Cantando la strada. La cultura hip hop nella periferia nord di Torino
È interessante domandarsi che rapporto esista fra vecchi e nuovi immigrati oggi, dal momento che spesso questi gruppi condividono gli stessi luoghi di residenza. Per cercare di capirlo ho voluto condurre un’indagine in un quartiere simbolo della Torino operaia del Novecento, Barriera di Milano, che può essere considerato un crocevia dell’immigrazione. Il quartiere sviluppatosi con la prima industrializzazione ha visto alternarsi varie generazioni di immigrati, dapprima provenienti dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia ed infine, ai giorni nostri, dal Sud del Mondo. Vecchi e nuovi arrivati si trovano quindi a vivere nelle stesse vie e negli stessi palazzi. La popolazione straniera in Barriera di Milano ha raggiunto, all’inizio del 2011, un’incidenza del 29% contro il 14,20% della media cittadina; gli immigrati si concentrano in modo particolare nel centro storico del quartiere e la quota di sezioni statistiche con un’incidenza di residenti stranieri superiore al 30% è elevata (secondo i dati di Concordia Discors di Ferruccio Pastore e Irene Ponzo, Carocci 2012). Barriera di Milano appare oggi come un quartiere che presenta un tessuto urbano poco accogliente, unito a un profilo sociale della popolazione residente piuttosto critico. Rispetto alla maggior parte degli altri quartieri torinesi, questa zona è oggi più densamente abitata, multiculturale e socialmente fragile. Tutto questo può favorire le tensioni: i conflitti si registrano spesso all’interno dei palazzi e riguardano vari motivi come, ad esempio, l’utilizzo degli spazi comuni. Gli stranieri vengono frequentemente accusati di non rispettare le regole sui tempi e modalità d’uso di cortile e scale e di non assumersi responsabilità di pulizia. Come è immaginabile, i conflitti sono più frequenti dove è maggiore il degrado delle infrastrutture e delle abitazioni. Esistono ancora edifici vecchi, che non sono stati ristrutturati negli anni, dove molti stranieri sono andati ad abitare; ed è proprio in quei palazzi fatiscenti che la convivenza tra vecchi e nuovi abitanti si fa più difficile. Echi di queste tensioni si possono manifestare anche tra i giovani di diversa nazionalità. Su “Facebook”, sono stati creati alcuni gruppi di condivisione di messaggi a stampo razzista, in cui si rivendica la territorialità del quartiere ed il desiderio di voler “mandar via gli stranieri”. Un giovane utente ha scritto: “Ciao raga…. io abito in barriera da 17 anni xro barriera non è più quella di una volta ci son troppi immigrati di merda!!! bisogna riprendercela. con barriera meridione ciao guaglion”.
Si percepisce nei discorsi di alcuni giovani abitanti una rivendicazione orgogliosa del proprio territorio: su diversi muri della zona campeggia la scritta: “Barriera Domina”. Irene una blogger scrive sulla sua pagina online: “Nata e cresciuta in questo quartiere al confine con l’ancora più temuta zona Falchera, mi sono sempre domandata, durante gli spostamenti verso il centro di Torino, perché mai Barriera di Milano dominasse”. La questione è interessante, anche se di difficile interpretazione. Forse quelle scritte vogliono intendere una volontà di “dominio del territorio” di alcuni giovani abitanti o forse sono semplicemente un modo per demarcare i propri confini, con un sottointeso “qui dominiamo noi”: chi viene in questo zona è dunque avvertito. È, però, la prima generazione di immigrati interni a sentirsi più a disagio in questa nuova realtà di un quartiere abitato anche dagli stranieri. Si vengono a riformare vecchi confini nei discorsi degli abitanti emergono talvolta antiche barriere, che