Claudio Varese maestro di “occasioni”

Negli ultimi tempi si è tornati a parlare di Claudio Varese, intellettuale antifascista nato a Sassari (1909-2002), allievo di Attilio Momigliano alla Scuola Normale di Pisa, insegnante e docente universitario prima a Urbino e poi a Firenze. Nel recente Interviste di Giorgio Bassani (1955-1993) curato da Beatrice Pecchiari e Domenico Scarpa (Feltrinelli) compare un suo dialogo del 1960 con Bassani, il quale definì Varese “padre spirituale, che non posso non ringraziare […] di essere esistito, e di esistere”. Sono usciti da poco i carteggi con gli scrittori Giuseppe Dessì e Mario Pinna (a cura di Costanza Chimirri, Firenze University Press), ed è in preparazione quello con lo stesso Bassani (a cura di Lucia Bachelet). Si è discusso di Varese nella città dove ha vissuto dagli anni Trenta fino agli anni Cinquanta, Ferrara, in un evento promosso da Gianni Venturi e organizzato dal locale Istituto Gramsci il 23 ottobre scorso. In quell’occasione l’intellettuale e storico del movimento pacifista, Daniele Lugli, ha letto e commentato l’articolo di Varese su Capitini, uscito su Azione nonviolenta nel 1978 e ristampato qui di seguito. La profonda amicizia tra Varese e Capitini emerge con forza nelle lettere pubblicate anni fa su “Linea d’Ombra”, su sollecitazione di Goffredo Fofi. Giovane studente a Pisa, Varese diventa antifascista prima di tutto per una scelta etico-culturale, condivisa con Claudio Baglietto, collega normalista non-violento che fuggì in Svizzera per il suo rifiuto della leva, e dove morì di stenti.
Continua ad essere attuale il metodo critico di Varese, saggista e storico della letteratura italiana, lettore e interprete di testi unici e molteplici, piuttosto che costruttore di teorie generali ed astratte, come lo strutturalismo o il neomarxismo, che si sono rivelate, alla lunga, camicie di forza. Come scrive Anna Dolfi (sua allieva all’Università di Firenze), Varese era un intellettuale dell’inquieta modernità: la sua opera “ci pone dinanzi al problema del senso e della ‘moralità’ dell’agire in ogni forma di scrittura, inclusa dunque la critica” (Gli asini).
Capitini, Baglietto, il liberalsocialismo, la poesia di Claudio Varese
Arrivando giovanissimo alla Scuola Normale di Pisa trovai in Aldo Capitini una guida intelligente e amorevole nel mio primo approccio con gli studi di letteratura italiana: era assistente volontario di Attilio Momigliano e segretario della Scuola Normale.
Portava tra di noi, accanto a Carlo L. Ragghianti e a Enrico Alpino, un antifascismo molto raro negli anni trenta, che ebbe quell’efficacia, anche lenta e indiretta, così precisamente e storicamente rappresentata nel suo volume Antifascismo tra i giovani.
Nella sua meditazione morale, religiosa e teorica, Capitini venne a incontrarsi con quello che il più giovane Claudio Baglietto, normalista e studioso della più moderna filosofia tedesca da Heidegger a Husserl, era andato elaborando. Baglietto morì esule a Basilea nel 1940 per non tornare nell’Italia del fascismo e per il suo ideale di nonviolenza. Nel ricordo dell’amico scomparso sul “Ponte” nel luglio del 1949 Capitini mette in rilievo il significato di una collaborazione incominciata nel 1931 per un “indirizzo etico-religioso”. Rispetto al cattolicesimo, all’idealismo, al fascismo “la nostra collaborazione” scrive “chiarì i termini dell’avversione e di un nuovo orientamento: non confusione tra spirito e realtà, nonviolenza e nonmenzongna, metodo della non collaborazione. Stendemmo dei Punti principali, una Professione di fede…”.
Sotto la data del 27 gennaio 1932 trovo gli appunti di una conversazione e di concordanza di pensiero tra Baglietto e Capitini: “Occorre ristabilire il senso dell’oggettività: il rispetto del fatto. Si raggiunge il più puro spiritualismo trattando il fatto come puro fatto, senza confusioni: il nostro idealismo spesso confonde. Occorre non viziare il fatto, ma cercare di capirlo e di sentirlo con la maggiore larghezza ed intensità. Sentire la realtà come realtà, ma l’idea come la realtà più realtà, come non fanno gli idealisti che chiamano idea la realtà”.
In una lettera del 29 gennaio 1951, parlando della sua molteplice attività e non trascurando il suo lavoro di approfondimento intellettuale e individuale, Capitini mi scriveva: “Ho proprio un filo teorico che fonda la posizione religiosa e riprende dal Kant in senso antihegeliano”. A tanta distanza dall’esilio e dalla morte di Claudio Baglietto il richiamo a Kant riprendeva i temi di una elaborazione teoretica che si sviluppava e diventava nei due amici un impegno morale e religioso.
