Che ne è della World Music?

In epoca di globalizzazione, tra le musiche che più di altre hanno subito sul piano economico e della popolarità la crisi e poi il crollo dell’industria discografica vi è la world music (ironia della sorte, nota come global music). In un sistema come quello passato, controllato dalle etichette discografiche e volto a diffondere prodotti capaci di vendere un alto numero di dischi, era più facile – e per certi versi necessario – scoprire figure di valore da offrire alle platee (soprattutto occidentali), e capaci, grazie al carisma e alle qualità esecutive, di mantenere un successo e un riconoscimento critico duraturo. Il rovescio della medaglia era che le strategie di marketing messe in atto dai discografici per assicurare la riconoscibilità di questi artisti, presso un pubblico abituato ad altre sonorità, facevano sì che costoro andassero spesso a identificare agli occhi dei più un intero territorio o nazione, con un conseguente appiattimento della grande varietà sonora di un luogo sul modello dominante: furono i casi, ad esempio, di Cesária Évora (Capo Verde), Nusrat Fateh Ali Khan (Pakistan), Toumani Diabaté e Ali Farka Touré (entrambi del Mali), per citare alcuni nomi. Di tale sistema hanno inoltre beneficiato quegli artisti legati ad aree geografiche più periferiche, o soggette a limitazioni politiche, e riscoperti attraverso mirate operazioni celebrative, come sono stati i casi della collezione Éthiopiques (30 pubblicazioni tra il 1998 e il 2017), dedicata a musicisti e cantati etiopi, e dei cubani Buena Vista Social Club, supergruppo che riunì, tra gli altri, Eliades Ochoa, Compay Segundo e Ibrahim Ferrer, per l’omonimo album tormentone del 1997, divenuto due anni dopo oggetto di un film documentario di Wim Wenders.
Molti commentatori imputano all’assenza di nuovi artisti dal forte carisma l’incapacità della world music di attirare l’interesse del pubblico nel nuovo millennio. Piercarlo Poggio, in un articolo comparso lo scorso Gennaio su Blow Up (#260) e dedicato alla world music, ha segnalato con estrema puntualità e oculatezza che se anche “esistesse un giovane Nusrat (Fateh Ali Khan), per lui oggi le probabilità di emergere sarebbero minime”. La word music, ancor più delle musiche popolari occidentali (pop, rock, elettroniche), soffre della crisi della filiera del disco, che vede sempre meno addetti ai lavori, produttori e editori competenti, formatisi e improvvisitatisi al mestiere, in grado di reperire i mezzi indispensabili per recarsi altrove, trovare vecchi e nuovi artisti e gruppi, garantire loro la possibilità di registrare in maniera professionale, organizzare tournée dai costi elevanti (e dai problemi logistici da affrontare non banali). Anche di fronte alle possibilità quasi infinite che le nuove forme di diffusione della musica offrono di intercettare artisti che vengano da ogni dove, rimane assai rischioso puntare su operazioni che alla luce del mercato attuale – che sfrutta l’emersione momentanea, la moda del clickbyte, la “coda lunga” invece del singolo prodotto di qualità, la capacità del musicista di mostrarsi sui social – sarebbero in passivo ancor prima di vedere la luce. E infatti, a fronte di una miriade di uscite discografiche e digitali d’ambito world, risulta irreversibile la crisi delle etichette che per anni con cura e attenzione avevano portato avanti percorsi di ricotruzione identitaria attraverso la musica (tra queste, World Circuit, Piranha, World Music Network, Label Blue, Glitterbeat, Buda Musique): alcune sono rimaste il pallido ricordo di quel che erano, altre si sono riconvertite ad altri generi, poche hanno continuato, tra mille difficoltà, sulla strada della ricerca.