si credevano forse superate. Nei circoli o agli angoli delle strade può capitare di sentir parlare di un “noi meridionali”, utilizzato in maniera quasi sempre contrappostiva rispetto ai nuovi immigrati; si tende, in generale, a sottolineare le differenze piuttosto che evidenziare le continuità tra vecchie e nuove esperienze migratorie. Racconta Michele arrivato a Torino dalla Puglia quando era ancora un bambino: “Stanno facendo di tutta l’erba un fascio, mischiano noi con l’immigrazione di oggi. Noi rispettavamo le regole, le leggi, ci comportavamo bene, rispettavamo chi ci pagava. L’umiliazione l’accettavamo, ci accontentavamo. Una volta se non avevi dieci anni di residenza a Torino non potevi stare. Se tu entro dieci anni non avevi la residenza, un posto di lavoro, dovevi tornare al tuo paese, oggi non è più così. Io non ho mai fatto i bisogni per strada, non sono mai andato a chiedere l’elemosina, piuttosto ho fatto lo schiavo, mi sono mangiato gli avanzi degli altri, però mi sono sempre comportato bene. Oggi questo non esiste, perciò che non mischiassero l’immigrazione italiana nostra con lo straniero”. Sono parole dure, discorsi sofferti di chi non vuole rivedere nelle fatiche degli altri il proprio difficile passato. Il diverso viene percepito come minaccioso, forse non per ciò per cui è diverso, ma per ciò per cui ci assomiglia. Tra i vecchi immigrati serpeggia la sensazione di essere assediati, di vedere il proprio spazio vitale invaso, e tutto ciò fa dire loro che in questo quartiere “so’ tutti di loro”, dove il “loro” è lo straniero, l’“altro”. In una recente survey svolta a Barriera di Milano si evidenzia che effettivamente gli intervistati residenti in quartiere mediamente sovrastimano la presenza di stranieri in zona. La stima media degli intervistati è di una presenza del 41% di stranieri, contro l’effettiva incidenza del 29%. In questa stessa indagine emerge che solo il 40% degli intervistati dichiara di fidarsi degli immigrati che abitano nel quartiere. I tre problemi più sentiti dai residenti sono: l’insicurezza (46%), il degrado degli spazi pubblici (34%) e le difficoltà di relazione tra italiani e stranieri (33%).
(…) Ma la lotta tra vecchi e nuovi migrati appare anche e soprattutto come una opposizione simbolica: i vecchi sembrano dire ai nuovi: “La casacca dell’ultimo arrivato oggi spetta a te”. Ci si sarebbe forse potuto aspettare un atteggiamento diverso da chi in passato ha vissuto sulla propria pelle le difficoltà di immigrare in un altro contesto, ma non è così. Uno dei motivi per cui avviene questo ce lo spiega Marina, anche lei figlia di immigrati meridionali: “Io mi arrabbio molto, su questo discorso perché io vedo molto che gli immigrati di adesso, extracomunitari, hanno come se fosse una pretesa, cosa che io non riscontro sui meridionali di una volta. Adesso arrivano e pretendono di avere un posto sicuro, lo stipendio a fine mese, la casa, la scuola e il lavoro insomma eh, non l’hanno fatto i miei. I miei e tutti gli immigranti di allora, sono entrati in punta di piedi. Attualmente ci sono molte cose che privilegiano l’extracomunitario a livello di aiuti… mettiamola così. Cosa che prima non veniva fatto. Quindi noi abbiamo vissuto il passato dei nostri genitori, loro ce l’hanno fatta senza spingere più di tanto. Invece le persone che arrivano adesso, pretendono l’aiuto, pretendono di essere aiutati e quindi lo pretendono, non lo desiderano”.In queste parole si designa una sorta di scala gerarchica della sofferenza: ieri gli ultimi arrivati erano i miei genitori ed hanno faticato, adesso gli ultimi arrivati solo “loro” ed è giusto che provino quello che hanno sofferto i miei.