Di quello che fu per Capitini il liberalsocialismo e il modo di sentirlo e di farlo sentire dentro o al di là dei partiti resta esplicita indicazione in una lettera del 23 luglio 1945: “Non aderii al Partito d’Azione fin dall’estate del ’42 perché più democratico che socialista. Volevo un’assimilazione vera del socialismo e a destinazione liberale. Perciò mi dico ‘indipendente di sinistra’ e sono a contatto con i partiti di sinistra. Il Partito d’Azione può essere una democrazia d’avanguardia: ha sempre elementi e fermenti notevolissimi dentro. Il Partito Socialista ha il vantaggio della tradizione e della adesione delle moltitudini; ma su certi punti è incerto, o di un marxismo amorfo. Qui è antifusionista: solo vicinato, anche perché molti sono diventati comunisti solo per energico antifascismo, senza sapere della illibertà, del materialismo, eccetera; è bene agire su di loro. Per liberalsocialismo, in cui credo sempre, si può essere nell’uno e nell’altro, e lavorare, anzi, per un incontro”.
Ricordo, come prova del fascino attivo e continuo che esercitavano i temi civili di Capitini, la dedizione straordinaria e intensa di un giovane ferrarese nonviolento, Silvano Balboni, morto precocemente, che riuscì a costituire e a far funzionare subito dopo la Liberazione il Cos (Centro di orientamento sociale) di Ferrara.
Bisogna non dimenticare e ristudiare l’esperienza di lavoro letterario, di lettore di poesia e di poeta dai Sette canti del 1931 al Colloquio corale del 1956. Nella breve nota in appendice a Sette canti, l’esame dei significati metrici storicamente considerati mostra già la fiducia nei valori della parola meditata e del colloquio tra libere e individuate personalità. “La mia nascita è quando dico un tu”, scriveva in Colloquio corale. Nel suo ufficio di docente universitario mantenne fede sempre al diritto-dovere della libertà d’insegnamento contro qualunque imposizione, da qualunque parte venisse; questo sostenne in un articolo di “Azione nonviolenta” del 1968 e questo mi confermò in una conversazione a casa sua, a Perugia, nella primavera di quell’anno.
Varese maestro di “occasioni” di Anna Dolfi
Anche limitandosi alla sola attività critica, non è facile offrire un sintetico ritratto di Claudio Varese, già che ha fatto parte di quella eletta schiera di maestri d’antan esperti in ogni secolo della letteratura. Varese, misurandosi con i grandi classici della nostra tradizione, ha coperto un arco che va da Dante al Quattrocento, da Tasso al Seicento, dal Metastasio e il teatro del Settecento a Foscolo, Manzoni, Pascoli…, includendo nelle sue ricerche anche i contemporanei, per i quali aveva una precisa passione (bastino i nomi di Saba, Montale, Zanzotto, Calvino, Volponi) e di cui è stato in taluni casi perfino amico e maieuta (il caso di Bassani e Dessí).
Ma per il passato in particolare tre nomi hanno contato in un discorso critico che si è fatto negli anni sempre più stringente e innovativo:
● Tasso, che ha studiato nel rapporto tra vita e maschera, verità e finzione, implicazioni scenografiche e registiche delle scritture per la scena in un commento all’Aminta e in Torquato Tasso. Epos, parola e scena (Firenze, D’Anna,1976)
● Foscolo, di cui ha indagato la biografia intellettuale e artistica in tre libri che continuano ad essere un fondamentale punto di riferimento per lo studio dell’alterità Ortis/Didimo: Vita interiore di Ugo Foscolo (Firenze, Sansoni, 1941); Autobiografia dalle lettere (Roma, Salerno, 1979); Foscolo: sternismo tempo e persona (Ravenna, Longo, 1982)
● Manzoni, lo scrittore prediletto, che in tre libri ricchi di grande suggestione, non dimentichi delle riflessioni nate a margine del romanzo, ha visto teso alla ricerca di un’opera non idillica: Fermo e Lucia. Un’esperienza manzoniana interrotta (Firenze, La Nuova Italia, 1964); L’originale e il ritratto. Manzoni secondo Manzoni (Firenze, La Nuova Italia, 1975); Manzoni uno e molteplice (Roma, Bulzoni, 1992).
