, nuova forma di schiavitù. Con grande dispiacere, mi capita sempre più di frequente di ascoltare dei discorsi, anche da parte di miei coetanei, che prospettano l’uscita dalla crisi che stiamo attraversando mediante la legalizzazione della prostituzione e delle case chiuse. Chi dice questo, forse non conosce o non ha proprio la percezione del problema: pensare di fare dei soldi sulla pelle di queste donne, la cui dignità di persona è messa sotto i piedi, è aberrante. Il nostro servizio, in realtà, è molto semplice: andiamo da loro per parlarci un po’, per pregare insieme, visto che buona parte di loro è cristiana, per trattarle da persone, insomma, con la dignità che è loro propria, perché non si sentano invece degli strumenti di piacere sessuale. L’obiettivo ultimo è pur sempre quello di liberarle dai loro sfruttatori. Obiettivo che si è raggiunto per circa settemila ragazze nel territorio italiano, da quando l’associazione è nata.
Un altro movimento a cui sono particolarmente affezionato è Pax Cristi. Come la Giovanni XXIII, anche questo movimento unisce all’aspetto prettamente operativo della propria missione, l’informazione, lo studio e la promozione di una cultura della legalità e della pace. Se i problemi non vengono studiati a fondo non si potranno mai risolvere a pieno. Mons. Helder Camara, un cardinale brasiliano al tempo del Concilio Vaticano II, diceva: «Se do da mangiare a un povero mi dicono che sono bravo, se mi chiedo perché quello è povero, allora mi danno del comunista»! Non si può dar da mangiare a una persona senza entrare nei suoi panni, nei suoi passi. L’intelligenza e l’amore ci conducono allo studio.
Ricapitolando, in seminario la formazione si basa sulla dimensione spirituale, umana, dello studio e della pastorale. Il servizio alla persona che si va a fare è quello che si è fatto prima su di sé. Quest’aspetto non è proprio marginale, anzi purtroppo oggi rappresenta a mio avviso la difficoltà maggiore: tante persone si allontanano dal cristianesimo perché non trovano dei testimoni autentici. Dio avrebbe potuto manifestarsi per mille altre vie, ma ha scelto la carne umana, ha scelto l’umanità per farsi conoscere. Pertanto il prete attraverso la sua umanità entra in relazione con gli uomini e con le donne di oggi. Un’umanità matura che accoglie liberamente l’appello di Dio è il punto su cui ci si gioca il futuro, è urgente riscoprire, da una parte, l’aspetto umano della fede e, dall’altra, l’incidenza che la fede ha nell’umanità della persona. Questo aiuterà la Chiesa a essere credibile oltre che credente.
Quello che oggi auguro alla Chiesa è che si liberi da quei legacci che le impediscono di svolgere la sua missione profetica nel mondo, che viva nella sola ricerca di fare la volontà di Dio (la scelta di Benedetto XVI va proprio in questa direzione). Con una testimonianza sempre più autentica e più vera, la Chiesa riscopra la sua vocazione di sentinella. Guardi lontano, legga la realtà con gli occhi del suo Dio, indichi la direzione del bene e annunci con gioia e tremore che Dio è vicino agli uomini. La notte si dirada e i bagliori del nuovo giorno si intravedono già all’orizzonte. Tantum aurora est. È soltanto l’aurora!