Esiste, però, una cosa che pare accomunare i giovani immigrati stranieri di oggi con i figli ed i nipoti degli immigrati interni di ieri: la cultura hip hop. L’hip hop affonda le sue radici nel Bronx degli anni Settanta e Ottanta, dove i giovani neri e latini iniziano ad usare il rap, con musica martellante e parole in metrica, per raccontare quello che per loro non va bene e per ribellarsi all’oppressione del ghetto. (…) A distanza di più di trent’anni dalla sua nascita, questo tipo di cultura di strada sembra essere tutt’altro che tramontato. Il rap ha attraversato l’Oceano ed è stato adottato come codice espressivo e come cultura antagonista dai giovani di tutto il mondo. Modelli culturali globali, spesso associati all’industria americana del divertimento, che si adattano bene ai bisogni espressivi locali. Questi modelli, dopo un processo di appropriazione culturale, riescono a sviluppare una creatività autonoma e divengono espressione della vita locale. Oggi nel mondo molti giovani figli di immigrati usano i linguaggi musicali dell’hip hop e del rap per raccontare e porre in primo piano l’emigrazione e le esperienze ad essa connesse. (…)
A Torino, oggi, anche diversi ragazzi meridionali di seconda e terza generazione utilizzano il rap per raccontare quello che a loro avviso non funziona. Raccontano le difficoltà vissute dai genitori, gli episodi di violenza visti dai balconi delle loro case o quello che hanno riferito loro gli amici o i fratelli più grandi. Oggi che, per i ragazzi italiani, molte delle difficoltà sembrano essere superate, esistono ancora questi cantastorie rap, che continuano a ricordarci quanto sia difficile essere considerati “dei tamarri in città” ed i loro coetanei stranieri comprendono questo linguaggio e nelle loro parole spesso si identificano.
Jari Ivan Vella, meglio conosciuto come Ensi, figlio di immigrati siciliani, nasce e vive ad Alpignano, nella prima cintura torinese ed è un rapper affermato che si distingue grazie alle sue ottime doti di freestyler, la tecnica diimprovvisare rime a tempo di musica ritmata. Ensi canta nella sua canzone “Terrone”:
Se anche tuo padre è del Meridione
Terrone
e lavora sognando il mare e il sole
Terrone
se lo sei di seconda generazione
Terrone
un’altra regione ti ho scritto una canzone
(…)
Anche nel quartiere Barriera di Milano di Torino la musica hip hop sembra aver trovato un terreno fertile nel quale diffondersi. In zona sono nati in questi ultimi anni diversi gruppi hip hop ed uno di questi si chiama “Barriera Armata”, un duo rap costituito da un cantante di ventisette anni ed da un altro di ventotto. I due, entrambi figli di immigrati meridionali, in Barriera di Milano ci sono nati ed ci hanno sempre vissuto. Il legame con il loro quartiere è sancito dallo stesso nome d’arte che hanno scelto per il proprio gruppo. D’altra parte un aspetto centrale, per chi si identifica con la cultura hip hop, è il radicamento nel proprio contesto socioculturale e geografico. In molti testi rap si fa continuamente riferimento a concreti luoghi geografici e alla solidarietà di quartiere, di zona o di strada.
Mi do appuntamento con questi due cantanti una sera in un bar del centro di Torino e, quando arrivo, non mi è difficile riconoscerli. Sono vestiti secondo un perfetto stile hip hop, abiti larghi, cappellino con visiera, ed hanno uno sguardo sofferto. La cultura hip hop non si esprime infatti solo attraverso la musica, ma anche attraverso codici comportamentali, maniere di vestire e di parlare. Capisco, dopo aver scambiato poche parole con loro, che questi ragazzi non recitano una parte: rispettano dunque una delle regole fondamentali dell’hip hop: devi essere vero, devi cantare quello che hai realmente vissuto, se no non sei credibile. I “Barriera Armata” vogliono raccontare con la loro musica il disagio presente in questo vecchio quartiere operaio e denunciare il degrado in cui versano alcuni palazzi e alcune strade, dove i vecchi immigrati hanno pian piano lasciato le loro case ai nuovi arrivati stranieri. I problemi nella zona effettivamente non mancano, anche se bisogna sempre tener presente che nel discorso hip hop e nella canzoni rap esiste anche una sorta di “retorica del ghetto”. Racconta Smooth:“Io all’inizio abitavo in corso Palermo, poi nel Duemila mi sono trasferito in via Aosta proprio all’inizio di Barriera di Milano, una zona che adesso è forse la peggiore che c’è. Se non fosse per il commercio degli immigrati di adesso, dei nordafricani, dei romeni sarebbe una zona dove non ci sarebbe più un negozio. Oramai i negozi sono tutti loro, gli italiani vogliono andare via perché dicono che è diventato uno schifo”.
