Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Chi rom e… chi no: 20 anni
di attivismo a Scampia

9 Novembre 2022
Emma Ferulano

Faccio parte del gruppo Chi rom e…chi no, una associazione di promozione sociale a Scampia che dal 2014 ha messo in piedi uno spazio che si chiama Chikù, che prova a tenere insieme una serie di anime, a partire da una azione di attivismo per i diritti di cittadinanza delle comunità rom e italiane nel quartiere di Scampia. Siamo arrivati, nel tempo, attraverso percorsi di pedagogia, educazione, teatro, laboratori creativi, artistici, a mettere in piedi un modello che cerchiamo di far “funzionare” dal punto di vista sociale, culturale e pedagogico, ma anche dal punto di vista professionale, con un tentativo di micro impresa sociale, La Kumpania, che coinvolge da oltre dieci anni donne rom e napoletane, e che prova a resistere piuttosto faticosamente in un mercato del lavoro normalmente molto competitivo e che non asseconda i ritmi di vita. La pandemia dopo tanti anni di attività ci ha dato in qualche modo l’occasione di fermarci a riflettere e di uscire dal ricatto del “fare” che chi lavora nel terzo settore, nel settore sociale, culturale, educativo conosce bene. Fermarsi a riflettere, prendersi degli spazi di riflessione per capire dove questo fare costante ci stesse effettivamente conducendo. È un tempo di bilanci, dopo venti anni di attività da una baracca abusiva in un campo rom non autorizzato, dove abbiamo trascorso i nostri migliori anni, e dove l’aspetto dell’attivismo e della militanza erano una qualità dell’intervento sociale – all’epoca completamente autogestito e autofinanziato – che è difficile da ritrovare adesso, è difficile ritrovarlo con gli educatori più giovani, è difficile trasmettere questo spirito.


E’ stata una scelta di vita: a venti anni abbiamo deciso di abolire la vita mondana e mentre i nostri coetanei uscivano il sabato sera, noi facevamo i laboratori di pittura, il carnevale di Scampia, passavamo così le notti, era quello il nostro agire nel mondo, era quello anche il nostro piacere: il lavoro di gruppo, con un intento politico e trasformativo della realtà. Per noi la politica è sempre stata intesa in questo modo, cioè un fare insieme alle persone, a partire dai più piccoli e coinvolgendo i più grandi, provando a cambiare contesti molto compressi e molto oppressi. Parliamo del campo rom di Scampia, un campo storico, informale, abusivo, che sta sempre lì da circa trenta anni, parliamo di rioni popolari dove abbiamo cominciato e dove continuiamo a stare, in cui ci sono intere generazioni di giovani che si trovano in emergenza permanente e che in qualche modo sono abituati a fronteggiare una vita che è molto lontana dalla vita dei loro coetanei all’interno della stessa città. Questo dato, nonostante i decenni di intervento sociale e di movimento che a Scampia sono effettivamente straordinari, è un dato che non è mutato. Sono mutate le condizioni storiche, forse sono migliorate alcune condizioni di vita, ma il rapporto con la vita carceraria, con la criminalità organizzata, la depressione sociale e la disoccupazione è un rapporto che permane, ancora di più dopo la pandemia.


È tempo di bilanci perché oggi Scampia è un territorio in cui apriranno una nuova sede dell’Università Federico II, non si può più considerare periferia – nemmeno prima secondo noi – è piuttosto il centro e lo snodo di una serie di trasporti pubblici urbani e della città metropolitana, ci sono stati enormi investimenti, ma è comunque un territorio dove una serie di contraddizioni non sono mai state risolte. Le politiche abitative per i rom sono state un fallimento totale, i campi sono ancora lì, c’è semplicemente uno svuotamento progressivo spontaneo e inesorabile. Una piccola parentesi sul voto. Per noi il voto non è mai stato particolarmente significativo rispetto all’esercizio di una cittadinanza attiva, e quindi nei nostri molteplici percorsi insieme alle persone del quartiere, non era quello il momento della partecipazione. La partecipazione era piuttosto stare in una assemblea, riappropriarsi dello spazio pubblico, farlo creativamente, discutere dei temi dell’abitare che riguardano tutte e tutti. Però c’è stato un momento elettorale, forse locale, in cui pensavamo che fosse molto importante andare a votare soprattutto per i giovani cittadini rom. Sono comunità che provengono dalla ex Jugoslavia, c’erano almeno tre generazioni che non votavano a causa delle guerre, delle apolidie, dell’assenza di diritti giuridici di cittadinanza. Finalmente c’era un gruppetto di cittadini che aveva avuto la cittadinanza anche grazie alla nostra azione di advocacy, e che potevano andare a richiedere la tessera elettorale e votare. Quando ci presentammo all’ufficio della municipalità, al funzionario comunale gli prese un colpo perché improvvisamente si presentarono gli Aleksic, i Nikolic, i Radosavljevic per prendere questa tessera elettorale e nessuno ci poteva credere. In quel momento ci sembrò che l’esercizio del voto fosse effettivamente un esercizio di cittadinanza, perché in quel momento persone che erano state sempre passivamente abituate ad un avvicendamento dei governi ma lontanissime dallo Stato, avevano l’opportunità di esprimere almeno una preferenza. Abbiamo una bella fotografia significativa di quel giorno. Questo non ha cambiato nulla, però momenti del genere sono stati quelli in cui noi in qualche modo abbiamo creduto di poter incidere effettivamente sulla realtà, di poter cambiare le condizioni materiali, di poterci sedere anche ai tavoli istituzionali per una democrazia partecipativa che per quanto riguarda il tema dei campi, anche con De Magistris sindaco, sono stati un fallimento totale.