Si potrebbe inscrivere tra le cause del calo di interesse per la world music la sua stessa propagazione in generi come il rock e l’elettronica, che accogliendola hanno finito per triturarla in percorsi di fusion transnazionale e di pan-terzomondismo decoloniale, alcune volte con esiti qualitativi molto alto (si pensi al bellissimo Inspiration Information 3, 2009, dell’etiope Mulatu Astatke col collettivo The Heliocentrics, di base a Londra), ma quasi sempre piegati a una visione produttiva e sonora per giovani bianchi della classe media. Si potrebbe citare il caso dell’afrobeat, dal gran successo, anche generalista, che, scrive ancora Poggio, “mai come ora è ingrediente sostanziale del repertorio di un’infinità di band occidentali, a cominciare dalle ultime leve del jazz britannico (Maisha, Nérija, Kokoroko)”.
Segnali di vitalità sono però arrivati in questi ultimi anni anzitutto dall’Africa sahariana, col blues del deserto e il rock dei tuareg: anticipati dal successo mainstream di Bombino, gruppi come Tinariwen, Tamikrest, Tartit e Terakaft hanno offerto prove di vivacità creativa e poetica, avulsa dalla routine che attanaglia la musica etnica, spesso anche manifesti politici e sociali di chi restando in continuo eremitaggio tra Algeria, Marocco e Occidente, ha assistito alla sanguinosa guerra civile che mette a fuoco e fiamme il Mali. Musiche mesmeriche e sinuose, in cui l’immensità del deserto è quasi palpabile.
Ancora dall’Africa è giunta la seria discografica Congotronics, aperta a Kinshasa nel 2004 dai Konono N°1, e poi sbarcata in Europa e negli Stati Uniti. Dopo un quarto di secolo di vita, il mondo si è così accorto dei Konono N°1, la cui avventura era iniziata negli anni Ottanta, quando Migiendi Mawangu aveva fondato il primo nucleo della band, per rielaborare i canti rituali degli Zombo (il popolo natio di Migiendi), con al centro oltre le ovvie percussioni, il likembe (o m’bira) strumento della tradizione musicale degli Shona, una tribù dello Zimbabwe, costituito da una serie di linguette di metallo di forma diversa fissate su un pezzo di legno, che pizzicate emettono un suono caratteristicamente caldo, melodioso e giocoso. Un groove antico come il mondo, quello dei Konono N°1, filtrato attraverso la modernità della strumentazione elettrica: su questa base si muovono canti ipnotici e circolari che parlano di leggende antiche, per un risultato che tra vecchio e nuovo risuona suggestivo, magnetico, avvolgente, animale, ma talvolta anche rarefatto. L’elettrificazione degli strumenti tradizionali e il recupero di ritmi congolesi è diventato, grazie a Congotronics, un filone vivo, che ha visto la riscoperta di altri vecchi artisti e l’ascesa di nuovi gruppi (dai Kasai Allstars ai Kokoko!).
Segnali coloratissimi arrivano infine dall’America Latina e dai Caraibi: dal rasin (stile musicale, dalle forti implicazioni politiche, che combina elementi propri dei cerimoniali vodou a stilemi che provengono da reggae, rock e funk) delle band haitiane Boukman Eksperyans e Ram, alla futuristica electro-cumbia dei Dengue Dengue Dengue!, di stanza in Perù, dal folk di Buendía (En el Caribe también pasa esto, 2019) al neo-tropicalismo tribale dei Ghetto Kumbé, entrambi colombiani. Sempre colombiani sono i Bomba Estéreo (Ayo, 2017), che partendo dalla cumbia hanno progressivamente imbarcato sulla loro nave colorata psichedelia, electropop e reggaeton in un unico accogliente abbraccio, e Lido Pimienta (Miss Colombia, 2020), che al contrario decostruisce con ferocia i fastosi suoni della sua terra, ricavandone un mélange sonoro dal profondo rigore concettuale, tanto intricato quanto accattivante. Percorsi questi, tutti caratterizzati da un evidente scontro tra culture diverse (quella della propria madre-patria e quella globalizzata), dalla convivenza tra sguardo disilluso nei confronti della travagliata storia della terra d’origine e cauto ottimismo verso il futuro, momenti fieramente indigeni e ambizione creativa a parlare a un mondo altro. Piccoli segnali di ripresa, per uno stato di salute che al momento resta però incerto.