Nei versi di una loro canzone emerge proprio questo difficile rapporto con i nuovi immigrati. Cantano:
Non è solo un quartiere ma uno stato mentale
serve un istinto animale per girare in questa strade
la giustizia popolare che irrompe con le ronde
a monte i problemi, da rimedi estremi, scleri e non si mangia per ora
Il riferimento è alle ronde notturne “anti-pusher”, che negli ultimi anni vedonocome protagonisti alcuni residenti della zona: tra di loro anziani, pensionati e padri di famiglia, che si riuniscono la sera e percorrono le strade del quartiere in cerca di spacciatori.
(…) A Torino, come in molte altre città italiane, esistono dei nomignoli spregiativi per indicare i ragazzi delle periferie. Uno di questi è l’insulto “tamarro” o “zamarro” o “zarro”,che vieneusato per indicare le persone che vestono in modo vistoso e/o si presentano con atteggiamenti eclatanti, talvolta prepotenti. Il vocabolario Zingarelli della lingua italiana definisce il vocabolo “tamarro” come: “Spregiativo. Ragazzo di periferia, rozzo, abbigliato in modo vistoso. Dall’arabo tammâr «venditore di datteri»”. Il “Barriera Armata” fanno proprio questo epiteto “zamarro” e lo trasformano in “Zama”, facendolo divenire un simbolo identitario per tutti quei ragazzi figli di meridionali, che vivono ed hanno vissuto le periferie e si sono magari trovati smarriti in cerca di una identità. Racconta Stefano: “Infatti si nota questa cosa qua, il legame che c’è, che comunque vogliamo conservare, perché noi siamo fieri di essere a Torino ma anche delle nostre origini. Secondo me il mondo se lo vedi da entrambi i lati è meglio, perché se noi andiamo giù ci guardano come “i torinesi” e qua al Nord ci vedono come i “non torinesi”, è un po’ come essere straniero nella tua nazione. Allora noi ci definiamo degli “Zama”, magari un figlio di un immigrato del Sud che vive a Milano riesce anche a capire questa cosa. Gli “Zama” sono i figli degli immigrati dal Sud, adesso sarà così anche per gli extracomunitari, che vivi in una città che non ti vuole”.
Ancora una volta dunque ritorna questo senso di esclusione provato dai ragazzi che abitano i quartieri popolari della città. Emerge la sensazione di non avere avuto le stesse possibilità dei coetanei nati in altre zone della città, di non aver potuto disporre delle stesse risorse. Cantano:
Sempre la stessa trama per gli Zama anche se cambia la data
in Barriera Armata si sta giù, tra terroni in una giungla di scimmioni
King Kong ragazzi fuori, muori per dei fori di pistola o di siringa
qui per tirare avanti si tira la cinghia.
I “Barriera Armata” vogliono principalmente raccontare e denunciare uno svantaggio sociale tipico, a loro avviso, degli immigrati che abitano le periferie della città. Ancora Smooth: “Noi siamo sempre stati con il culo per terra, probabilmente staremo con il culo per terra. Noi intesi come noi due, e noi come la gente che vogliamo rappresentare, la gente che ci ascolta e la gente che si rispecchia nelle cose che diciamo.”
Cantano:
No che non mi è nuova tutta questa situazione
spalle al muro niente in tasca e in testa una sola opzione
sono nato per vincere senza nulla da perdere per me e per i miei Zama ogni strada da intraprendere non sarà la più semplice
si parte dal blocco, già il viaggio costa il doppio
spesso ho visto rosso, senza mai avere un conto
pagato a caro costo sulla pelle, con il sangue col sudore , non col soldo
Il linguaggio usato da questi due rapper è quello della strada ed il tema trattato nelle loro canzoni è quello della critica sociale, uno dei filoni più seguiti nei testi rap internazionali ed anche in quelli italiani. Questi argomenti cantati sembrano attecchire anche tra le seconde generazioni dei nuovi immigrati stranieri. Racconta ancora Smooth: “Ci sono già dei ragazzi figli di immigrati romeni, africani che si identificano “Zama”. Anche loro hanno una parlata che inizia ad essere tipo come la nostra. Che hanno degli intercalari tipo “minchia oh”. Un linguaggio che diviene universale dunque e riesce a fare breccia anche nei nuovi immigrati stranieri, forse proprio grazie ai temi trattati, che vengono sentiti come propri anche dalle nuove seconde generazioni.