Oggi che fare di sensato?
La sensazione è quella di una azione che non arriva mai a compimento. A me sembra che oggi si sovrappongano due narrazioni di Scampia. C’è quella negativa, stereotipata, solita, che è quella che più si conosce del quartiere malfamato, criminale, le vele etc. Però poi c’è una narrazione che è tutta positiva, e nemmeno può funzionare. È tutta positiva perché gruppi come i nostri che si mettono insieme per agire sul territorio, da anni tentano di diffondere un messaggio in cui è al centro la positività e la straordinarietà delle azioni che si fanno a Scampia, come polo di eccellenze e progettazioni all’avanguardia, da mettere a sistema, anche per attirare gente da fuori e creare movimento con le persone del quartiere. Entrambe queste narrazioni scorrono parallele ma nessuna delle due racconta la realtà nella sua complessità.
Il nostro compito oggi potrebbe essere quello di sollecitare maggiormente le auto narrazioni di decine di migliaia di persone che non si riconoscono né in un modello né in un altro, ma che vivono in un territorio che è da sempre alla ribalta dell’attenzione e su cui ci sono grandi investimenti che poi magari nella vita della gente non portano a niente. Personalmente, non sono neanche d’accordo con il racconto deprimente che demolisce tutto il tentativo che i gruppi fanno quotidianamente e faticosamente per incidere su alcune questioni, battendosi ossessivamente come dei martelli pneumatici su questioni come lo spazio pubblico, il verde, l’ecologia, i giovani, i bambini, il diritto all’abitare, il lavoro, le donne…tutte parole d’ordine che vengono ripetute e contesti che vengono creati per costruire quegli spazi di pace, quegli spazi alternativi che se funzionano riescono a convogliare centinaia di persone con pratiche che sono effettivamente alternative al modello di vita dominante e che provano a non andare in direzione di una omologazione.


Da questo punto di vista, la parola pace sociale a volte fa paura perché assomiglia a quella assenza di conflitto che diventa un problema, perché i giovani oscillano tra la possibilità di andare in carcere perché la loro sopravvivenza è legata alle economie informali o illecite e ad aspirazioni di fatto conformiste che tendono ad annientare quel conflitto sociale necessario per condurre a un cambiamento.
Al nord è già una tradizione consolidata, ma al sud il fatto che il welfare sia diventato appannaggio del privato è una cosa sostanzialmente nuova, in cui noi stessi ci stiamo trovando in una specie di transizione. La questione è come mandare avanti la baracca attraverso i bandi, la progettazione etc, ma senza restare schiacciati da diktat, vincoli, parole d’ordine, linee guida che non sempre ci appartengono e che le fondazioni spesso impongono. Il tema è complesso: la partecipazione ai bandi non può etichettarti automaticamente come una realtà che ha tradito i propri obiettivi. Fare arrivare soldi è necessario, perché altrimenti non riesci a mandare avanti quelle attività che comunque hanno un impatto poi nella vita delle persone. Un’analisi critica sincera del quadro in cui agiamo serve però a capire quali sono i passaggi ancora da fare, quali sono le mobilitazioni da mettere in piedi, come osservare e leggere le nostre realtà, la quotidianità, le varie fasi storiche. Come non cedere ad alcuni ricatti e ad alcune logiche progettuali – educatori e operatori che si trovano soverchiati da una burocrazia e da esigenze di rendicontazione che a volte addirittura superano la parte progettuale vera e propria – tutto questo deve essere oggetto di riflessione. Con alcuni compagni la discussione già si è avviata proprio evidenziando la necessità di creare spazi in cui sia possibile uscire dagli automatismi, prendere un po’ di respiro mentale, sedersi a discutere di queste tematiche senza continuare ad agire acriticamente.


A Scampia non corriamo il rischio di impigrirci, è un territorio fertile, siamo continuamente attivi su molti fronti, dalle brigate in pandemia ai temi della giustizia sociale, ambientale, abitativa, di genere etc., ma sul lungo termine questa attitudine può essere un rischio, perché se si perde quello spirito più attivista, quell’idea di politica nel senso della polis l’intervento rischia di essere omologato, conformista e di perderne in qualità.


L’idea è di moltiplicare gli spazi di riflessione. Un dato positivo è che reti che magari sono nate e create ad arte per rispondere alle esigenze dei bandi e che sono solo partenariati formali, con la pratica si possono trasformare in gruppi trasversali di senso, attraverso la creazione di relazioni e di scambi con operatori che credevi lontanissimi da te ma che magari rispolverano il loro animo più politico. Ribaltare lo schema significa fare un intervento educativo di qualità più elevata, cercare di uscire da una cornice che magari non ha mai funzionato, che è omologante e che non fa crescere bene nessuno. Trovarsi a condividere tutto questo non soltanto con i compagni di viaggio, ma anche con chi è in qualche modo insospettabile penso che sia un segno positivo, perché indica che c’è un’urgenza e una necessità a dirsi delle cose, a condividere delle inquietudini e a provare a migliorare il proprio lavoro.

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