Cultore di cinema – in dialogo fitto con Guido Aristarco – in anni nei quali ancora non si pensava a rintracciare il rapporto tra Cinema arte e cultura (questo il titolo di un suo libro pubblicato nel 1963), si è interrogato sul linguaggio filmico e la tecnica della nuova arte, sui rapporti tra linguaggio figurativo e linguaggio cinematografico, sul legame tra cinema e narrativa, sulle influenze e presenze dell’impressionismo e dell’espressionismo nei film, portando nell’analisi delle opere cinematografiche la competenza che gli veniva dalla frequentazione della letteratura francese (da Marivaux a Baudelaire, a Maupassant, a Proust), del romanzo e dell’arte tedesca. Quanto ai contemporanei italiani, oltre al giovanile Cultura letteraria contemporanea (Pisa, Nistri-Lischi, 1951), bisogna ricordare il suo Occasioni e valori della letteratura contemporanea (Bologna, Cappelli, 1967), e l’ultimo Sfide del Novecento. Letteratura come scelta (Firenze, Le Lettere, 1992), un libro in cui si è avvicinato agli autori del Novecento come se fossero classici, interrogandoli, ponendo quesiti, cercando risposte, traendo suggestioni che mirano, oltre il primario obiettivo di una puntuale lettura e di una completa e complessa interpretazione dell’autore e del testo, a porre la pagina letteraria a diretto contatto con la vita.
Il fatto è che Varese ai classici del passato e agli scrittori del suo secolo ha sempre chiesto scelte non evasive (da qui forse anche la sua predilezione per Manzoni e Calvino), la possibilità di porsi come modello, non solo di letteratura ma di cultura tout court.
Su un terreno tipicamente suo, guidato dalla stil-kritic, dall’analisi della dimensione temporale, da acuta moralità alla Montaigne, attraverso il paradigma ricorrente dell’unitario e molteplice (adottato esplicitamente per Manzoni, ma sotterraneamente valido anche per gli altri) si è preoccupato di garantire agli autori una lettura secondo se stessi, rifuggendo da ogni facile schematismo, da ogni ideologia o dall’applicazione di metodi precostituiti. Il suo dialogo (come tale in definitiva si è configurato il suo rapporto con i testi) ha puntato a rintracciare il lento formarsi delle poetiche e le segrete regole di uno stile. Per questo ad intrigarlo, su insegnamento spitzeriano, è stata sempre la costanza delle parole, alle quali ha rivolto un’attenzione specifica, pronto sempre a rilevare l’inquietudine, la complessità che nascondono, quanto porta i segni di una presa di coscienza culturale e storica, e della difesa o resistenza dinanzi all’irrazionalismo e all’intolleranza.
L’inquieta modulazione del tempo e dei tempi (un vero e proprio topos critico per lui) l’ha indagata tramite gli strumenti della più moderna metodologia (Weinrich, Poulet, Ricoer, Gadamer…), tentando ogni volta, sia pur sotto traccia, di spostare gradualmente l’attenzione dall’opera alla sua intenzione, ponendo e rispondendo a domande intorno alla natura della letteratura, e di conseguenza alla ragione del suo durare e resistere nel tempo.
Affidando le sue riflessioni a una scrittura critica estremamente raffinata, giocata su partizioni, corrispondenze binarie e ternarie, sottigliezze e diversificazioni semantiche che permettono quasi di seguire il farsi del suo pensiero, il costituirsi del testo critico, lungo la linea di una progressione logica che vuole che a ogni parola corrisponda un significato distinto, un concetto preciso, Varese arricchisce la sua analisi letteraria, nutrita da una forte propensione alla modalità filosofica di interrogazione del testo, con la fin troppo rara (ahimè, per critici e storici) qualità della scrittura. Per questo possiamo parlare nel suo caso come in pochi altri dell’esistenza anche di una poetica critica, di una sorta di ‘filosofia’ personale che preesiste e tende a farsi pagina.
I suoi libri, oltre al rigore e alla documentazione che li accompagnano, affiancano al soggetto e al tema proposto una sorta di sfida ermeneutica che si traduce, per il lettore, in strumento non solo di conoscenza oggettiva ma di riflessione. Sono libri insomma che vale la pena tornare a rileggere con il desiderio di ricostruire un cammino di cultura e di vita che non riguarda più soltanto l’autore che ci eravamo ripromessi di approfondire ma anche il suo interprete. Un interprete che continuamente ci pone dinanzi al problema del senso e della ‘moralità’ dell’agire in ogni forma di scrittura, inclusa dunque la critica. Problema capitale, come ben si può capire, ieri come oggi, che molto ha a che fare con il senso di quanto facciamo come ricercatori e docenti, e che da solo basta a qualificare Varese come un intellettuale dall’inquieta modernità che continua ad esserci maestro. Né la cosa stupisce: basta ricordare (attestata da tanti altri corrispondenti giovanili) la forza della sua costante e precoce maturità, una maturità (ed uso un’espressione utilizzata per lui da Montale in una lettera inviatagli nel novembre 1945) “che pochissimi posseggono”, e che pochi, potrei aggiungere, sanno regalare agli altri – allievi ed amici – assieme alla curiosità culturale e a una modesta e ironica nonchalance.