(…)I “Barriera Armata” non sono, però, l’unico gruppo rap di Barriera di Milano; un altro rapper del quartiere è Doggy. La descrizione che questi rapper danno della città nelle loro canzoni è esattamente l’opposto di quello che si potrebbe trovare in una guida turistica. Questi cantanti sembrano volerci raccontare il risvolto lacerato del vestito buono della città. Doggy oggi ha trentadue anni ed è il quarto figlio di un uomo siciliano e di una donna campana, emigrati negli anni Settanta a Torino: anche lui è nato e cresciuto in Barriera di Milano. Canta:
Sono la voce dei quartieri
una luce di prua,
una faccia come tante in piazza/sotto casa tua
racconto storie vere/storie del tuo quartiere
di
chi l’arte di arrangiarsi lo ha scelto come mestiere
e c’è
un rapporto viscerale che ci unisce
chi è nato e cresciuto qui/ come me/ mi capisce
Lo incontro un pomeriggio nella sua sala di registrazione: come mi spiega, oggi la musica è diventata il suo mestiere, mi dice che la musica lo ha “salvato” o perlomeno gli ha permesso di lasciare i lavori precari o le giornate contrassegnate dalla noia del non far niente. Ha lo sguardo e la voce da “duro”: si vede che la strada l’ha vissuta, ma si percepisce anche un po’ di insicurezza. Alla mia terza domanda mi chiede “Sto andando bene?” come se fossimo ad un esame. Mi racconta: “Barriera è un piccolo paese, non so come spiegartelo… Ti dico una cosa che mi ricordo io, ero un bambino, e i grandi li vedevi tutta la settimana sporchi da lavoro e la domenica li vedevi vestiti bene che facevano l’aperitivo. Che ne so, l’odore del sugo nel quartiere, per questo mi ricorda molto i paesi del Sud, perché Barriera è molto Sud. Quando ero io piccolo si viveva quest’aria di Meridione”.Nei testi e nei video delle sue canzoni non c’è spazio per le immagini della Torino da cartolina, come il “Parco del Valentino” e la “Mole Antonelliana”: le coreografie dei suoi videoclip sono i palazzoni delle case popolari. Canta:
Qui andiamo a fiuto come i cani
qui il bene si mischia col male /e i regolari con gli infami
qui non è facile stanarli/si nascondon tra le ombre dei palazzi a nove piani
se oggi sono quel che sono/è perché rispecchio dove vivo, dove vivo
tutto ciò che faccio e scrivo/parla di dove vivo, dove vivo
Mi spiega di questo rapporto viscerale e contraddittorio con il proprio quartiere, dove da un lato vedi tutto ciò che non va bene, ma dall’altro non riesci a distaccartene come da un’amante che ti fa soffrire. Dalle sue parole emerge ancora una volta la testimonianza di una rabbia che cova nelle periferie, come la cenere sotto la legna della brace: “La rabbia era tanta, rabbia perché eravamo figli di meridionali come oggi credo un ragazzo marocchino. Quella era la rabbia perché non c’erano tanti soldi, perché eravamo tutti figli di operai. La rabbia c’era e non va via. Quando arrivavamo noi dicevano “eh arrivano gli zarri di Barriera”. E allora eravamo tutti un po’ prepotenti, prima di farmi attaccare, attacco. Io la rabbia l’ho trasmessa attraverso la musica che faccio, molti l’han trasmessa in altri modi e sono arrivati ad un punto dove hanno sbagliato”. Mi ricorda che in certi ambienti per far vedere che esisti è necessario alzare la voce o fare qualcosa di clamoroso. E le azioni “clamorose” in mancanza di alternative possono essere anche le rapine. Canta:
Nessuno ti regala niente/qui non esiste mancia
la mia stirpe di gente/ è gente che si arrangia
non posso permettermi questo
perciò/ se posso/ ti asciugo e ti svesto
in una strada dove è buio pesto
senza troppi né dubbi né se/perché
a ’sto giro mi son fatto anche te
Racconta: “Io oggi ho uno studio di registrazione e registro tanti ragazzini minorenni di Barriera di Milano, per toglierli da una certa situazione. Io conosco due ragazzi che a quindici anni già avevano fatto una rapina a mano armata, due anni fa, ed uno di questi ora lavora da me”. Storie di periferia, che ricordano molto da vicino quelle degli anni Settanta fin qui narrate, meccanismi che sembrano rimanere attuali. Molti dei motivi per cui tutto ciò avviene li abbiamo già visti, ma anche Doggy tramite le sue canzoni vuole aggiungere qualche elemento. Canta:
Sono cresciuto in branco/ fuori dal banco/ di scuola
con l’occhio stanco e con pochi soldi in tasca
arrivando a fine mese con l’acqua alla gola
mio padre schiena a pezzi è una vita che lavora
la strada ti chiama e a te tocca rispondere
Il richiamo della strada è qui visto come una sorta di richiamo della foresta, al quale è difficile non rispondere, se sei cresciuto in certe strade. È il richiamo dei tuoi amici, con i quali passi le giornate sulle panchine, anche perché studiare o andare lavorare non sempre “fa figo”.
(…) La musica hip hop risuona anche nei bagni pubblici di via Agliè, uno dei simboli del passaggio tra vecchia e nuova immigrazione. Questi bagni si trovano a pochi passi da Piazza Cerignola, dove un tempo si concentrò una grossa comunità di immigrati pugliesi. Questi bagni, in passato utilizzati da tanti immigrati meridionali che non avevano ancora trovato una buona sistemazione dove alloggiare, oggi vengono usati in prevalenza da immigrati stranieri. Una parte di questo edificio è, però, divenuto un centro culturale ed in uno dei suoi spazi è stata anche realizzata, in modo artigianale, una sala di registrazione musicale. Questa sala, anche se non permette di realizzare registrazioni tecnicamente perfette, è una risorsa importante per i giovani del quartiere, perché permette loro di ritrovarsi per realizzare della musica. Ed è in questo spazio aggregativo che si conoscono i tre giovani, che hanno formato il gruppo hip hop “I ragazzi di via Agliè”, ispirandosi nel nome proprio alla via dove si trovano questi bagni pubblici. La particolarità della band è quella di essere formata da: Antonio, un giovane della provincia di Matera emigrato a Torino cinque anni fa, e da Yassine e Younes, entrambi emigrati di recente dal Marocco. Antonio è uno degli esempi di come la migrazione interna ai giorni nostri, contrariamente a quello che è il pensiero comune, non si sia affatto arrestata. Le migrazioni interne degli ultimi dieci anni sono un fenomeno silenzioso, che però ha raggiunto dimensioni di grande rilevanza. Nel solo 2008 il Sud ha perso oltre 122mila residenti, trasferitisi nelle regioni del Centro-Nord. La stretta correlazione tra la vecchia emigrazione interna e quella di oggi emerge dalla provenienza: nel 2006 le aeree metropolitane con perdite migratorie in assoluto più consistenti sono Napoli, seguita da Palermo e da Bari. Cambiano forse parzialmente le mete: Roma, Milano e Bologna sono le città che hanno ricevuto più immigrati interni. E a cambiare è sicuramente la composizione sociale di chi lascia il Sud oggi: a partire sono principalmente i giovani qualificati, non più i contadini, e molti ragazzi arrivano adesso nelle città del Centro-Nord con la laurea in tasca.
Ma torniamo al nostro gruppo musicale. Uno dei pezzi di maggior successo dei “Ragazzi di via Agliè” è il singolo “Torino Nera”: il videoclip di questa canzone ha ottenuto migliaia di visualizzazioni sul web. Il testo racconta di come la capitale sabauda negli anni sia divenuta multietnica, in modo particolare in alcuni quartieri, come appunto Barriera di Milano. Cantano:
È nera , Torino giù a Barriera
Intrecci di cultura sotto un’unica bandiera
Fa attenzione, a volte ha un po’ paura,
è sola alla stazione, abbassa la sicura
Con le loro canzoni e con questo testo in particolare i “Ragazzi di via Agliè” vogliono provare a tracciare un filo ideale tra vecchi e nuovi immigrati che abitano il capoluogo piemontese. Cantano:
E lì conserva il suo passato
fatta di migranti e di radici che han piantato
volti di un quadro mai finito
ma di un tempo già vissuto e la storia è già sentita
oggi sei straniero la solita canzone
prima targa Meridione e poi viva la nazione
io non sono più terrone ma se torno nei panni poi
io ne comprendo l’intenzione
Racconta Antonio: “Quando si subisce qualcosa ci sono due strade: o quella di comprendere le persone ed aiutarle a non subire la stessa cosa o quella di dargli addosso. Purtroppo anche tra i meridionali che sono emigrati qua c’è chi addita molto gli extracomunitari, dimenticandosi che trent’anni fa gli immigrati erano loro. Nella canzone noi diciamo “non sono più terrone” nel senso che mi sono ambientato, ma la musica è un ottimo vettore per ricordare cosa vuol dire emigrare”.
Le strofe delle loro canzoni sono composte con un misto di italiano e di arabo e non manca anche qualche testo in dialetto lucano. Culture tra che si fondono e così nella canzone “Jé só de Stigghiàno”, ovvero “Io sono di Stigliano”, che è il paese di origine di Antonio, alcune strofe in dialetto lucano vengono cantate anche dal marocchino Yassine. Il loro messaggio grazie ad internet e ai suoi potenti canali di diffusione come “You Tube” e “Facebook” attraversa le frontiere e riesce a raggiungere anche i ragazzi dei paesi di origine. Racconta Yassine: “È un messaggio forte quello della musica, non è che prendi il microfono e leggi le cose. Tramite la musica avrai dei fan che ti ascoltano e pubblicano le tue canzoni e magari il messaggio arriva ovunque. Tra i ragazzi marocchini a Torino la nostra musica è tanto ascoltata ed anche in Marocco, addirittura. Con le nostre canzoni vogliamo far capire ai ragazzi che stanno in Marocco la realtà, che magari pensano che vanno in Europa e trovano tutto ed invece qua sta peggiorando, non c’è lavoro, non c’è niente.” La musica rap è dunque ancora oggi potente mezzo di comunicazione per i giovani immigrati che, tramite queste strofe, vogliono far sentire al mondo che esistono anche loro.
Gli “ExXtra” sono un’altra band hip hop di Torino, formata da Milo, nato in Italia e originario del Congo e da Isi arrivato da piccolo dal Marocco. Il nome d’arte scelto da questi ragazzi “ExXtra” fa probabilmente riferimento alla parola “extracomunitari”; ancora una volta come nel caso degli “zama/zamarri” ci si riappropria, trasformandolo, di un appellativo che viene normalmente utilizzato per escludere: “loro/zamarri”, “loro/extracomunitari”. In questo caso, il “loro/extracomunitari” diviene un “noi/exXtra”. Cantano:
Vogliono sapere chi o cosa noi siamo:
siamo quelli che/ anche se/ è dura per adesso
spingiamo per avere un domani meglio di questo
se ci ascolti e ti ritrovi dentro questo testo
l’ora è questa/ condividi/ il nostro ExXtra manifesto
Le strade dell’hip hop nelle periferie delle grandi città italiane sono sentieri nuovi da esplorare, ma che promettono sicuramente dei risultati interessanti per le ricerche future, perché possono indicare tra le altre cose un continuum tra le esperienze migratorie dei vecchi e dei nuovi figli di immigrati, siano essi stranieri o italiani.